LA LEGGENDA DEL MARABITO - TERZA PARTE
• RITORNO ALLA REALTÀ
Domenico Gambino
La leggenda fin qui narrata si sofferma sugli antri che conterrebbe il Marabito. Ma, se esistono davvero le caverne del Marabito (Grotte dell’Areddara e di Cristallo), è possibile che vi si trovi nascosto un tesoro?
Chissà …!!!
Fino ad alcuni decenni addietro alla leggenda si dava molto credito e per di più questa era alimentata da fatti reali che parlavano di possibili giacimenti di metalli nei suoi dintorni.
Per questo motivo molte persone andarono in cerca di fortuna e a Campofelice sono di dominio popolare i racconti che parlano delle avventure di intraprendenti uomini che hanno perlustrato la zona e di altri che, con mezzi inadeguati, hanno tentato di introdursi nelle caverne della montagna.
Risale alla prima metà dell’Ottocento la notizia che fece molto discutere della “scoperta di una miniera di carbon fossile presso Mezzojuso” su un “monte” che si presume fosse il Marabito. Il materiale trovato fu sottoposto all’esame del professore di chimica Gioacchino Romeo di Palermo, che vi trovò “scisto bituminoso”, ma che nel complesso giudicò “di cattiva qualità e presso che inutile”.
Nel 1914 la ricerca del carbon fossile ritornò d’attualità e il giornale «L’Ora» pubblicò una corrispondenza dal titolo «Un giacimento di carbon fossile a Campofelice di Fitalia?» Il giornalista non indica la contrada (molto probabilmente si riferisce al Marabito) ma ciò poco importa per dimostrare che in quel tempo il popolo era realmente attratto dal sogno di trovare la ricchezza nel sottosuolo del territorio.
La notizia, difatti, scaturiva dall’intraprendenza di un campofelicese, Salvatore Sangiorgio, che di sua iniziativa aveva cominciato degli scavi e aveva inviato reperti del materiale ritrovato al prof. Filippo Maggiacomo, direttore del laboratorio chimico di vigilanza igienica per la provincia di Girgenti. Questi, offrendosi di eseguire l’analisi chimica del minerale, asserì che i reperti esaminati contenevano carbonio utile per il gas illuminante. Il risultato delle analisi non quantitative fu incoraggiante e nell’aprile del 1917 un “ingegnere mineralista” venne inviato a Campofelice “per procedere a una visita nei luoghi” dove si credeva vi fosse del combustibile solido, ma la ricerca non ebbe più seguito.
Nella prima metà del secolo scorso fu u zzu Liboriu che, con il pallino della scoperta, spesso si recava al Marabito alla ricerca dell’oro e quando ritornava in paese con reperti di roccia e scisti bituminosi, li mostrava ai compaesani per suscitarne la curiosità. Dopo di lui furono u zzu Brasi e, poi, u zzu Ninu che, con una buona dose di coraggio, si fecero calare con una fune all’interno della grotta del leggendario monte.
Un’esplorazione della grotta dell’Edera fu tentata con qualche risultato intorno al 1880 da una comitiva di studenti universitari composta da Cocò Schirò e dai futuri professori Salvatore Raccuglia, Felice Cuccia e Mimì Di Pietra, che non ancora ventenni solevano fare “frequenti ascensioni del Marabito e di Pizzo di Casi”. Dopo alcuni decenni, nel 1910, lo stesso Raccuglia parlando della grotta del Marabito nel suo scritto «I tesori di Marabito», dirà che essa è costituita da una grande cripta che si prolunga verso il basso per via di un condotto ripidissimo, di cui non poterono vedere la fine per mancanza degli attrezzi necessari.
Ma l’esplorazione più significativa delle grotte del Marabito di cui si ha notizia fu quella compiuta nel 1925 da Domenico Annino che la rese pubblica con un’affascinante descrizione sul «Giornale di Sicilia», sotto il titolo: «Petrolio, rame, argento, oro in Sicilia».
L’Annino che era alla ricerca di combustibile solido nella montagna del Marabito, fu incuriosito dal tipo di terreno dove, a seguito di alcuni pozzi scavati, trovò una buona quantità di scisto bituminoso, un fossile dell’era carbonifera il calamitos e “immense manifestazioni di ossido di rame esistente per una grande estensione” che lo indussero a ricercare il carbon fossile e il metallo.
Egli, peraltro, aveva appreso da Felice Cuccia, che già avanti negli anni egli definisce “un vecchio professore degno di fede”, della sua tentata esplorazione compiuta, come dicemmo intorno al 1880 e dell’esistenza di “un’ampia caverna con due buchi: uno comunicante con altre due caverne, l’altro, per mezzo di una piccola galleria, comunicante con un pozzo”. L’Annino, da questa informazione dedusse che la caverna “fosse stata, in tempi preistorici, una miniera” e decise di intraprendere un’esplorazione. Si munì “di corde, lampade ed altri arnesi di alpinismo e dopo una forte propaganda» riuscì a raccogliere “un buon numero di giovani ardimentosi” e stabilì il giorno dell’escursione.
