Riprendo da https://www.minimaetmoralia.it/ questo bel pezzo:
IL DOLORE E I LIBRI. “LO STADIO DI WIMBLEDON” DI DANIELE DEL GIUDICE
Resto ancora un attimo sulle ultime pagine di Lo stadio di Wimbledon (Einaudi, 2021) di Daniele Del Giudice, mi rendo conto di averlo letto tre volte e, pur avendolo amato sin dalla prima volta, solo ora – prendendomi tutto il tempo necessario, sostando nelle ultime pagine – mi commuovo e sono contento, e avverto una profonda nostalgia e qualcosa di simile alla gioia piena. Mi domando perché, o meglio non me lo domando, giro intorno a questo minuscolo interrogativo che prende a ruotarmi più sul cuore che nella testa. Non sto ancora ragionando, mi dico – ingenuamente – che queste sensazioni. derivino dal fatto che Daniele Del Giudice non ci sia più, lo scrittore, come è noto, è morto qualche settimana fa, dopo anni d’assenza, di vuoto, dovuti alla malattia che lo aveva privato della memoria, svuotato la mente, fino a portargli via tutto. No, l’interrogativo, minuscolo, ma pressante non si risolve con il dispiacere per la morte, non si scioglie, c’è qualcos’altro, sono io, sono io adesso, più vecchio, con più letture alle spalle, con tutta l’opera di Del Giudice osservata nella sua interezza, con l’ammirazione per l’inarrivabile linguaggio: un misto di vocabolario scientifico e di prosa luminosa. Ecco, che comincio a rispondermi, senza trascurare il fatto che Lo stadio di Wimbledon è un gioiello, e quando è uscito era un’opera prima, un esordio. Infine – ed è il motivo per cui sto scrivendo questo pezzo – durante questa lettura ho trovato cose nuove, che non avevo notato, che non avrei potuto notare, che spingono il corpo a sussultare, a tendersi commosso verso le parole sottolineate, verso la letteratura quando fa quello che deve fare, esplodere e fare silenzio allo stesso tempo, sparigliare e mettere le cose a posto. Illuminare e confortare, sconvolgere. Mostrare il tutto con estrema semplicità, un semplice irraggiungibile, una precarietà necessaria e insostenibile, come quella che in più parti manifesta il narratore del romanzo.
Bisogna tenere i libri distinti dai dolori. Capisce cosa voglio dire?
La trama, così com’era stata intesa fino a quei primi anni Ottanta del Novecento, non c’è, non esiste, non è presente, non si dispiega. Era il 1983, Del Giudice scriveva forse un romanzo sperimentale? Non ci sarebbe una riposta corretta, ne avremmo una solo se dicessimo che l’esperimento (eventuale) è perfettamente riuscito. Lo stadio di Wimbledon è un romanzo di un nuovo tipo, di una nuova specie, e ci coglierebbe di sorpresa anche se fosse stato scritto, per la prima volta, in questi giorni. Questo accadrebbe perché pressoché nessuno è stato in grado di percorrere quella strada, di fiutare la pista e le tracce lasciate da Del Giudice. «Non sono balle, scrivere è difficile. Per tutti.», ha affermato anni dopo lui stesso; e lo è anche se si costruisce un romanzo tradizionale, figuriamoci se si vuol far stare in piedi una storia fatta di impalpabilità e di sottostrutture, di enigmi, di malinconie, di indecisioni, di ricerca, di noia, di equilibrio, di perdita dello stesso, di tremori, di poesia, di case, di treni, di interni e di esterni, di durezza, di sensibilità, di personaggi reali e di personaggi invisibili, di assenza, di intermittenza, di visione, di rinuncia, di perdita. E tutti questi elementi mai nominarli ma comunicarli nei dialoghi, negli assopimenti, nei movimenti linguistici, nelle palpebre che si chiudono, nelle descrizioni di terzi elementi che siano oggetti o paesaggi, e col paesaggio fondersi, diventare preda dell’atmosfera, del dondolio suggerito da un treno.
Di fronte alle cose che si dilatano divento teso. Quando sono teso cerco di dormire.
