21 gennaio 2022

VINCENZO CONSOLO VISTO DA MARCELLO BENFANTE

 


Oggi ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo. Per ricordarlo, riprendo un articolo di Marcello Benfante pubblicato dalla rivista Segno n. 332 nel febbraio del 2012.


MARCELLO BENFANTE

LA CONVERSAZIONE ININTERROTTA


      1.     L’ultimo dei grandi.

Con la morte di Vincenzo Consolo scompare l’ultimo grande scrittore siciliano.

È una frase impegnativa. Indubbiamente. E proprio nel senso che alimenta dubbi e ci consegna a una serie di interrogativi.

Fu davvero grande Consolo? E se grande fu davvero, lo si può dire l’ultimo? In che senso, poi?

Della grandezza di Consolo testimoniano alcuni dei suoi capolavori, e sarebbe fuori questione se non fosse per la modesta eco che la dipartita di uno degli intellettuali più importanti degli ultimi decenni ha ottenuto nei media nazionali, così pigri nel valutare il peso qualitativo delle notizie.

Alla resa dei conti la sua fortuna fu inferiore ai suoi meriti, anche se in certi momenti sembrò sopravanzarli. È singolare che Consolo abbia ottenuto l’apice del suo successo nel momento in cui iniziava la sua fase decadente. Ma basterebbe “Il sorriso dell’ignoto marinaio” per consegnare il suo autore alla storia della letteratura.

Al fatto che sia l’ultimo dei grandi non si vuole dare alcun significato apocalittico. Di buoni scrittori la Sicilia non manca, per fortuna. Ma all’orizzonte non sembra intravedersi nessuno che possa e voglia assumere un ruolo magistrale, che aspiri all’arte e non alla mera comunicazione, che abbia veramente qualcosa da dire di profondo e importante, di necessario e urgente.

Consolo, con qualche parziale limite fra i molti pregi, fu tutto questo: un maestro, a volte collerico, di chiare visioni, ancorché talora offuscate dalla veemenza del suo essere e del suo dettato. Uno scrittore di forte tempra e di tenace concetto, che tuttavia a un certo punto s’invaghì della sua parola e restò ad ascoltarsi.

Fu un grande anche in questo suo smarrirsi in un’ecolalia che non poteva che sfociare nell’afasia. Fu grande nel suo delirio come nella sua rinuncia, nel suo silenzio, nella sua ribellione, nella sua afflizione.

Lo abbiamo atteso con rispetto e con devozione. Lo abbiamo incalzato con l’elogio e con la critica, impazienti di confrontarci ancora con i suoi testi, sempre così impegnativi.

Ma Consolo ci ha disattesi, con sapienza, rifiutandosi giustamente alle logiche del presenzialismo, dell’interventismo, del mercato.

Quello che è stato il suo blocco, creativo o psicologico, forse oggi potrebbe sbloccare un mondo letterario, non solo siciliano, che troppo si dissipa e sperpera in una futile produzione. Potrebbe cioè indurlo a una riflessione salvifica, a essere un po’ meno soddisfatto dei suoi effimeri successi, un po’ più esigente e problematico.


2. Il rovello della lingua

L’impasse di Consolo fu quella della lingua. Che è poi la dilaniante aporia d’ogni scrittore che non sia un mero calligrafo.

Sulla questione della lingua, rovello e dedalo, Consolo ha riflettuto incessantemente, con esiti teorici molto significativi.

Ma: cos’è la letteratura, la narrativa soprattutto, con la sua scrittura in prosa più o meno di comunicazione, immediatamente o mediatamente, se non politica? Politica nel senso che nasce, essa letteratura, da un contesto storico e sociale e ad esso si rivolge? E si rivolge, naturalmente, con linguaggio suo proprio, col linguaggio letterario (leggeremmo, se no, trattati di storia, perorazioni politiche, relazioni giornalistiche...). Linguaggio che fa sì che il fatto narrato sia quello storico, sia quello politico, ma insieme sia altro oltre la significazione storica; altro nel senso della generale ed eterna condizione umana. Linguaggio che muovendo dalla comunicazione verso l’espressione attinge quindi alla poesia”.

Con grande lucidità, Consolo traccia un percorso che dalla realtà perviene alla poesia. Solo che a un certo punto la realtà, nell’opera di Consolo, sembra quasi svanire, inglobata nella lingua, tutta risolta in quell’unica realtà residuale che è la parola stessa. Una parola che si compiace della sua purezza, della sua perfezione. Una parola spurgata dalla storia, dal sociale, che proclama la propria eternità.

