Il senso di solitudine
Emilia De RienzoAl tempo della pandemia il disagio degli adolescenti è soltanto un dato statistico. Ragazzi e ragazze soffrono, provano tempeste di sentimenti contraddittori, hanno bisogno di qualcuno con cui condividere, parlare, confrontarsi, ma spesso consumano i loro pensieri in solitudine, in un mondo nel quale sempre più gli adulti hanno paura di fare gli adulti. “Quello che a loro fa veramente male non è il dolore, non è la sofferenza – scrive Emilia De Rienzo – Sofferenza e dolore appartengono alla vita, sono compagni fedeli di ogni esistenza. Quello che fa veramente paura è quel senso di solitudine che fa perdere il contatto con gli altri, con il mondo, con se stessi…”
Ha solo quattordici anni la poetessa Antonia Pozzi quando nei suoi Diari (edizioni Libri Scheiwiller) scrive queste parole:
“Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granelli sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia” (Natale del 1926).
Quelli di Antonia Pozzi sono i sentimenti che provano tanti adolescenti nel momento in cui stanno crescendo e sentono che la fanciullezza si dilegua per lasciare spazio a un tempo che non conoscono, che non sanno che cos’è. In bilico tra passato e futuro come un equilibrista sul filo.
Soffrono, provano tempeste di sentimenti contraddittori e hanno bisogno di qualcuno con cui condividere, parlare, confrontarsi. A volte lo trovano, a volte no. A volte consumano questi pensieri in solitudine in un mondo in cui sempre più gli adulti hanno paura di fare gli adulti e rimangono eterni fanciulli angosciati, presi dai propri problemi, che non sanno intercettare i loro segni di disagio o non sanno dare sicurezze e appoggio.
Non sempre i ragazzi riescono a condividere il proprio disagio ai loro coetanei, perché viviamo in un mondo in cui fragilità e disagio vengono vissuti come intoppi. È meglio tacere e indossare una maschera. Allora rischiano di seppellire dentro di sé il loro disagio.
Quello che a loro fa veramente male non è il dolore, non è la sofferenza. Sofferenza e dolore appartengono alla vita, sono compagni fedeli di ogni esistenza. Quello che fa veramente paura è quel senso di solitudine che fa perdere il contatto con gli altri, con il mondo, con se stessi.
È l’incapacità di comunicare: proprio quando ne sentiremmo il bisogno, le parole e i pensieri si dissolvono alla presenza dell’altro. Il dolore si nasconde nelle pieghe dell’anima, indossa la sua maschera per presentarsi al mondo senza disturbare. È allora che diventa insidioso. Perché la sofferenza cerca uno sbocco, un’uscita. La sofferenza è a volte una domanda senza risposta, la ricerca di spazi più ampi dove si possa guardare al futuro con speranza e fiducia. La sofferenza deve diventare parola per essere comunicata e compresa dall’altro che spesso non c’è. La sofferenza trova significato, là dove si sanno creare legami.
Oggi, in periodo di pandemia, questo disagio, questo malessere è intercettato, ma come dato statistico. Giusto che ognuno possa trovare, se ne ha bisogno, un terapeuta che aiuti, che ascolti, ma stiamo attenti a non definire ogni stato d’animo critico come patologia e dimenticare la quotidianità. È in famiglia che dovrebbe cominciare l’ascolto, è la scuola un luogo privilegiato dove insegnanti e alunni dovrebbero trovare per creare momenti di dialogo, di ascolto, di condivisione; dove i sentimenti, le emozioni, le paure, le angosce possano essere “dette”, dove ciò che si insegna si trasformi in linfa vitale invece che materia senza anima.
Affrontando la vita così come si presenta, con il male e il bene, il bello ed il brutto, la gioia e il dolore, la tristezza e l’allegria, aiuteremo i nostri ragazzi e bambini a non consumare questi pensieri in solitudine potremmo far uscire i ragazzi dalla paura di condividere, di parlare, di comunicare: dovrebbero sentire di non dover essere necessariamente sempre forti, ma di vivere in una comunità in cui si impara tutti a prendersi cura uno dell’altro. E la pandemia, nella sua drammaticità, potrebbe aiutarci a comprendere quanto questo sia importante e bello.
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Emilia De Rienzo, insegnante (qui altri suoi articoli), si prende cura di Comune da molto tempo ma anche di questo blog.
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