Il narratore mai nominato è alla ricerca di qualcuno, qualcuno che non c’è più e che – dal punto di vista letterario – non c’è mai stato, pur essendoci stato parecchio. Va all’indietro, inseguendo una figura che ha influenzato le lettere e i letterati, che di libri si è sempre circondato, uno scrittore che non ha mai scritto. Perché lo cerca? È uno studioso? Uno studente? Uno che insegue un’ossessione? Un uomo di scienza che ha necessità di scovare un perché? È uno scrittore? La ragione non è data e non conta, così come non contano molte altre cose. Il narratore compie alcuni viaggi a Trieste, la figura su cui indaga è quella di Bobi Bazlen, uomo di rilievo della nostra letteratura senza aver mai pubblicato nulla in vita, a lui è dedicato anche il recentissimo Bobi (Adelphi 2021) di Roberto Calasso. Bobi autorevole ma sfumato, Del Giudice ne racconta i contorni, il suo addio a Trieste, il suo non tornarci. E poi il suo agire sulla vita delle persone attraverso una letteratura non scritta, una letteratura di movimento, che in altro modo indirizza pensieri e azioni. Lo scopo di questi viaggi è quello di conversare (intervistare) uomini e donne che hanno conosciuto e frequentato Bobi, con in testa una sola vera domanda, difficile da porre: perché non ha scritto?
Però lui ha scritto, in un modo sotterraneo, parallelo, quanto bastava per far capire che non avrebbe scritto.
I dialoghi de Lo stadio di Wimbledon sono un capolavoro di scrittura, tenuti insieme da un tessuto tenace e lieve, di classe estrema. Non sono fatti solo di parole, ma di gesti, di minime descrizioni, di esitazioni, di sguardi, di ansie. Anche Trieste prima e Londra (il secondo luogo di questo libro) sono agenti delle chiacchierate, così come il treno che da Trieste viene e va, come l’aereo per Londra, come la sua metropolitana. Tutto è dialogo, le due donne fissate per sempre nei versi di Montale, e gli altri, ognuno mostra qualcosa, dice, narra, pensa, esita, rimanda. Le persone si muovono in un tempo reale ma sospeso come se il passato ruotasse intorno alle tazze da tè, ai taxi, ai caffè. Attenzione, però, in Del Giudice tutto ha importanza, anche una colazione solitaria, anche un passaggio dal barbiere.
Ci sono grattacieli sullo sfondo, villette isolate, campi scoperti; e al centro improvviso e pacato come una visione, lo stadio di Wimbledon. Soltanto adesso mi rendo conto di dove sono. Guardo laggiù l’edificio basso con la grande tettoia arrotondata: è un impluvio morbido in cui si raccoglie l’attenzione del paesaggio, e dove finisco anch’io.
Questo libro dalla forma tanto perfetta, con la grammatica e la matematica che si parlano, non è un libro sull’editoria, non è un libro sulla letteratura, e nemmeno un libro su Bobi Bazlen; è un testo che si muove in un sotto-tessuto, un sotto-strato che sta tra il primo significato che attribuiamo al linguaggio e tutte le successive possibilità. Del Giudice mette in scena la dialettica tra letteratura e vita, gli istanti in cui si sovrappongono e quelli cui si allontanano. E tiene conto del paesaggio, o meglio fa sì che tutto lo sia, perfino il narratore, di volta in volta, è parte di Trieste, è preda di Londra, e diventa lui stesso tessera della visione quando descrive la volta in cui l’occhio incrocia proprio lo stadio del tennis, lo stadio di Wimbledon.
Certe volte mi sembra che non ci sia cosa più forte del vuoto, o del niente: taglia ogni questione, la rende perfetta, motivata. Come immagine per i sentimenti il vuoto è notevole, quanto il pieno o un tramonto o un fiume.
Infine, nella meraviglia tecnica e poetica, commuovono delle cose che avranno a che fare con i libri a venire di Del Giudice, come gli aerei e le descrizioni minuziose e mai noiose degli strumenti di volo, oppure l’annuncio dei problemi di vista, che saranno il tema portante del futuro Il museo di Reims e alcuni passaggi sull’importanza della memoria, che guida i ricordi ma anche qualcosa di più, tiene conto delle assenze e orienta le parole che escono dalle bocche di queste persone, allinea gli oggetti riconducendoli al passato e, contemporaneamente, sottraendoli all’oblio. Memoria così importante, e lo scrittore veneziano (nato a Roma) lo ha sempre saputo, memoria che lo ha abbandonato, senza rispetto.
C’è un mistero nella scrittura di Del Giudice che non sveleremo mai. Siamo fortunati perché possiamo continuare ad attraversarlo, credendo di aver capito, accorgendoci ogni volta di una gradazione diversa, di un contrasto, stupendoci delle innumerevoli cose che un grande scrittore può fare, semplicemente ponendo nella giusta sequenza una serie di frasi. Del Giudice è un alfabeto magico, una biblioteca che nasce e sparisce davanti ai nostri occhi, questo ci rende grati, talvolta
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