LA LEGGENDA DEL MARABITO RACCONTATA DA DOMENICO GAMBINO
Se fosse davvero così la Sicilia sarebbe la terra più ricca del mondo. Mi riferisco, naturalmente, alle leggende che ci narrano di immensi tesori nascosti nelle viscere della nostra Isola, ovvero le "trovature", che nella mitologia greca sono chiamate "plutoniche" con riferimento a Plutone, fratello di Giove e re del mondo sotterraneo.
Tra queste è la leggenda del Marabito, un monte meglio conosciuto come pizzo ricadente nell’interno della provincia di Palermo e ubicato nel territorio del comune di Mezzojuso, narrata in diversi studi di folklore e di tradizioni, magari con diversità di particolari ma con una trama sostanzialmente identica. Questa leggenda è stata oggetto di una mia ricerca che ho pubblicato nel mio libro "Campofelice di Fitalia tra storia e tradizione" (2007) e che ho pensato di adattare e pubblicare qui in più puntate:
1. L'origine delle leggenda
2. I racconti
3. Ritorno alla realtà
LA LEGGENDA DEL MARABITO – PRIMA PARTE
• L’ORIGINE DELLA LEGGENDA
Il viaggiatore che trovandosi nell'entroterra palermitano percorre la strada da Campofelice di Fitalia a Mezzojuso, a poche centinaia di metri all’uscita del paese, avrà lo sguardo rapito dalla caratteristica montagna che domina il paesaggio circostante denominata Pizzo Marabito. Essa fu resa famosa in tutta la Sicilia, fin dalla notte dei tempi, dalla leggenda che narra d’immensi tesori nascosti nelle sue viscere. Alta 1.198 metri s.l.m. mostra sul lato di levante la sua forma conica con parete scoscesa composta da rocce calcaree. La base è cosparsa, per un tratto, dai numerosi massi che affiorano dal terreno e poi da un’affascinante radura resa misteriosa dall’eco che ivi risuona, detta dell’Acqua Amata per la presenza di una sorgente; sul versante di ponente il terreno mostra un declivio che corre verso nord-ovest. Dalla cima si può ammirare una veduta maestosa e spettacolare; lo sguardo può spaziare fino a spingersi al Mongibello o soffermarsi sui tanti paesini distesi nei dintorni.
Accanto al Marabito, separato da una stretta vallata, non può sfuggire un altro interessante sito, ovvero l'altrettanto famoso Pizzo di Case, sede in età greca e medievale di insediamenti umani con caratteristiche strategiche. La sommità è caratterizzata da due rilievi dai nomi assai suggestivi: a nord la Corona del Re, a sud la cima più elevata di Pizzo Castello alta 1.211 metri s.l.m., ove è visibile la struttura muraria quadrangolare di una probabile torre d’età medievale. La radura che unisce i due rilievi è cosparsa di cumuli di pietrame, di numerosi frammenti di tegole e di ceramiche. Materiali che ci portano indietro nel tempo a due diverse epoche: la prima tra il VI e V – IV sec. a.C., che testimoniano lo sviluppo del centro in età greca con la presenza di una necropoli sita sul declivio nord-ovest del Marabito; la seconda in età medievale tra XI e XIII secolo. Ivi è stato identificato con assoluta certezza il casale medievale di Hasu o Chasu che ebbe origine durante la colonizzazione araba della Sicilia. A difesa di questo insediamento sul versante che corre da nord-ovest, l’occhio esperto vi scorge le tracce di un muro di cinta. Idrisi, geografo di re Ruggero II, nella sua famosa geografia pubblicata nel 1154, descrivendo uno dei suoi itinerari dell’interno della Sicilia, dopo aver chiarito che “Tra Cefalà e Chasu sono due miglia franche; ed altre due simili da Chasu a Vicari”, spiega che “Chasu è casale nel cui territorio si fa di molte seminagioni, e si raccolgono varie specie di produzioni, massime granaglie e civaie”.
