Ripropongo in tre momenti diversi un saggio di Angelo Petrella. Si tratta di un ritratto critico di Edoardo Sanguineti apparso nel 2005 sulla rivista Belfagor, n.359, pagg. 543-546. Questa è la prima puntata. La seconda è programmata per l’8 marzo 2017 e la terza per il 15 marzo. L’immagine si riferisce ad una cartolina di Carol Rama inviata all’autore del saggio da Sanguineti.
B.C.
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte
di Angelo Petrella1. “Triperuno”: l’avanguardia e il suo superamento
La prima raccolta poetica di Edoardo Sanguineti può ben essere accolta come metafora della personalità dell’autore: una pulsione anarchica distruttiva puntualmente corretta da un vigile razionalismo progettuale. Non a caso, la carriera accademica di Sanguineti comincia, grazie a Giovanni Getto, poco dopo la pubblicazione dell’opera prima Laborintus. A più riprese, proprio la partecipazione ai lavori della Neoavanguardia creerà complicazioni nel mondo universitario. Il percorso intellettuale sanguinetiano risponde in effetti a quest’esigenza ribelle e antagonista, ma da praticarsi attraversando e utilizzando l’istituzione, in tutti i campi. Lo testimonia, ad esempio, la sua militanza comunista di non iscritto al partito pur ricoprendo diversi incarichi politici, prima come consigliere comunale e poi come deputato al parlamento; il tentativo di chiusura con l’ermetismo teso a rivalutare la linea crepuscolare della lirica italiana; non ultima, l’ostentata proposta di un anti-canone nella celebre antologia Poesia italiana del Novecento.
Il nome di Sanguineti è indissolubilmente legato all’esperienza del Gruppo 63, di cui fu uno degli ideologi e promotori, sebbene la sua prima produzione poetica indichi la necessità di un rinnovamento senza ancora aver coscienza dei futuri esiti neoavanguardistici. Laborintus viene dato alle stampe nel 1956 per l’editore Magenta, grazie all’interessamento di Luciano Anceschi: le reazioni del pubblico saranno poche e non molto lusinghiere, almeno fino alla pubblicazione dell’antologia I Novissimi nel 1961 (Andrea Zanzotto parlò addirittura di «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso»). Eppure, la prima raccolta sanguinetiana contiene elementi di grande novità non solo per la rottura con le linee dominanti della poesia italiana, ma anche per i modelli culturali e letterari europei a cui si riferisce. Gli anni Cinquanta sono anni in cui accanto al neorealismo in declino dominano la linea ermetica, quella montaliana e quella sabiana: Sanguineti vuole appunto chiudere con queste esperienze e, in definitiva, con la lirica, ovvero con il modello poetico per eccellenza della poesia borghese. Ma come metterlo in discussione? La via d’uscita è fornita dall’esempio delle avanguardie storiche, che rappresentano il punto massimo di contraddizione cui giunge la cultura borghese: solo attraversandole sarà possibile far esplodere dall’interno quelle contraddizioni e, con esse, il linguaggio tout court.
Questa tensione non è solo letteraria, ma innanzitutto culturale: al caos del mondo in preda alle trasformazioni sociali successive al dopoguerra corrisponde il caos linguistico e informale a cui tentare di dar forma. La sistematizzazione del disordine è la spinta propulsiva iniziale del progetto di Laborintus, che pure è consapevole dell’impossibilità di redimere il mondo attraverso il linguaggio: l’opera è tutta protesa verso la conquista di un significato assoluto, di una junghiana coincidentia oppositorum, di una palingenesi rivoluzionaria che viene però continuamente rimandata. Non resta che una realtà in frantumi, così come accadeva per gli autori del grande modernismo. Ma con una differenza fondamentale: se il frammento linguistico eliotiano serve a tentare di puntellare e sorreggere le rovine, se il plurilinguismo poundiano risponde alla tensione titanica di riassumere il mondo, il sanguinetiano «viaggio nell’inferno borghese serve solo a rivelare che nel suo orizzonte non si dà salvezza» (Romano Luperini 1981, 835). La frammentarietà di Laborintus comincia dalla materia dell’espressione e investe addirittura il piano visivo del segno linguistico: punteggiatura, numeri e disposizione grafica del testo appaiono esplodere e dilatarsi, quasi mossi da paura di annientamento. Il verso viene assemblato in modo asintattico, scardinando la regolarità in funzione di un ritmo tutto singhiozzante, ironico e corrosivo, ricco di figure del significante:
tu e tu mio spazioso corpo
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
Con Opus metricum (Rusconi e Paolazzi, 1961) Sanguineti ripubblica i testi di Laborintus assieme a quelli del nuovo ciclo Erotopaegnia. Questa seconda raccolta fa da contrappunto dialettico alla prima: la pulsione alla sublimazione diventa qui una descrizione eroicomica e grottesca di atti fisici ed erotici, dove ossessivamente ritornano temi inerenti alla nascita, alla penetrazione, alla maternità. Ciò che colpisce a una prima lettura è innanzitutto il recupero di un certo grado di narratività, dall’ictus molto reiterato, anche se continuamente frustrata da interruzioni. Questo movimento spezzato lascia intuire già quale sarà il percorso di ricerca successivo di Sanguineti: inserti, parentesi, finte esclamazioni, invocazioni, ricordi improvvisi e stralci di conversazione cercano di costruire un discorso comunicativo ma criticamente distanziato. In secondo luogo, nei testi di Erotopaegnia si nota un certo lirismo di stampo crepuscolare, ma abilmente camuffato dall’abbassamento ironico e dallo straniamento (questi sono gli anni in cui, d’altronde, Sanguineti lavora ad alcuni dei saggi che nel 1965 confluiranno in Tra liberty e crepuscolarismo). Quando però la lirica viene esibita esplicitamente e senza interruzioni, la poesia si trasforma in inno alla materialità dell’esistenza caricandosi di tensione oppositiva.
