Composto nel IV-III secolo a.C. e divenuto il
libro-chiave del taoismo, «Il canone della Via e della Virtù»
torna in un’aggiornata edizione filologica con testo a fronte. Fra
i suoi appassionati lettori Ernst Jünger,
Carl Gustav Jung, Hermann Hesse, Lev Tolstoj e Simone Weil.
Amina Crisma
Laozi, dimensione
politica e natura provocatoria di un classico cinese
«Opera di incomparabile
splendore verbale», da annoverare fra le più alte espressioni della
sapienza antica di ogni latitudine: così Simone Weil definiva
il Laozi o Daodejing, «Classico della Via e della
Virtù», o per dir meglio «Classico della Via e della sua Potenza»,
libro composto nel IV-III secolo a.C. che è assurto a testo canonico
per eccellenza del taoismo e che costituisce uno dei più fulgidi
contributi della cultura cinese alla letteratura universale.
Fin dall’incipit rivela
la forza di un linguaggio enigmatico e paradossale, intessuto di
audaci accostamenti di contrari e costantemente indirizzato a
misurarsi con l’indicibile: «Senza nome è di Cielo e Terra
l’avvio, / ha nome quel che dei Diecimila Esseri è la Madre…».
Vi si esprime un pensiero poetante di cui ci sono altre
significative testimonianze nella letteratura coeva (come il
suggestivo Taiyi sheng shui, “Il Supremo Uno genera
l’acqua”, e il breve e folgorante Neiye, “La
coltivazione interiore”, del quale ho offerto di recente la prima
edizione italiana, Garzanti 2015), ma che nel Laozi si
caratterizza per la sua speciale valorizzazione del Femminile: se si
vuol dare un nome all’infinita potenza cosmica generatrice,
animatrice e armonizzatrice dell’universo, che di per sé eccede
ogni definizione e ogni distinzione, la si può chiamare «Madre»,
«Femmina Oscura».
Molteplici aspetti
del Femminile compaiono così nelle 81 stanze ritmate e rimate
del Laozi a configurarne il tema centrale: il Dao,
ossia il Grande Tutto, l’infinita Processualità in cui convergono
le contraddittorie forze presenti nella realtà. È un infinito che
per sua natura si sottrae ai limiti del linguaggio, e che dunque si
può evocare solo in via apofatica: la sua perpetua e
sfuggente coincidentia oppositorum è irrappresentabile, in
quanto è al contempo Esserci e Non esserci, Vuoto e Pieno, Silenzio
e Parola, Latente e Manifesto, Luminoso e Oscuro, Forma e Informe,
Presenza e Assenza, Unità e Molteplicità – altrettante dimensioni
simultaneamente affermate e negate in un funambolico gioco espressivo
che pervade da cima a fondo tutto il testo.
Non ci può dunque
stupire che fra i libri famosi dell’antichità cinese esso sia
indubbiamente il più frequentato e amato. Fra i suoi appassionati
lettori si contano, fra gli altri, Ernst Jünger, Carl Gustav Jung,
Hermann Hesse, Lev Tolstoj e, come s’è detto, Simone Weil;
verosimilmente ha costituito persino una fonte occulta per Martin
Heidegger. È il testo in assoluto più tradotto al mondo dopo la
Bibbia, con versioni in oltre duecentocinquanta lingue, yiddish ed
esperanto inclusi, e su di esso è fiorita nel corso del tempo
un’immensa letteratura esegetica che continuamente si arricchisce
di nuovi apporti; tuttavia, nonostante la molteplicità di
interpretazioni a cui ha dato luogo, esso sembra tuttora resistere
alla presa, come se quell’insondabile fondo di mistero (xuan) a cui
sovente allude – «l’Arcano degli Arcani» che costituisce, come
un grembo invisibile e inesauribilmente fecondo, la segreta unità
degli esseri e la comune matrice del divenire universale – si
irradiasse sulle cinquemila parole che lo compongono, conferendovi
una sorta di perdurante inafferrabilità.
Altrettanto
enigmatica ed elusiva è la figura dell’autore a cui la tradizione
lo attribuisce, Laozi (il «Vecchio Maestro» o il «Vecchio
Bambino»), indicato dalla leggenda come l’iniziatore del taoismo e
protagonista di tutta una rigogliosa agiografia che lo effigia come
un incatturabile drago, che sarebbe vissuto fra il VI e il V secolo
a.C., ma del quale in realtà non si sa nulla di certo. Una
suggestiva favola, che fra l’altro piacque a Bertolt Brecht, vuole
che egli abbia composto l’opera e l’abbia consegnata a un
guardiano della frontiera prima di sparire misteriosamente a
Occidente: e questa storia conobbe una rinnovata fortuna con
l’introduzione del buddhismo in Cina nei primi secoli dell’era
volgare, allorché si diffuse la tendenza a presentare il Buddha come
Laozi reincarnato.