I significati etimologici dei toponimi "marabito" e "hasu", ci riportano , pertanto, ad epoche lontane. La denominazione Marabito è ritenuta di origine araba e secondo Salvatore Raccuglia proviene da «maraah beth», vale a dire «la casa del pascolo»; in seguito il nome passò alla montagna. Diversa è l’opinione di Ciro Cutaia che, riprendendo uno scritto di Michele Amari, lega la suddetta denominazione al capo arabo Mirabetto o Morabito per la stringente assonanza col dialettale Marabbitu; sul Pizzo di Case, infatti, egli avrebbe stabilito il suo quartier generale dopo essersi ribellato ai normanni e terrorizzato, con le sue scorrerie, tutto il Val di Mazara.
Il termine Hasu, invece, rimane di incerta origine ma potrebbe derivare dal greco 'astu eos', "la città posta in alto"; dalla forma dialettale di "Pizzu di Chasu" si passò in seguito, alla dizione "Pizzu di Casi" che bene esprime la presenza di case, ormai completamente distrutte.
Le leggende, come è noto, trovano riscontro negli avvenimenti storici e nella realtà dei luoghi ove sono ambientate e così avviene per fatti accaduti nell'area del Pizzo Marabito che il popolo ha trasformato con la sua fantasia in racconti leggendari.
Pizzo di Case, dopo le frequentazioni in età arcaica indigena (tra il VII e VI sec. a. C.) e greca (dal VI sec. al IV sec. a. C.) e il probabile spopolamento in età romana, ritornò ed essere frequentato in epoca bizantina; una comunità di musulmani vi si stabilì sul finire del X secolo e la sua presenza si protrasse per lungo tempo. Con i normanni, Hasu, il paese posto sul monte, prosperò e, nel 1093, per decisione del re Ruggero I fu elevato a centro amministrativo della terza prebenda assegnata alla diocesi della Chiesa di Agrigento alle cui dipendenze erano i casali di Fitalia, Guddemi e Mezzojuso. L’arrivo in Sicilia degli Svevi, nuovi dominatori, determinò una rottura degli equilibri sociali; gli arabi dell’Isola non andarono d’accordo con Federico II e una feroce repressione fu scatenata contro di loro. I musulmani guidati da Mirabetto si radunarono sulle montagne e si ribellarono all’imperatore. Sconfitti dopo una sanguinosa lotta, furono costretti ad abbandonare le montagne e, molti allontanati dalla Sicilia (1220–1223). Fu a quell’epoca che gli abitanti di Hasu dovettero abbandonare il castelletto, le loro dimore e obbligati a stabilirsi nelle vallate.
Appare chiaro, dunque, che la leggenda del Marabito è da porre in relazione ai fatti storici e alle vicende umane della gente che abitò Pizzo di Case. Il popolo, infatti, avvezzo a sognare ricchezze grandissime, al racconto storico aggiunse la sua fantasia e quindi immaginò che gli arabi, costretti ad abbandonare le loro abitazioni, abbiano nascosto gli immensi tesori da loro posseduti nelle viscere del Marabito. La stessa montagna, però, sembra essere complice della leggenda perché gli antri del Marabito esistono davvero e si conoscono due vie d’accesso.
La prima cavità è la famosa «grutta ri l’Areddara», cioè «la grotta dell’Edera», così chiamata perché ivi la pianta cresce spontanea e si radica attorno all’imboccatura; si trova al centro della montagna in un posto di difficile accesso che si raggiunge con difficoltà seguendo un percorso molto ripido. L’altra entrata, più piccola, si trova più in basso ed è chiamata la «grutta ru Cristallu», ovvero «la grotta del Cristallo» e questo nome indica gli esemplari di grossi cristalli e di quarzo che si trovano tra le fenditure delle rocce. (continua)
Domenico Gambino
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