L'eterna rinascita del mito di Faust
Claudio Magris
I più grandi personaggi della letteratura universale — ma anche della musica e di altre arti — che ricorrono nelle opere e nei secoli come Ulisse, Faust, Antigone o don Giovanni, sembrano appartenere non tanto e non solo all’uno o all’altro degli autori che ne hanno scritto, quanto alle diverse civiltà che hanno dato loro vita e all’umanità stessa, che si interroga sul proprio destino e sul senso del proprio vivere, agire e morire. Nel mito faustiano il patto col diavolo sigilla una scommessa che riguarda l’esistenza intera — la sua esperienza totale e la sua conoscenza, il piacere più sensuale e immediato e la consapevolezza del dolore, dell’assoluto e del nulla. Faust firma il contratto consapevole di dover forse accettare la dannazione eterna pur di cogliere l’attimo in cui la vita riveli la pienezza del suo significato. La storia di Faust vive e viene ripresa nei capolavori di Goethe, Marlowe, Calderòn de la Barca, Lenau, Heine, Bulgakov, Valéry e tanti altri, grandi e minori, come in tante opere musicali e cinematografiche. Si inserisce, sin dalle origini, nelle dispute tra Riforma e Controriforma e, prima ancora, nelle antiche leggende e tradizioni paleo-cristiane, in numerosi testi anonimi collegati soprattutto alle tradizioni ermetiche e alla demonologia, nel teatro di marionette; acquista un rilievo centrale nell’Illuminismo. Una storia senza fine, che coinvolge il Sabba medioevale delle streghe e quello nazista. Il secondo Faust di Goethe abbraccia pure l’incertezza tra salvezza e perdizione, tanto più inquietante perché fa i conti con gli inevitabili rapporti fra progresso e violenza, rapporti demonicamente attuali già nel testo goethiano, come quando il grande e nobile progetto di Faust — costruire una libera terra dove possa vivere un libero popolo — deve passare attraverso la violenza, la distruzione del piccolo pezzo di terra dove vivono felici due vecchi coniugi i quali devono essere eliminati dall’avanzata del progresso moderno, che ha bisogno di vasti spazi ed è indifferente ai piccoli destini. Mefistofele interviene pure in soccorso della pericolante economia dell’impero stampando a tutto spiano cartamoneta straccia. Ma Goethe ha una visione globale e il suo Faust è anche — forse soprattutto, dal punto di vista poetico — la tragedia di Gretchen, di Margherita, del suo amore pure e totale, che echeggia nel suo canto all’arcolaio e nel Re di Thule, la canzone dell’amore e della fedeltà. Gretchen è la donna stritolata dalla violenza, dall’irresponsabilità e dall’egocentrismo maschile — Faust deve muoversi nel Grande Mondo, in cui non c’è spazio per l’amore e per la fedeltà, per la vita vera e condivisa. Anche se, pur nell’errore presente in ogni affannarsi nel mondo, come Faust sa bene e proclama esplicitamente, l’oscura consapevolezza di una giusta via è una possibilità di salvezza. Ma se nel capolavoro di Goethe Faust si salva, anche se in modo ambiguo, molti altri finiscono dannati. Si può oggi credere nella salvezza di Faust? È improbabile, ma non impossibile, che non ne fosse certo neppure il poeta. Lasciava che fosse l’opera stessa a deciderlo, così come non aveva fretta di finirla, nonostante la sua enorme complessità e il poco tempo che gli restava della sua vita. Il mondo faustiano di Goethe è un mondo di metamorfosi, che si aprono all’incantevole e inquietante scorrere della vita; nel suo Divano occidentale-orientale la bellissima Suleika invita ad amare, per un attimo, nella sua bellezza e nella sua bocca l’infinità eterna di Dio. Ma il Faust goethiano, specialmente il secondo, è l’inquietante rappresentazione di un mondo allora ancora futuro e per noi oggi presente, un mondo in cui l’artificio, l’artificiale sono diventati la vera natura e fiori e piante non conoscono più stagioni. Un mondo in cui si può creare homunculus, l’uomo artificiale — il futuro libero suolo per un libero popolo è già Silicon Valley. Forse solo di Gretchen si può dire «è salva»; degli altri, che fanno la storia passando come Faust sopra di lei si può forse dire soltanto che sono «passati». Il secondo Faust è veramente incommensurabile; è anche estremamente difficile metterlo in scena. Lo fece, molti anni fa, Giorgio Strehler: avevo potuto assistere spesso alle prove al Piccolo Teatro e avevo così potuto veder nascere e formarsi quel meraviglioso spettacolo. L’unico problema era Strehler; grandissimo regista e straordinario anche nel correggere gli attori, in quell’occasione si era talmente identificato, con una vera megalomania, con Faust da recitare in modo enfatico, talora oltre misura. Faceva parlare Giorgio Strehler, non Faust. Una volta, dopo aver recitato un brano, si voltò e mi chiese: «Te gà piasso?» «No», non potevo fare a meno di rispondergli. Per conoscere il Faust, quando ero al Liceo, si consigliava di leggere Il mito di Faust di Vincenzo Errante, ottimo libro che oggi certo mostra la patina del tempo. Ora è uscito uno splendido volume di Paolo Scarpi, Faust. Dalla leggenda al mito (Marsilio), che coglie a fondo, con concisa e incisiva chiarezza, il senso profondo e plurisecolare di questo mito che continua a rinascere sempre in nuove forme e in nuovi contesti. Un dono vitale, prezioso in un mondo in cui sembra che tutti scrivano e che nessuno legga. Il libro di Scarpi è un esempio di completezza, di finezza interpretativa e di scrittura nitida e coinvolgente. Mi permetto di aggiungere agli esempi presentati e interpretati da Paolo Scarpi altri due, che mi sembrano di grande forza poetica e che non mi stanco mai di ricordare. In un tardo frammento — forse l’ultimo — di Svevo il vecchio sta andando a letto, dove la moglie sta già dormendo, e pensa che è mezzanotte, l’ora in cui potrebbe apparirgli Mefistofele e riproporgli l’antico patto. Lui sarebbe subito pronto a cedergli l’anima, ma non saprebbe cosa chiedergli in cambio; non la giovinezza, spesso insensata e smarrita, anche se la vecchiaia è difficile e crudele; non l’immortalità, perché la vita è dolorosa, sebbene la morte sia angosciosa. Si rende allora conto di non avere nulla da chiedere al diavolo e pensa che Mefistofele debba essere imbarazzato perché i prodotti della ditta che egli rappresenta non sono richiesti. Il diavolo non viene, non c’è ed è questa la tragicità, il nulla. All’idea di Mefistofele che si gratta imbarazzato la barba, il vecchio si mette a ridere, mentre la moglie accanto a lui, sotto le coperte, mezza sveglia e mezza addormentata, borbotta «beato te che a quest’ora hai ancora voglia di ridere» e si gira dall’altra parte. Quel riso e quel sonno dissimulano la disperazione nell’amabile consuetudine quotidiana e costituiscono una delle ultime spiagge cui è giunta, nel suo nichilismo, la coscienza occidentale, consapevole che la vita, svanite le gerarchie morali e affettive, non induce più in tentazione. C’è anche un’altra grandissima pagina della letteratura universale in cui il diavolo non arriva: nel Grande Sertaõ, il romanzo o meglio l’epos di Guimarães Rosa, un capolavoro assoluto, il protagonista, un semi-fuorilegge dei grandi altipiani brasiliani, è incalzato, nel suo vagabondo errare dal tentatore, dal male, «il Manfarro, Quello che non esiste, l’Io-Sfrenato, il Lui» finché una notte va ad attenderlo nella brughiera. Il diavolo non si presenta, perché egli è il nulla, il non-essere sempre in agguato. Il cavaliere del Sertaõ accetta la sfida del nonessere, giungendo a quel confine oltre il quale ci si perde, ma guardando nel nulla riconquista la totalità epica della vita senza farsi risucchiare da quel vuoto e tuffandosi «nell’andirivieni» delle cose. Già il Faust di Goethe veniva rigenerato dall’aurora, dalla vita che sempre ricomincia, ma questo avviene nel suo primo Faust, mentre nel geniale megastore del secondo Faust anche il cavaliere del Sertaõ si troverebbe in difficoltà.
Articolo ripreso da Corriere della Sera, 23 novembre 2021
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