Nel 1964, sotto il titolo di Triperuno, Feltrinelli ripubblicherà le raccolte precedenti aggiungendovi il terzo ciclo di Purgatorio de l’Inferno: il titolo, tratto da una presunta e inedita opera di Giordano Bruno, allude a una tentativo di riscatto e di redenzione dal magma pullulante dell’esperienza umana e avanguardistica. Dopo aver toccato il fondo paludoso del linguaggio e della cultura borghese, alla ricerca insoddisfatta dell’utopia, è ora di «lasciarsi il fango alle spalle» e iniziare a ricostruire da capo la realtà. Cosa è accaduto rispetto alle prime due raccolte poetiche? Innanzitutto, il convegno di Palermo del 1963 ha decretato la nascita della Neoavanguardia: ed è singolare notare come la costituzione del Gruppo 63 sia cronologicamente posteriore al superamento sanguinetiano della fase anarchica e distruttiva. Nello stesso anno, infatti, Sanguineti pubblica sulla rivista Il Verri il saggio Per una nuova figurazione, celebrando il neofigurativismo dell’amico Enrico Baj e del gruppo dei pittori nucleari. Ci troviamo di fronte al compimento del progetto di trasformazione dell’avanguardia in arte da museo: il problema «era quello di capire quale tipo di comunicazione fosse possibile, una volta raggiunta la soglia del silenzio: abbandonare la scrittura o esplorare altre strade?» (Fabio Gambaro 1993, 79). Alla scelta rimbaudiana Sanguineti preferisce la seconda opzione, dedicandosi pertanto a sondare ogni terreno possibile a una rifondazione dello statuto iconico del linguaggio, anche se non realisticamente mimetico: la figurazione costituirà il terreno di partenza di tutte le successive vie di ricerca e sperimentazione.
Lo stile di Purgatorio de l’Inferno, pur ricco di interferenze, è infatti sostanzialmente comunicativo: le libere associazioni, la furia elencatoria o le continue incidentali non riescono a soffocare il discorso narrativo che si apre alla realtà attraverso scorci diaristici, a partire da situazioni personali, quotidiane o politiche. Da più parti, questo ottimismo è stato interpretato come falsa ricomposizione utopica della realtà attraverso la mitopoiesi: Alberto Asor Rosa, ad esempio, individuava in Purgatorio de l’Inferno una ricaduta nell’ideologia che rimanda messianicamente l’idea di rivoluzione e il confronto con i problemi concreti del presente (Asor Rosa 1973, 158-60). Questo tipo di giudizio riassume in verità troppo sbrigativamente la complessità di un’opera che si pone quesiti nuovi in un momento storico del tutto peculiare. La ricomposizione del mondo tramite la poesia non è mai appagata, ma è sempre motivo di tensione non soddisfatta: è un realismo non rispecchiato, dunque più brechtiano che lukacsiano. La mimesi, d’altronde, è bloccata sul nascere grazie al ricorso a un’atmosfera onirica, come a voler espandere e straniare la percezione della realtà: si ricordi che il 1963 è anche l’anno in cui Sanguineti dà alle stampe il romanzo Capriccio italiano e il testo teatrale Passaggio, per le musiche di Luciano Berio, in cui il sogno esercita un ruolo fondamentale. Diarismo, critica sociale ed onirismo costituiranno la matrice propria di tutta la poesia sanguinetiana almeno fino agli anni Novanta.
2. Figurazione e crepuscolarismo da “Wirrwarr” a “Postkarten”
La raccolta intitolata Wirrwarr (Feltrinelli, 1972), composta da T.A.T. e Reisebilder, viene data alle stampe dopo un lungo periodo di silenzio poetico. Negli anni successivi alla pubblicazione di Triperuno, infatti, Sanguineti ha dedicato molte delle sue energie alla stesura di saggi critici e teorici, di testi teatrali e di narrativa, nonché dell’antologia sulla poesia italiana. Eccezion fatta per le sette poesie di T.A.T., già pubblicate dall’editore Sommaruga nel 1968, il silenzio poetico è presto spiegato con il vuoto ideologico lasciato dall’esaurimento della spinta neoavanguardistica e sessantottesca: la condizione affatto incerta e provvisoria della poesia rende impossibile strappare indicazioni o ipotesi al futuro. Non a caso, il titolo tedesco della nuova raccolta può tradursi sia con il termine di «guazzabuglio» che con quello di «zibaldone», alludendo all’implicita dicotomia dell’opera che accosta l’arduo informalismo del primo ciclo al diarismo discorsivo del secondo.
