PERCHÉ BIANCIARDI
Potremmo iniziare dalla fine, per esempio. Un filmato Rai del 1971 mostra Luciano Bianciardi pochi mesi prima della sua morte a bordo di un tram che gira per le strade milanesi stipato di gente e addobbato di prosciutti e salami appesi al soffitto. È il “tram della cultura”, un’iniziativa dell’amministrazione per celebrare la fine della stagione culturale di quell’anno. Si vedono ragazze vestite alla moda e ragazzi incravattati; sulla vettura ci sono scrittori (Mario Castellaneta, Luciano Bianciardi, Lucio Mastronardi), musicisti e pittori. Fico, no? In un clima festoso e addirittura spensierato, l’intervistatore si rivolge agli illustri ospiti chiedendogli che ne pensano, del tram e di tutto il resto. “È un’idea molto simpatica”, fa Castellaneta. E Mastronardi, il dolente Mastronardi del Maestro di Vigevano: “È bellissimo”, dice, nel sottofondo di una canzone, si direbbe, in dialetto milanese. Invece Bianciardi, il viso gonfio, uno sguardo indecifrabile, scandisce con un dolore che appare totalmente sincero: “Io volevo dire questo… Questa gita in tram conclude una stagione culturale milanese veramente disastrosa”. Avrà continuato a parlare, perché aveva l’aria di voler spiegare tante cose, ma il montaggio si interrompe bruscamente.
Non è importante sapere come sia realmente andata quella “stagione culturale” del ’71 a Milano. È persino probabile che fosse una di quelle iniziative capaci – vista con gli occhi di noialtri italiani invischiati negli anni dieci del duemila e dintorni – di suscitare oggi rimpianti e un coro di “ooooh com’erano belli quegli anni.” Ma il fatto è che Bianciardi aveva capito tutto. E chi tutto capisce, come ci viene tramandato da sempre, è destinato a essere spesso incompreso, e infelice; esattamente quello che gli accadde. Del resto l’arma del cinismo non gli apparteneva.
Morì solo, Bianciardi, neanche cinquantenne, senza nessuno accanto nell’ospedale che lo accolse, come ricorda Gian Paolo Serino in Luciano Bianciardi, il precario esistenziale, uscito per Clichy pochi mesi fa, e Pino Corrias prima di lui in Vita agra di un anarchico. S’era attaccato alla bottiglia più che mai, dopo aver passato un’esistenza a sfuggire ogni etichetta e alla ricerca di una libertà senza compromessi e tessere di partito, sia come romanziere sia come giornalista – anche se raramente fu un reporter in senso stretto. In alcuni casi (“L’Unità”, ad esempio) l’indipendenza dei suoi pezzi, corrosivi e ritagliati su un’ironia lieve e beffarda gli era costata l’allontanamento, in altri qualche “problema” (si legga: bisticci vis-à-vis) con i borghesucci di cui si prendeva gioco sugli elzeviri che costruiva per i giornali di provincia. Tantissime volte, però, ci aveva preso. Scrisse per “l’Avanti!”, “Belfagor”, “Il mondo”, “L’Automobile”, “Le ore”, “Annabella”, “Il Giorno”, “Playmen”, il “Guerin sportivo” di Gianni Brera e altre riviste ancora. Per il quotidiano socialista lavorò con Carlo Cassola a una serie di inchieste sulle condizioni dei lavoratori della Maremma, lui che era nato a Grosseto, la sua Kansas City.
Ma era il costume la materia in cui eccelleva, riuscendo a carpire i tic verbali e fisici dei suoi contemporanei e a riprodurli su pagina con grande precisione (in uno dei suoi primissimi pezzi, Europeisti, racconta di questi “quattro o cinque professori” che si radunano nel caffè e parlano di varie cose, di come fosse necessaria l’integrazione europea, e di come d’altro canto la nazionale di calcio fosse derelitta, con tutti gli stranieri che s’affacciavano nel campionato, giocatori come Nordhal). Gli stessi costumi di cui poi scrisse occupandosi di critica televisiva e sportiva. Nella sua rubrica Telebianciardi indovinò quello che c’era dietro il fenomeno Mike Buongiorno con netto anticipo su osservatori ben più quotati, difese Enzo Jannacci e altri autori dalla bigotta censura dell’epoca, analizzò finemente la nuova lingua che il mezzo imponeva alla nazione. Sul “Guerin sportivo” tenne invece una delle più belle rubriche di lettere mai apparse su giornale, rispondendo a missive che spesso inventava di sana pianta – Alighiero Noschese che gli chiedeva se “I giocatori giocano con la testa o con le gambe?”, o Paola Pitagora “Se preferisce Bach o Vivaldi”.
Tra articoli di giornale, rubriche e romanzi, ognuno può ritrovare il Bianciardi che preferisce. A me è capitato rileggendo di recente la sua traduzione del Tropico del cancro di Henry Miller. È stupefacente come dietro certe trovate linguistiche – quelle stesse trovate che gli venivano rimproverate dagli inflessibili editor che popolano i suoi romanzi – si possa intravedere la sua personalità, l’aderenza intellettuale e quasi fisica con quello che scriveva Miller – e oltre a Miller, Bianciardi tradusse autori come Bellow, Faulkner, Huxley, Kerouac e Kingsley Amis, Steinbeck e Tennessee Williams. Raramente autore e traduttore hanno finito per coincidere così tanto.
Al suo funerale erano in quattro gatti. Proprio quello che capita nella Vita agra a Enzo, un conoscente della voce narrante, ovvero dello stesso Bianciardi: “Poi rivolse a me gli occhi incattiviti, vivi soltanto di rancore, e mi disse: Tu scrivi, io crepo. Tu parli con gli altri, almeno, voleva dirmi, hai degli amici, anche se non li vuoi né li cerchi. E io, che in trent’anni ho cercato soprattutto di stare col prossimo, invece muoio solo. E al funerale infatti c’erano i parenti di Lodi, quattro malmaritate, io e il fratello alto e grosso […] Il traffico rallentava appena, in quel pezzo di strada da casa sua fino alla chiesona di mattoni, poi ricominciava a correre nel senso rotatorio, una macchina dietro l’altra ma ciascuna per i fatti suoi”.
Ciascuna per i fatti suoi, secondo l’individualismo allevato e consacrato dal boom economico. Quel boom che Bianciardi aveva visto prima nascere e poi rientrare, lasciando alle sue spalle scorie tossiche e un paese antropologicamente mutato, per sempre. Tu sapessi la sorte dei bambini in città, confidò in un’altra intervista, riferendosi all’alienazione metropolitana, soprattutto alla crescente riduzione degli spazi di umanità, ai cortili stretti nel cemento.
In un articolo apparso sull’Avanti nel 1970 Bianciardi offre un piccolo testamento. “Ai giovani quindi, che si apprestano a entrare nella vita moderna, non si può dare altro consiglio: prima di una religione, prima d’una vocazione, prima d’un partito, prima d’un mestiere sceglietevi una funzione; sceglietevela complessa, esclusiva, rara, scavatevici dentro una nicchia, non ne parlate mai con nessuno. E funzionate”. Ed ecco che dalla Milano dei tram e dei palazzoni che sbucavano come funghi e dalle strade polverose della sua Grosseto del dopoguerra la voce di Bianciardi ancora giunge a noi, libera.
Articolo pubblicato martedì, 22 Settembre 2015 da https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/perche-bianciardi/
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