L'amico Mario Pintacuda, col suo consueto acume critico, riprende un articolo di Antonio Scurati, pubblicato stamattina dal più importante giornale italiano.(fv)
E SE NON FINISSE MAI?
Mario Pintacuda
Sul “Corriere della Sera” di oggi, Antonio Scurati scrive un articolo tanto interessante quanto preoccupante. Si intitola “E se non dovesse mai finire? Il dovere di immaginare un futuro” e fa riferimento al sempre più inquietante scenario della pandemia.
Scurati fin dall’inizio mette in risalto la situazione attuale: «E se non dovesse mai finire? Abbiamo a lungo evitato di dare voce a questa nostra paura impronunciabile. Ammoniti a non farlo da un senso di responsabilità misto a scaramantiche proibizioni, abbiamo taciuto. Forse, però, è giunto il momento di confessare: non è forse vero che, mentre entra il terzo inverno di pandemia, si fa strada in noi il pensiero di un inverno senza fine? Lo sbarco in Europa della variante sudafricana non soltanto alimenta la paura di un inverno pandemico senza fine, forse ne giustifica anche il timore sul piano della previsione razionale. Forse, giunti a questo punto, la coraggiosa speranza in una rapida uscita dalla crisi rischia di ribaltarsi in un superstizioso scongiuro».
Come dare torto a Scurati? L’ennesima variante, la Omicron (ma i Greci non avrebbero potuto inventare un alfabeto con meno lettere?) è inevitabilmente già sbarcata nel nostro Paese; il mondo è globalizzato, tutto arriva da un continente all’altro in tempo tristemente reale. E questa nuova variante preoccupa particolarmente per il timore che possa aggirare tutti i vaccini finora disponibili, alla faccia di tutte le dosi già inoculate.
Scurati non nasconde la triste realtà: «è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventi cronica. È possibile che mi sbagli ma, in tutta coscienza, ritengo giusto e doveroso tenere lo sguardo fisso sull’abisso che ci si è spalancato sotto i piedi».
L’articolista ripercorre i mesi della lunga pandemia: e osserva acutamente che «lo schema culturale che ha prevalso nelle interpretazioni e commenti sulla pandemia a partire dal marzo del 2020 è stato quello dei cicli di morte e rinascita».
In altre parole, all’inizio eravamo tutti convinti che si trattasse di un “momento di tenebra”, di una nottata che - Eduardo De Filippo docet - doveva prima o poi passare; dopo il cupo inverno, si poteva e si doveva sperare nell’arrivo della primavera. In particolare, questo sbocco positivo sembrava assicurato dall’arrivo dei vaccini.
Ma ora non è più così: «Ora che la quarta ondata già sommerge buona parte dell’Europa, e che un volo atterrato ad Amsterdam dal Sudafrica con 61 positivi su 600 passeggeri ne annuncia una quinta, forse è prossimo il momento in cui smetteremo di contarle. Ora che la variante Omicron provoca una crescita vertiginosa dei contagi (e minaccia di poter aggirare i vaccini esistenti), forse faremmo bene ad attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una terra che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne. Un viaggio con destinazione sconosciuta».
Insomma, dovremmo cambiare testa, abitudini mentali, prospettive e consuetudini. L’emergenza si cronicizza, la pandemia diventa endemica, il provvisorio tende a diventare definitivo.
Del resto, a fugare il dubbio che si tratti di “farneticazioni apocalittiche”, Scurati fa due altri esempi di emergenze divenute croniche: da un lato quella ambientale e climatica, dall’altro quella legata alle migrazioni. Conseguentemente, «bisogna riconoscere i nostri fallimenti, le nostre sconfitte, la nostra impotenza».
È quindi possibile, nella peggiore delle ipotesi, che anche il problema sanitario, privo di una soluzione definitiva, diventi cronico.
In tal caso, Scurati arriva anche a ipotizzare conseguenze politiche, come il riemergere delle tendenze populiste e sovraniste (che potrebbero rialzare la cresta, invocando «la blindatura autoimmune nei confronti di un mondo globalizzato che ci invade con le sue varianti»); ipotizza poi anche un’altra conseguenza, cioè che «la fiducia nelle virtù civiche (mascherine, distanziamento, riduzione domestica dei consumi energetici, apertura all’altro da noi etc.) dovrà cedere il passo alla speranza nella soluzione scientifico-tecnologica delle emergenze».
L’articolista chiude così: «Le conseguenze del cronicizzarsi delle emergenze planetarie sarebbero molto altre. Non ho né lo spazio né le capacità per immaginarle. Forse, però, sarebbe il caso che cominciassimo a farlo tutti insieme, consapevoli che un’epoca è finita, un’altra è cominciata, e che ci preparassimo ad affrontarla con spirito di adattamento a livello di specie, non con la rassegnazione di milioni, miliardi d’individui malinconici, rabbiosi e solitari”.
Adattarsi. Convivere con il problema. Voltare pagina rispetto a un passato che rischia di non tornare più. Acquisire la triste consapevolezza di essere entrati in una fase nuova e inedita, forse addirittura in una nuova era. Con il rischio (ahimè concreto) di trasformare il mondo in una comunità composta da “miliardi d’individui malinconici, rabbiosi e solitari”.
Al desolato e desolante articolo di Scurati, di fronte alle ultime preoccupanti notizie sulla nuova variante, che cosa si può aggiungere? Non certo un appiattimento sulle superficiali posizioni dei no-vax, che forse proprio con il loro ostinato rifiuto hanno impedito di raggiungere quella “immunità di gregge” che avrebbe ridotto al minimo gli spazi per la diffusione di nuovi virus: infatti, come dice la scienza, la scienza vera (non quella trovata su internet nei siti fai-da-te), le varianti nascono e si moltiplicano laddove il virus è ancora presente e riesce a diffondersi. Si dovrebbe anzi, ora più che mai, rivolgere a tutti il caparbio invito a fidarsi sempre e comunque della scienza, seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie. E l'Occidente dovrebbe imparare una volta per tutte che i Paesi meno sviluppati devono essere assolutamente aiutati a fronteggiare l'emergenza sanitaria, mentre è folle e autolesionista abbandonarli a se stessi.
Vedremo. Nel frattempo c’è il concreto timore che la convinzione dissennata che “tutto sia finito” conduca a una sottovalutazione dei nuovi pericoli; e, tanto per fare un esempio, vedevo ieri sera, nelle vie della “movida” palermitana, i locali alla moda ultra-affollati di giovani stipati all’inverosimile, senza mascherine, con un distanziamento che nessuno fa rispettare e a cui nessuno pensa più.
Per di più si avvicina Natale, con la frenesia dello shopping, con le riunioni familiari, con le feste e i veglioni. Tutto sembra uguale a sempre, tutto è come eravamo abituati. Ma forse non è più così, almeno non lo è in questo momento; e chissà quando e se lo sarà più.
Noi, comunque, l’albero di Natale prepariamolo; nella speranza che ci porti fortuna. Non dobbiamo affondare nel pessimismo paralizzante, ci mancherebbe altro; però non eccediamo nell’euforia immotivata. La “giusta misura” degli antichi, la “metriòtes” dei greci, l’“aurea mediocritas” continua ad essere una saggia indicazione di vita. E dunque navighiamo a vista, nella speranza tenace di avvistare un giorno l’approdo in un porto sicuro o, per lo meno, di non dover affondare mai.
Nel frattempo, attenzione alla rotta: non siamo ancora arrivati.
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