La letteratura siciliana dell' 800 e della prima metà del 900 ha dedicato pagine memorabili alla figura dei carusi. Pirandello è riuscito addirittura a farne poesia nella novella Ciaula scopre la luna. La stessa opera di Leonardo Sciascia, secondo Claude Ambroise, è in gran parte legata al mondo delle zolfare.
Ma, come sempre, c'è differenza tra poesia e realtà. E stamattina voglio mettere da parte la poesia per dare spazio alla realtà storica dei fatti. (fv)
I Carusi nelle zolfare siciliane
Nessuno ha mai chiesto se quello che volevano era scendere nella Pirrèra (la miniera), fino a 15 volte al giorno, calandosi in quegli angusti cunicoli a 50 gradi. Nudi, "stillanti di sudori", accartocciati dal peso della cesta poggiata sulla spalla.
I Carusi si disponevano in fila indiana e come "somari" risalivano per portare all’esterno le pietre che altri avrebbero scaricato nel forno di fusione, dove lo zolfo si sarebbe separato dagli agglomerati, colando nel "foro della morte".
Parte di questo si volatilizzava nell’aria in anidride solforosa, gas micidiale respirato dagli operai.
I Carusi devono forse il loro nome al latino carens usu (senza esperienza), ma che per i siciliani erano i ragazzini delle miniere che venivano rasati per evitare il proliferare dei pidocchi.
I carusi venivano assunti dai Picconieri attraverso quella che è stata definita una polizza fideiussoria chiamata "Soccorso o Anticipo morto". Alla famiglia erano versate da 100 a 150 lire a titolo precauzionale e di indennizzo in caso di morte del ragazzo, situazione che avrebbe privato il nucleo famigliare di una fonte di reddito.
La risoluzione del contratto avveniva con la restituzione della somma da parte del Caruso, che riceveva pochi centesimi al giorno per 16 ore di lavoro. Raramente i ragazzi furono in grado di riscattarsi e di loro spesso se ne persero le tracce spostati come oggetti, da miniera in miniera.
Le condizioni dei Carusi venne analizzata nell’inchiesta del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, dove tra l’altro si legge: «Portavano il pane per mezza settimana, la minestra la mangiavano solo a casa quando andavano la sera a prendere altro pane per ripartire all’alba per non perdere la giornata».
Lontani da casa dormivano su tavole ricoperte di paglia, in promiscuità con gli adulti. Non erano infrequenti abusi sessuali.
Privi di servizi e fontane, l’unica acqua disponibile era quella degli abbeveratoi e il cibo (il pane) veniva avvolto in panni sudici.
L’Affare delle miniere che fece di Caltanisetta la capitale mondiale dello zolfo, e che arricchì aristocrazia e borghesia, vedrà l’utilizzo di ragazzi sotto i 14 anni, dal 1770 al 900’, fino alla proclamazione di Vittorio Emanuele II: dai Borboni ai Savoia.
Il Fascio di Catania nel 1893, propose l’elevazione a 14 anni, come età minima dei carusi e la diminuzione dell’orario del lavoro, ma senza alcun risultato. I Fasci vennero sciolti da Crispi nel 1894. L’età lavorativa per i ragazzi era dai 12 anni, considerando che la scuola dell’obbligo terminava alla terza elementare.
Limite comunque ampiamente ignorato e mai perseguito nelle miniere. Il rapporto tra Caruso e Pirriaturi non era da superiore a subordinato, ma di sudditanza, i carusi obbedivano senza lamentarsi, baciando le mani a inizio e fine lavoro, pur subendo maltrattamenti e punizioni.
Se dal punto di vista umanitario fu considerato da un educatore ex schiavo, "una schiavitù peggiore di quella dei Neri", dal punto di vista sanitario creò degli adulti deformi, inabili persino al servizio di leva, come constatò un medico del Regio Esercito nell’Ottocento.
Le patologie degli uomini della miniera erano "l’anchilostomiasi", (malattia provocata da un verme presente nel fango), la broncopatia cronica, asfissia da anidride carbonica, fratture e perdita degli arti; a questi problemi i minori aggiungevano: asimmetria delle spalle, cifosi o gobba, inarcamento del torace, sviluppo alterato per mal nutrizione, malattie oculari.
Tutte patologie che potevano contribuire al mancato riscatto, per il sopraggiungere della morte o invalidità o per il grisou. Micidiale gas che bruciava al contatto, portando a una morte atroce per le ustioni.
Fu a causa del grisou e di una lampada all’acetilene, che morirono quel maledetto 12 novembre del 1881, nella miniera di Gessolungo: 65 persone, 19 bambini, di cui 9 irriconoscibili e rimasti senza nome.
Erano le sei del mattino quando la terribile esplosione rincorse operai e carusi incendiando le gallerie, dilaniando i loro corpi. Alcuni morirono subito, altri dopo per le ferite.
I Carusi di Gessolungo sono le “Armuzze d’u priatoriu” (Anime del Purgatorio), sotterrati in un piccolo cimitero, non in terra consacrata, ancora in attesa ancora di un Paradiso.
Senza sacramenti e senza identità rappresentano tutti i Carusi sfruttati e maltrattati, a cui fu negato il diritto di essere bambini e di crescere, una macchia indelebile e senza perdono per operai e padroni, ognuno con il suo carico di responsabilità.
L’arte con i “Carusi” di Tomaselli e “Le Zolfare” di Guttuso hanno rappresentato la miniera, così come alcune delle pagine più belle della letteratura italiana da Verga, che ebbe modo di leggere l’inchiesta di Sonnino e Franchetti e da cui probabilmente trasse ispirazione per il caruso Rosso Malpelo, a Pirandello, Rosso di San Secondo, a Sciascia, il cui padre entrò in miniera a nove anni e da cui uscì studiando e diventando poi contabile.
Luoghi come Gessolungo, sono oggi considerati dei musei, archeologia industriale, posti da visitare ed esplorare, dove si vedono ragazzini festanti con i caschetti gialli, ignari di tutto, anche di quelle vocine intrappolate tra le rocce, armuzze che ancora sussurrano: “Voscenza è lu me’ patruni; la me’ facci sutta lì pedi di Voscenza. Di mia, si voli, ni pò fari racina”.
(Susanna La Valle - Rai Cultura, 12/11/2021)
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