Secondo Recalcati il saggio freudiano sulla psicologia delle folle e sul loro rapporto con la leadership, a cento anni dalla pubblicazione, spiega anche i nuovi fascismi. (fv)
Masse e potere: perché Freud resta attuale
di Massimo Recalcati
Psicologia delle masse e analisi dell’Io di Freud, pubblicata nel 1921, compie cent’anni. Nessuna opera freudiana appare oggi così indispensabile da leggere come questo testo scritto in una Europa che si stava avviando verso la catastrofe dei regimi totalitari (fascismo, stalinismo e nazismo) e le atrocità della guerra. Una vera e propria chiaroveggenza teorica spinge Freud ad occuparsi del fanatismo di gruppo, dello sguardo ipnotico del capo, dell’identificazione suggestiva e acefala al leader, della pulsione gregaria e dell’eccitazione maniacale del sentirsi all’unisono nel grande corpo della massa. La sua tesi maggiore è che la massa si costituisce a partire da una comune identificazione verticale al capo situato nella posizione di Ideale dell’io.
La perdita del pensiero critico che questa identificazione idealizzante comporta è compensata da rifugio identitario che essa assicura ai suoi membri. Lo scambio appare conveniente: l’obbedienza assoluta al capo in cambio della sua protezione. Freud, riprendendo in modo assolutamente originale le intuizioni del reazionario Le Bon contenute in Psicologia delle folle (autore che Benito Mussolini considerava centrale nella sua formazione), punta la sua attenzione sulla “sete di obbedienza” che caratterizzerebbe la vita delle masse. Ma, diversamente da Le Bon, per Freud la massa non si identifica alla figura del gregge, ma a quella dell’orda. Di qui la centralità della figura del Duce, del Führer, del leader in quanto incarnazione dell’Ideale dell’Io. «Se si prescinde dal capo — scrive — la natura della massa risulta inafferrabile».
Per questa ragione il vero fondamento dell’identificazione della massa è la “nostalgia del padre”. Il posto vuoto lasciato dal padre idealizzato dell’infanzia che si offriva come scudo protettivo per la vita del figlio, deve essere riempito da suoi surrogati. Per Freud è ciò che definisce l’inclinazione “devota” — profondamente religiosa — della massa. La massa divinizza il proprio capo, lo eleva al rango di un Ideale irraggiungibile. Per questa ragione la sua eventuale caduta provoca la sua frammentazione. È la definizione clinica che Freud offre del panico: c’è panico quando c’è «disgregazione della massa». Si disegna una relazione circolare tra la perdita del padre e l’esperienza del panico. Il riferimento di Freud è alla massa militare. Quando il vertice della massa viene decapitato «non si dà più retta ad alcun ordine del superiore e che ognuno si preoccupa soltanto per sé medesimo senza tener conto degli altri». I legami si spezzano e si scatena una paura sconfinata e irragionevole. Per questa ragione, secondo Freud, la massa non è affatto rivoluzionaria — come veniva teorizzato proprio in quegli stessi anni da Lenin — , ma esprime una tendenza profondamente conservatrice.
È una delle tesi più scabrose di questo libro: il desiderio delle masse non è affatto sovversivo, ma fascista. Ma può esistere un desiderio fascista? Non è forse il desiderio antagonista ad ogni sistema autoritario? Il desiderio non vive nel nome della libertà? Non rigetta ogni forma di vincolo? In realtà, secondo Freud la massa desidera di essere dominata, vuole il padrone col bastone, è avida di autoritarismo, preferisce le catene alla sua libertà. In primo piano è qui quella pulsione securitaria che è riapparsa sulla scena dell’Occidente nell’ultimo decennio sotto le spoglie del sovranismo nazionalista che rigetta paranoicamente ogni forma di differenza, specie quella incarnata dagli immigrati vissuti come una minaccia per la vita. L’apologia del muro che non cessa ancora oggi di essere evocata riflette l’inclinazione fascista della pulsione che anima la massa. Ma non si tratta secondo Freud di un semplice analfabetismo politico o di un barbaro irrazionalismo, ma, appunto, di una tendenza pulsionale che definisce l’umano in quanto tale: la difesa della propria vita finisce, paradossalmente, per contare più della vita stessa.
È l’origine del paradigma immunitario formulato negli ultimi anni da autori come Jacques Derrida e Roberto Esposito: la strenua difesa della propria salute identitaria può capovolgersi nel suo contrario; l’ostinazione per la difesa della vita, anziché conservare la vita, può distruggerla. Ma nel nostro tempo la massa non coltiva più alcuna passione ideologica per l’Ideale. Lo sguardo invasato del Duce o del Fuhrer ha lasciato il posto ad un vuoto di riferimenti che provoca una condizione permanente di smarrimento. Non a caso dal punto di vista strettamente clinico l’attacco di panico ha assunto ormai da tempo forme di diffusione epidemiche. Il sussulto sovranista prova a radunare lo sciame ipermoderno attorno all’esaltazione del confine, al culto dell’identità nazionale, alla difesa della propria terra. Si tratta di una risposta regressiva e dal fiato corto che non tiene conto della connessione sistemica che caratterizza il mondo contemporaneo. Tuttavia il richiamo alla militarizzazione delle frontiere — come faceva notare già Freud nella sua opera — denuncia il carattere indomito della spinta securitaria che di fronte alla scelta tra la felicità e l’obbedienza sacrifica senza esitazioni la prima alla seconda.
Articolo ripreso da LA REPUBBLICA del 24 NOVEMBRE 2021
Nessun commento:
Posta un commento