Esce oggi per Interlinea la nuova edizione accresciuta di La traduzione del testo poetico tra XX e XXI secolo, a cura di Franco Buffoni. Pubblichiamo un estratto di uno dei saggi inclusi nel volume, intitolato Leopardi in lingua inglese. Il testo è ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=43297
LEOPARDI IN LINGUA INGLESE
di Franco Buffoni
«Senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta», scrisse Leopardi. Occorre essere poeti magari per tradurre non traducendo. Come Rilke, che di fronte al dilemma sostantivo-aggettivo, tra Unendliche e Unendlichkeit, lascia L’infinito come titolo, simbolicamente indicando la via verso la perfetta traduzione. Di poesia. Mentre, in una traduzione di servizio, proprio serve che il traduttore subito mostri come differentemente il testo venga a connotarsi, già dal titolo, optando per die – col sostantivo – piuttosto che per das con l’aggettivo sostantivato.
In un ideale di corrispondenza ai valori profondi dell’originale, ben oltre – quindi – i crucci del lessico, la vera “traduzione” della Ginestra è Mont Blanc di Shelley. Come la traduzione ideale della prima strofa di Sopra un bassorilievo antico sepolcrale («Dove vai? chi ti chiama / Lunge dai cari tuoi, / Bellissima donzella? / Sola, peregrinando, il patrio tetto / Sì per tempo abbandoni? a queste soglie / Tornerai tu? farai tu lieti un giorno / Questi ch’oggi ti son piangendo intorno?»), con le domande rivolte come ferite alle venature del marmo, è in quella quarta stanza dell’Ode su un’urna greca di Keats; in quella dolorosamente simile impotenza interrogativa: «Who are these coming to the sacrifice? / To what green altar, O mysterious priest… / What struggle to escape? / […] / What wild ecstasy?». Come, per altro, i versi iniziali del Canto notturno («Ancor non sei tu paga / Di riandare i sempiterni calli? / Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / Di mirar queste valli?») paiono trovare il proprio ideale di corrispondenza traduttiva nel celeberrimo frammento shelleyano «Art thou pale for weariness / Of climbing heaven and gazing on the earth, / Wandering companionless / Among the stars that have a different birth, – / And ever changing, like a joyless eye / That finds no object worth its constancy?». (Versi shelleyani a loro volta apparenti come traduzione – e all’interno della stessa lingua [ma che cosa è una lingua?] – dell’altrettanto celebre incipit del sonetto XXXI di Astrophel and Stella di Sidney: «With how sad steps, O Moon, thou climbst the skies! / How silently, and with how wan a face!»).
Sempre nell’ambito di questa ideale corrispondenza ai valori profondi di un’opera, si potrebbe fare riferimento alla traduzione di Patrick Maxwell, apparsa nel 1899 sulla “National Review”, del Dialogo con una mummia. Ghan Singh, rilevando quanto la rigorosa traduzione sia vivace, osserva che «la si legge come il testo di una commedia della Restaurazione». Una prospettiva di folgorante capacità definitoria, se inquadrata nel tentativo di definizione della natura sui generis delle Operette.
È chiaro che, se con queste riflessioni veniamo a trovarci in un territorio piuttosto distante da quello della traduzione in senso stretto, siamo tuttavia lontani anche da tutto ciò che Genette chiama «palinsesto»: parodia, trascrizione, «lettura». In particolare il piano è altro rispetto a quella imitatio che, da Quintiliano a Robert Lowell, attrasse anche lo stesso Leopardi della Batracomiomachia. E, mediatamente, anche dei Canti. Basta essere in grado di cogliere l’imitatio celata.
«[…] Anime care, / Bench’infinita sia vostra sciagura, / Datevi pace; e questo vi conforti / Che conforto nessuno / Avrete in questa o nell’età futura». Come suggerisce Luca Canali, questi versi di Sopra il monumento di Dante sono, in Virgilio, un unico esametro: «Una salus victis, nullam sperare salutem». La dolorosa ironia in Leopardi rappresa era dunque in Virgilio criptica sentenza. Che cosa diviene tutto questo nella traduzione Bickersteth? «Dear souls, tho’ infinite / Be your calamity, yet rest in peace…» dove tutto è completamente detto, esplicitato. Ci si potrebbe persino domandare che cosa accadrebbe se si ritraducesse in latino, magari con calamitas-calamitatis…
In questo, si può supporre, consiste la differenza tra la traduzione ideale, legata ai valori profondi (appunto, Mont Blanc per La ginestra) e il palinsesto: Empedocles on Etna di Matthew Arnold nei confronti della stessa Ginestra, per esempio. Certo, passare dalla imitatio lowelliana alla rigorosa e degna traduzione che, dell’Infinito, redige Margaret Brose nell’epigrafe al suo – altrettanto rigoroso – studio su Leopardi e il linguaggio del sublime romantico, significa approdare finalmente, dopo tanto vagare tra traduzioni (ricorrendo alla distinzione di Fortini) di servizio e traduzioni di poesia, alla traduzione di rispetto. Del lettore, del testo, dell’autore.