Riferisce l’Annino:
“Solo cinque dei facenti parte della comitiva arrivammo al luogo destinato. A mezzo di corde ci facemmo porgere le lampade, un piccone e altre corde e c’introducemmo nella grotta. Le tre caverne corrispondevano esattamente alla descrizione fattane dal vecchio professore; ritornati alla prima cercammo il pozzo. La piccola galleria conducente ad esso, dopo cinquant’anni, per le continue incrostazioni di carbonato di calcio era divenuta un buco dal quale passammo a stento. Scesi in fondo al pozzo a circa metri dieci di profondità e alla base di esso e seguii un piano inclinato anch’esso di metri dieci di lunghezza. In fondo al piano inclinato notai che vi era un altro pozzo di circa dieci metri di profondità ed a questo si seguiva un piano inclinato come il primo. Alla base di questo altro pozzo ed un piano inclinato ancora e quasi sempre delle stesse dimensioni.
Alla base di questa caverna in piano inclinato, si presentò innanzi al nostro sguardo uno spettacolo magnifico; una immensità di stallattite e stallagmite di carbonato di calcio, in parte cristallino e in parte fluido, di colorito bianco, che formavano quanto di più fantastico si possa immaginare.
Un grande blocco staccato dal tetto, aveva coperto in parte un altro pozzo sottostante. Dopo essermi accertato della profondità di esso vi scesi e notai che la sua conformazione era la stessa dei precedenti, con la sola differenza che invece d’essere seguito da un piano inclinato era seguito, dopo una piazzuola, da un altro pozzo.
Notai ancora che dovevano continuare una serie di pozzi e piani inclinati per il fatto che lasciatovi cadere un masso, lo sentii rotolare con fracasso e allontanandosi il rumore prodotto da esso si affievoliva sempre più ed invano attesi l’urto d’arrivo.
Intanto i compagni cominciarono ad impazientirsi, e col pretesto che la luce veniva a mancare, mi indussero a tornare indietro”.
Confortato dal ritrovamento di strati di scisti bituminosi, di carbon fossile (litantrace) e di “metallo di rame argentifero che analizzato, pare contenga delle particelle d’oro” e dal risultato dell’esplorazione delle grotte che lo indussero a credere ancor di più che si trattasse di un’antica miniera, si convinse della grande e reale ricchezza del Marabito, tanto da rivolgere un pubblico appello: “Il governo pensi a far esplorare le innumerevoli grotte esistenti in Sicilia che, mentre per mezzo della tradizione le conosciamo come grotte incantate, potrebbero invece essere di guida per portarci alla scoperta di ricchi minerali”.
Non risulta che a seguito dell’appello siano state compiute esplorazioni di carattere scientifico. Si ha solo notizia che gli speleologi del Club Alpino Italiano negli anni Sessanta del secolo scorso, come riferisce Ignazio Gattuso, hanno raggiunto la grotta ma non hanno trovato l’andito che immette nelle gallerie. Evidentemente le incrostazioni di carbonato di calcio avevano ostruito il buco dal quale l’Annino disse “passammo a stento”.
La testimonianza dell’Annino che riferisce di aver visto con i propri occhi gli antri della montagna con una immensità di stalattiti e stalagmiti, rende facile e legittimo il collegamento con altre grotte che sono state scoperte casualmente da fortunati speleologi e rese famose per le loro straordinarie bellezze naturali. Le grotte di Frasassi nelle Marche e di Castellana in Puglia, sono certamente gli esempi più celebri in Italia in quanto visitate giornalmente da centinaia di turisti. Esse sono fonte di vera ricchezza prodotta dalla stupenda bellezza di stalattiti e stalagmiti di svariate forme che, come nella leggenda, sembrano gioielli e davanti ai quali si rimane, oltremodo, incantati.
Sarà questa la vera ricchezza che nasconde il Marabito?
Scrive ancora Domenico Annino in riferimento alla montagna del Marabito: “Un signore degno di fede dice: che essendo residente in America, un giorno si trovò nello studio di uno scienziato per avervi accompagnato un suo amico. Mentre questi conferiva con l’americano, lui rimasto in salotto, si mise ad osservare la carta geografica (forse geologica) della Sicilia che trovavasi attaccata al muro. Attirò la sua attenzione un segno particolare fatto vicino al suo paese, e poco dopo domandò al professore il perché di quel segno, gli fu risposto: voi essere siciliano? Questa montagna essere più ricca d’Europa”.
Domenico Gambino
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