16 novembre 2021

QUELLO CHE CACCIARI NON DICE

 

Riprendo da Huffington Post del 16 novembre 2021 questo articolo di uno degli allievi di Don Milani

Oreste Pivetta, No vax no green pass, tutto quello che Cacciari non dice

Tanto tuonò, ma non piovve. Alla vigilia della quarta ondata, pare esaurirsi il torrentello dei no vax, non pass, no, no, no... L’Italia è diventato il paese dove il “no suona”, perfino contro il fatal vaccino che dovrebbe liberarci o almeno ripararci dal male del secolo nostro, il covid. Il torrentello non rischia di espandersi in fiume, malgrado gli immancabili portatori d’acqua, gente comune infarcita di slogan che si moltiplicano via social, timorosa di invasioni aliene, o membri togati del consorzio degli intellettuali, azzeccagarbugli o dottor sottile, che si esibiscono per lo più dalle tribune televisive, più raramente in punta di penna, capaci dei più ingarbugliati distinguo in nome del diritto. Se si è parlato di intellettuali e pandemia, lo si è dovuto alle esternazioni estive di Giorgio Agamben e di Massimo Cacciari, l’ex sindaco di Venezia naturalmente in prima fila per via della sua inesauribile esposizione televisiva, esternazioni raccolte in una paginetta pubblicata nel sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici e moltiplicate davanti a decine di telecamere. Vi si può leggere che “la discriminazione di una categoria di persone... è di per sé un fatto gravissimo”, che in Unione Sovietica i cittadini per qualsiasi spostamento erano costretti ad esibire alle autorità il “passaporto interno” e che quindi noi “siamo come la Russia”, che ci troviamo in una fase di sperimentazione di massa, che il dibattito scientifico è del tutto aperto, che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, che tutti saremmo minacciati da “pratiche discriminatorie”, “quelli abilitati dal green pass più ancora dei non vaccinati... dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi”. Concludendo: “Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire”. Ovvio: non siamo a Mosca, il dibattito scientifico dovrebbe essere per natura sempre aperto, i danni a lungo termine non li conosciamo neppure per l’aspirina... Singolare che nello scritto (breve) di Cacciari e Agamben non compaiano mai le parole emergenza sanitaria, non si scriva di morte e di morti, non si faccia alcun cenno alla virulenza della malattia prima del vaccino, alle costrizioni cui sono tuttora costretti i vaccinati con tanto di green pass in tasca per colpa di chi ostenta a colpi di tosse e di sternuti la propria ribellione, si ignori, per discutere veramente di discriminazione, la storica, insuperata “discriminazione di classe” (almeno per gli effetti che induce rispetto alla malattia, qualsiasi malattia ovviamente) e non compaiano neppure riferimenti alla Costituzione, all’articolo 32, a concetti come collettività e comunità, come doveri e responsabilità. In forme dotte, sembra di avvertire quella idea, degna della miglior fantascienza, del microchip che ti sparano in vena per controllare ogni tuo movimento. Come se controllati già non lo fossimo tramite i più banali aggeggi elettronici: basta un cellulare perché il mondo intero, volendo, possa sapere dove trascorri la giornata, che cosa ti piace leggere, che tipo di pentole preferisci usare per cucinare. Il nome di Cacciari (ben più di quello del pur notevolissimo studioso Agamben) basta e avanza perché qualsiasi polemica a mezzo stampa o a mezzo tv deflagri. Nel caso in questione era stato come accendere un cerino in un bidone di benzina. Giornali e tv a caccia di filosofi o di intellettuali in genere, quelli che si accodano, quelli che ribattono. Paolo Flores d’Arcais elencava altre “pratiche” discriminatorie: l’obbligo della patente di guida per guidare, la necessità di un porto d’armi per girare con la colt, il divieto di fumo che escluderebbe i fumatori dai cinema, dai mezzi pubblici e persino dai ristoranti, eccetera eccetera. Il professor Barbero emergeva dalle sue ricerche storiche proponendo al vasto pubblico i suoi dubbi sulla liceità del passaporto verde. Per fortuna, con il tramontare del sole estivo, di fronte al rinnovato spauracchio del covid e alla inevitabile constatazione che solo il vaccino può risparmiare a tutti maggiori sofferenze, il silenzio è calato. Sembra, che al rinnovarsi del pericolo, una convinzione rassegnata pervada una parte dei no vax, per quanto resista una schiera di fondamentalisti del “tanto si vaccinano gli altri” e del “non ci dicono la verità, è tutto un inganno per assoggettarci al potere” (come se Amazon o qualche cosa d’altro di simile ne avessero bisogno per costringerci ad acquistare la loro merce). Ma un quesito si ripropone, un quesito non originale, che si tramanda di generazione in generazione, che banalmente si potrebbe ricondurre alla domanda: che fanno questi intellettuali? Propaganda alle loro tesi precostituite, ai loro pregiudizi; educazione alla ricerca di argomenti certi, all’analisi, alla critica, alla lettura degli eventi, alla conoscenza della nostra società, dei diritti e dei doveri che la contraddistinguono; riflessione sul concetto di libertà (come scriveva Fortini: la mia libertà comincia dove comincia la tua); discussione del rapporto con la scienza (gli intellettuali del momento, intellettuali “tecnici”, si chiamano epidemiologi, biologi, virologi)? Infine, esercizio di verifica del principio di responsabilità: dove conduce il mio raffinato pensiero, quali conseguenze produrrà in un momento di grande difficoltà per il mondo intero? A dirla brutalmente, nell’era della comunicazione attraverso i media (sia la televisione, siano i cosiddetti social) sembra che un bisogno più degli altri accenda gli animi e gli intelletti: la certificazione della propria esistenza, non proprio l’idea di una “funzione sociale”. Il sistema se ne può compiacere, ma a lungo andare la credibilità viene meno. Il “fare” dell’intellettuale si traduce nell’ “apparire”, secondo le regole imposte da un “mezzo dominante”. Ma a questo punto, a che serve l’intellettuale? A intrattenere, a consolare, a compiacere, a suscitare clamore (ad uso dei suddetti media), a illustrare una dottrina, indifferenti alle conseguenze? Quasi dimenticando, per onor di filosofia, che cosa sia stato e sia il covid, quanto abbia colpito la nostra vita, anche quella spirituale, che immaginiamo più vicina alla sensibilità dei filosofi.



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