Propone un rinnovato
confronto con quest’opera impervia e affascinante la nuova edizione
che compare ora da Einaudi, con testo a fronte, a cura di Attilio
Andreini (Laozi, Daodejing Il canone della Via e della Virtù,
«PBE Classici», pp. XXXV – 246, € 22,00). Al curatore, che ci
ha dato numerosi studi importanti sulla Cina antica, si deve già una
fondamentale edizione einaudiana di questo classico apparsa nel 2004,
con un ampio saggio introduttivo di Maurizio Scarpari (Laozi, Genesi
del Daodejing): un lavoro che si connotava originalmente rispetto
alle versioni consuete perché non si atteneva all’ordinamento
convenzionale del testo, ma a quello della sua più antica redazione
completa finora in nostro possesso, il cosiddetto Laozi di Mawangdui
(manoscritto su seta rinvenuto nel 1973, e risalente circa al 200
a.C.). Quella versione era centrata soprattutto sui problemi della
formazione dell’opera, riconsiderati alla luce delle ingenti
scoperte archeologiche e delle acquisizioni di manoscritti rimasti a
lungo ignoti che hanno radicalmente riconfigurato negli ultimi
decenni le nostre percezioni e rappresentazioni dell’universo
scritturale della Cina pre-imperiale.
L’attuale edizione,
invece, pur alimentandosi anch’essa agli esiti delle più recenti
ricerche filologiche, sposta risolutamente il proprio accento su una
prospettiva filosofica, scegliendo di valorizzare la relazione
ermeneutica con il testo a partire dalle sue parole chiave e dai suoi
temi ricorrenti, ed emancipandone la lettura dalla questione (non di
rado fuorviante) del suo controverso rapporto con quel complesso
fenomeno noto con il nome di «taoismo».
L’interprete accompagna
passo per passo il lettore alla scoperta della ricchezza non univoca
del libro, rifiutando di rifugiarsi in una resa letterale che lo
renderebbe astruso e incomprensibile, ed esplicita costantemente il
proprio ruolo di mediatore, assumendosene dichiaratamente la
responsabilità e procedendo anche, quando gli pare opportuno, a
espansioni del testo utili a illuminarne le più sottili implicazioni
e i più reconditi significati. Ogni stanza in cui si articola
il Daodejing è accompagnata da un fluido commento
esplicativo che attinge ampiamente a una vasta letteratura esegetica,
fra cui primeggia il riferimento al magistrale commentario al Laozi
di cui è autore nel III secolo d.C. Wang Bi, pensatore fra i più
originali e creativi di tutta la storia cinese.
Il lettore ha così
la possibilità di fare diretta esperienza dell’inesausta fertilità
di quelle strategie commentariali del pensiero che, non solo in Cina,
hanno rappresentato forme peculiari della sapienza antica: una
sapienza che, come hanno sottolineato indimenticabili studi di Werner
Jaeger e di Pierre Hadot, anche in Grecia mira a edificare non tanto
un’astratta costruzione intellettuale, bensì un’integrale
pratica di vita, in cui cosmologia, cura di sé e azione di governo
sono ambiti non separati, ma inscindibili e convergenti.
I precetti di
autocoltivazione su cui il Laozi insiste si devono
intendere come specificamente rivolti al saggio sovrano, e sono
sintetizzabili nella formula zhi shen zhi guo, «conferire
ordine a se stessi per governare lo stato». La contemplazione del
cosmo fa tutt’uno con la trasformazione di sé, e quest’ultima
non è orientata a un solipsistico divorzio dal mondo, ma
all’assunzione piena del compito e della responsabilità di
governarlo che si esplica nella modalità del wuwei, del «non
agire», ossia dell’«agire che non forza», che rinuncia
all’arroganza antropocentrica dell’umana violenza per porsi in
sintonia con la norma suprema dell’armonia cosmica; si attua così
un intervento nella realtà non invasivo, non coercitivo, non dettato
da secondi fini, che viene restituito alla dimensione più pura
dell’abbandono incondizionato e disinteressato, e che da ciò trae
la sua suprema efficacia.
Conferendo piena
visibilità e completo risalto alla dimensione
eminentemente politica e alla natura polemica e
financo provocatoria del Laozi, questa edizione di
Andreini si riallaccia risolutamente a una cospicua linea esegetica
nettamente distante da certe insipide letture correnti che, riducendo
questo grande classico alla banalità di un vago misticismo
post-moderno, ne fanno l’ennesimo oggetto di facile consumo da
offrire all’insaziabile bulimia narcisistica di uno stanco
Occidente.
Il manifesto/Alias – 22
aprile 2018