Perché le cosiddette traduzioni di poesia troppo spesso – Lowell docet – finiscono per essere niente di più di una narcisistica esercitazione di un poeta su un testo dato. Mentre le traduzioni di servizio sovente risuonano come le parole di una canzone o di una romanza deliberatamente private di quella musica che ne è parte consustanziale. «Silvia, are you bearing in mind that time when there was a fine look out of your eyes, and yourself, pleased and thoughtful, were going up the boundaries that are set to childhood?» E non si tratta della traduzione a piè di pagina del Penguin Book of Italian Verse, ma della versione del drammaturgo J.M. Synge.
La traduzione di servizio, con l’aria modesta di dire “io devo servirti a capire, non ho altre ambizioni”, in realtà distrugge non solo la ragione di essere in versi del testo, ma tout court la sua ragione d’essere: «It was always dear to me, this solitary hill, and this hedge which shuts off the gaze from so large a part of the uttermost horizon», si legge nel Penguin Book of Italian Verse, a cura di G.R. Kay.
Per contro, la traduzione di poesia può presentarsi musicalmente accattivante: «That hill pushed off by itself was always dear / to me and the hedges near / it that cut away so much of the final horizon». Ma spesso si riduce a sterile imitatio. Lowell, per esempio, per salvare la rima baciata near-dear, non si cura del dato essenziale. Si tratta di «questo» colle, di «questa» siepe. Traducendo «That hill» e poi «the hedges» semplicemente con l’articolo, viene a perdersi in toto il senso di complice presenza insito nei deittici dell’originale, e quindi la necessità stessa del rapporto spazio-temporale, che è l’elemento vitale del componimento.
Nella traduzione che propongo di definire di rispetto, invece, tutti gli elementi dell’originale appaiono resi con la correttezza della discrezione da un poeta che decide di realizzare l’incontro “poietico” con il poeta e il testo che sta traducendo. Così, dunque, Margaret Brose: «Always dear to me was this solitary hill, / And this hedge, which from so great a part / Of the farthest horizon excludes the gaze. / But sitting and gazing, boundless / Spaces beyond that, and superhuman / Silences, and profoundest quiet / I in my mind create».
Siamo ben consapevoli, tuttavia, che se è facile deridere «le magnifiche sorti e progressive» tradotte con «grand destinies and progressive hopes» (Edwin Morgan), occorrerebbe anche saper dire sempre come tradurre meglio.
In olandese moderno è stato coniato un nuovo verbo: poiché tradurre si dice vertalen, si parla ora di hertalen, che per un gioco etimologico riesce a significare “ricreare in lingua”.
Che cosa aggiungere a quanto già Cicerone esprimeva con l’antinomia ut orator – ut interpres? Da traduttore, rigorosamente attento alle parole del testo originale; oppure da scrittore, mirante a trasmettere il contenuto, senza rispettare le singole parole, conservando tuttavia il peso dell’originale. Una posizione poi riproposta da Orazio e arricchita da Gerolamo, da Agostino. E quando Mounin parla del differente approccio traduttivo di «professori» e «artisti» − ossessionati i primi dalla fedeltà letterale, esterna, a tutti gli elementi linguistici e formali del testo; preoccupati, i secondi, da una lealtà più profonda, interna, più ardua a cogliersi − non fa che ribadire la medesima distinzione, solo aggiornandola lessicalmente. Perché sempre più incalzante è l’esigenza che il professore sia artista e non si privi della vista della luna levando il proprio indice; e che l’artista sia professore, scordandosi un poco di sregolatezza e non disprezzando la coltivazione sistematica del talento creativo.
Allora questo artista-professore dovrebbe almeno essere convinto di un dato: che la traduzione di un testo poetico è deperibile. E trova proprio nella deperibilità una delle ragioni che ne giustificano l’esistenza rispetto all’originale. Quindi non ci si può permettere di proporre la traduzione di poesia come la riproduzione di un testo; occorre proporla come la riproduzione di un processo che non si esaurisce in un’operazione definitiva.