T.A.T. sta per «Tests di appercezione tematica», ovvero le prove visive elaborate dallo psicologo Henry Murray: qui si assiste indubbiamente alla ripresa e all’esasperazione di quell’informalismo che si era manifestato già in Laborintus. La frattura tra segno e referente è decisamente consumata non solo al livello sintagmatico, ma addirittura al livello intraverbale. Il linguaggio è desemantizzato e tocca il limite di comprensibilità, testimoniando come unica verità l’impossibilità di significare univocamente. Già Walter Pedullà notava come i testi di T.A.T. servissero in qualche modo a «ibernare» l’esperienza della Neoavanguardia per tramandarne al futuro quanto v’era stato di più sconvolgente (Pedullà 1963, 563).
I cinquantuno componimenti di Reisebilder costituiscono invece il resoconto di un viaggio compiuto dall’autore tra Germania e Olanda nel 1971. Ciò che colpisce di questa raccolta è l’assoluto abbandono a un tono scorrevole e narrativo: le continue parentesi non creano più interferenza, sparisce quasi del tutto il plurilinguismo e le stesse citazioni variamente estratte da autori tedeschi hanno più la funzione appositiva che non quella straniante. Sanguineti porta avanti la linea diaristica ma svuotandola ormai delle tensioni che pure ancora riempivano Purgatorio de l’Inferno. In Reisebilder non c’è più nulla da distruggere o da difendere: il poeta si guarda nello specchio e riconosce nei propri lineamenti la perdita definitiva del ruolo intellettuale nella società post-sessantottesca. Non si dimentichi che nel 1971 esce Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini, mentre tra il 1968 e il 1973 Zanzotto pubblica La beltà e Pasque, dove la polemica contro l’insufficienza della lingua si traduce in uno scioglimento del binomio significante/significato e nel tentativo di salvare il dicibile attraverso una lingua nuova e sperimentale. In Sanguineti, come si sa, il problema non si consuma tanto nel rapporto tra linguaggio e comunicazione, ma tra linguaggio e ideologia: finita l’epoca delle grandi utopie, Reisebilder decreta il fallimento del tentativo di riconciliare il linguaggio con la realtà, così come testimonia l’impossibilità di cantare tragicamente quel fallimento. L’unico modo di far poesia è in maniera abbassata, sottilmente ironica, quasi silenziosa. Sanguineti mostra di adottare la lezione crepuscolare (per altro ben sviscerata già nei saggi di Tra liberty e crepuscolarismo), ma abbassandone il registro polemico e temperando sia il patetismo radicale gozzaniano che la dissacrazione divertita palazzeschiana. Tutto è a posto così com’è, senza tragedia o pathos.
Postkarten (Feltrinelli, 1978) sembra poi sbloccare la situazione di stallo in cui era finita la poesia di Reisebilder, che ancora mostrava sensi di colpa per lo smarrimento di un’identità poetica: l’irrimediabilità della condizione prosastica della poesia viene ora adottata e introiettata quasi con gioia, al punto da lasciare spazio a situazioni anche comiche e grottesche. Il tono si fa decisamente colloquiale e la punteggiatura è ormai un mero strumento grafico per staccare i sintagmi l’uno dall’altro: ma, contemporaneamente, è insistente il ricorso sapiente a versi tradizionali anche se abilmente mascherati. Non si dà più alcuna condizione di rivolta e la parola poetica smitizzata e inutile sopravvive in un discorrere motteggiante, intellettuale e quasi precettistico, che galleggia sui frammenti del mondo, al punto da far rilevare a più d’un critico l’affinità col coevo Satura di Eugenio Montale. Sanguineti, attraverso il quotidiano, si libera dalla paura del vuoto ideologico dei primi anni Settanta e adotta un nuovo registro, alla ricerca di un’annullamento dell’identità finora avuta:
perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi, che ho perduto tutto, o quasi): (e
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire,
questa volta, lo sai):
oggi il mio stile è non avere stile:
In questo senso Postkarten va letto come filiazione e dilatazione delle basi gettate nella raccolta precedente. Non è un caso che il volume feltrinelliano del 1975, intitolato Catamerone, includa l’intera produzione poetica di Triperuno e Wirrwarr: con questa operazione, Sanguineti suggella l’esperienza avanguardistica e a un tempo la gestazione di quella fase di trapasso post-sessantottesca. Reisebilder e Postkarten vanno letti come successiva progressione dialettica verso la distruzione dell’identità borghese del poeta, che verrà elaborata a partire dalle due raccolte successive.
[continua]
Testo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2017/03/01/ritratto-critico-edoardo-sanguineti-parte/
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