Alle nostre spalle è la vecchia allegoria di Port Royal. Da Saussure a Jakobson il Novecento ha insegnato che l’atto di lettura è comunque e sempre un atto d’interpretazione e di traduzione, fatalmente destinato a fare scaturire solo alcune delle potenzialità insite nel testo. Ci ha insegnato anche che ogni atto di lettura modifica ogni volta inevitabilmente il testo, volgendolo a nuove prospettive, a nuove rivelazioni.
Per mezzo della materiale operazione del tradurre, una civiltà culturale, una lingua, crede forse di dare voce a un’altra civiltà culturale, a un’altra lingua, ma in realtà sta principalmente dando voce a sé stessa, concedendo ai propri lettori di riconoscere in un altro modo la loro stessa collocazione nella storia. Con conseguente riconoscimento anche delle proprie idiosincrasie. Pensiamo alla diversa ricezione del cosiddetto pessimismo leopardiano in ambito inglese e americano; pensiamo alle contorsioni, alle contraddizioni in cui caddero Gladstone e Matthew Arnold; al senso di perversione che colse Poe o Melville giunti a contatto col nostro.
Più che di fedeltà al testo, parlerei pertanto di lealtà. Una lealtà che dovrebbe permettere al poeta traduttore di esercitare la propria funzione di ponte tra l’autore e il lettore in modo nitidamente libero. Quando nel sonetto sull’Omero di Chapman, al v. 11 Keats menziona Cortez, è leale nei confronti della poesia proprio perché è infedele alla storia. Sul promontorio di Darien in realtà era Balboa, e il poeta lo sapeva benissimo. Ma quei fonemi avrebbero letteralmente ucciso la similitudine; occorreva un bisillabico crudele come una frustata, che concordasse con lo sguardo di aquila del conquistatore, per essere leali al movente poetico. La pretesa è di estendere tale facoltà anche ai traduttori. Si tratterà poi di verificare se il traduttore è stato all’altezza del compito; o se le licenze che si è preso sono state soltanto espressione di inverecondo narcisismo… Ma questo è ciò che ogni buon lettore istintivamente compie anche leggendo un poeta in lingua madre.
D’altronde, suoni e immagini consustanziali in una lingua possono divenire causa di indegnità del verso, se tradotti fedelmente e non lealmente. Nella terza strofa dell’Ode a un usignolo di John Keats, per esempio, l’efficace verso «Where palsy shakes a few, sad, last grey hairs», perfettamente compiuto nella sua incisività monosillabica, non può dignitosamente esistere in lingua italiana se non prosciugato di almeno una – se non due – delle attribuzioni ai capelli. In realtà, se i capelli sono gli ultimi e sono tristi e sono pochi, è evidente che sono anche grigi; e se sono grigi, pochi e gli ultimi, è inevitabile che siano tristi. È quindi evidente che il traduttore che omettesse di tradurre che quei capelli sono anche tristi renderebbe solo un buon servizio (sarebbe leale) al suo poeta e al lettore.
Una nota provocazione montaliana invita a riflettere su ciò che ipoteticamente sarebbe restato di un testo dopo una mezza dozzina di passaggi in traduzione in varie lingue. Cogliendo – per esempio – The Calm After the Storm nella – per altro buona – traduzione Bickersteth, e persino senza bisogno di pensare che cosa potrebbe accadere riversando tale traduzione in bulgaro e poi in olandese senza più il conforto dell’originale, si giunge inevitabilmente a discutere di semantica e di etimologia. Perché è probabile che un buon traduttore, di fronte a quel The Calm After the Storm, penserebbe di ricorrere all’italiano “tranquillità”, e dal suo punto di vista semantico potrebbe anche avere ragione, come ebbe ragione Bickersteth scegliendo “calm”. Ma di questo passo si va lontano.
«Di là dal mar giace un paese guasto», il verso che nella Commedia dantesca indica l’isola di Creta, è stato posto da Giorgio Caproni come indicazione-sfida agli anglisti a tradurre The Waste Land, “La terra guasta”. Guasta come la guancia del giovane commesso viaggiatore con cui si accoppia senza desiderio la segretaria nel monolocale. Guasta come nel profondo l’essenza del testo. Carmen Gallo recentemente ha tradotto The Waste Land come La terra devastata. E il gioco continua.
Traducendo da lingue con comuni radici etimologiche si dovrebbe dunque tenere presente che la semantica è di vento e diventa, mentre l’etimologia è di pietra? Quella “quiete”, quindi, non dovrebbe mai diventare “calm”? Come muoversi allora con i false friends? È evidente che occorre tenerne conto. Contraddizioni, dunque? Certo, se si pretende di essere normativi. Ma la traduttologia, quando è volta alla traduzione letteraria, e in particolare alla traduzione di poesia, trova proprio nella a-normatività il suo punto di forza. Che non significa anarchia: significa ricerca, empiria.
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