E dire che Consolo aveva preso subito le distanze dai formalismi e dai tecnicismi delle neoavanguardie, che gli sembravano troppo vicini ai modi espressivi dell’aziendalismo e della pubblicità. Nel contempo però si scostava anche dalla narrazione pura, che si limita a rappresentare e quindi conservare il mondo, contrapponendole la carica sovversiva di una scrittura intesa come storiografia (sulle orme di Enzensberger) e come archeologia.

Né il dialettismo gli sembrò un rifugio accettabile. Salvare la lingua, per dirla con Canetti, era il compito che Consolo si era dato fin dalle sue prime prove. Non certo in una sua ipotetica purezza, alla maniera della Crusca. Semmai attraverso una contaminazione basata sul recupero dei rifiuti del progresso. Tutto ciò che è stato espulso da una distorta modernità è per Consolo materiale prezioso di una ricostruzione linguistica che attinge a profonde e plurime stratificazioni culturali, non intesa come mero restauro, bensì come ri-creazione polifonica. Da qui il carattere epico e mitico della sua narrazione e quella particolare intonazione aulica del suo barocco anticato che ad Antonio Di Grado parve “un barocco compositivo e concettuale, mai esornativo, formale”.

Di certo Consolo partiva da premesse estranee ad ogni manierismo. Nell’ostentazione di un’estraneità radicale cercava l’antidoto all’intossicazione linguistica dell’italiano depauperato e snaturato dei mass-media.

  1. La chiocciola e il labirinto

E tuttavia non sempre sfuggì al pericolo di fare storiografia senza storia e del suo metodo archeologico una collezione di reperti, ovvero una museografia.

La stessa memoria, così appassionatamente perseguita, sembrò talora cristallizzarsi in una ancestrale atemporalità.

D’altronde, Consolo, con coraggiosa consapevolezza, aveva messo in conto una certa quota d’insuccesso. In un’intervista rilasciata a Giuseppe Traina ricordava che per Faulkner “il valore di un libro si misura sul grado di fallimento che il libro stesso porta in sé; ogni libro, secondo me, è in sé uno scacco, un piccolo fallimento, perché il libro non è mai quello che l’autore avrebbe voluto che fosse, è sempre qualcosa in meno”.

Da quel meno abbiamo imparato almeno quanto dalle sue pagine più riuscite, perché il progetto letterario di Consolo, nel suo insieme, fu una illuminante, ancorché tormentata, indagine sui limiti, i confini, i destini della scrittura.

Ma a questa deriva elitaria come giunge Consolo? Per solitudine o sradicamento? Per aver barattato la sicilitudine con un’artefatta patria linguistica?

Forse, anche. Ma soprattutto per una resistenza ostinata alle logica della mercificazione della letteratura. Scelta coraggiosa, ancorché disperata e sofferta.

Resto convinto che il lungo astenersi di Consolo al gran banchetto dell’editoria nasca dalla consapevolezza quasi wittgensteiniana che se non si ha nulla da dire è doveroso tacere.

A un certo momento Consolo percepisce, forse istintivamente, che alla lingua, nella sua rarefatta autarchia, è venuta a mancare una necessità, una ragion d’essere che la preceda e l’accompagni. E non gli resta allora altra etica della scrittura che non la sua sospensione.

E sospeso è rimasto a lungo Consolo, per noi lettori, nell’attesa del suo ultimo romanzo, che non sarebbe arrivato mai, come un Godot.

Sospensione feconda, si è detto, pregna di un significato rigoroso e austero che certamente qualcuno avrà raccolto e tesaurizzato.

L’acchiocciolarsi di Consolo intorno alla lingua, il suo farne labirinto inevasibile, luogo di una ricerca inesausta e al tempo stesso sfibrante, derivano forse da un’antica vocazione, da un originario e irresistibile impulso lirico, ma non il risultato di un abbaglio. Consolo ha chiarissima la funzione della lingua. Ma gli preme soprattutto “il superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le ‘voci’ dei margini”.

Condotta alle sue estreme rivelazioni, la lingua, mai riducibile a puro mezzo, diviene però fine a se stessa.

  1. Picconare la realtà

In un breve saggio che s’intitola “La conversazione interrotta”, contenuto in quella bellissima raccolta di scritti intitolata “Di qua dal faro”, Consolo fa i conti con l’eredità sciasciana con assoluta lucidità.

Parte da un ricordo remoto, un incontro del 1961 a Villa Palagonia, la goyesca villa dei mostri a Bagheria che tanto sconcertò Goethe.

Consolo si definisce ancora un “letteratino” che prova insofferenza nei confronti della meccanicità impoetica del romanzo poliziesco. Sciascia gli risponde “sorridendo di un sorriso fra l’enigmatico e il divertito”. È il sorriso di Antonello, del ritratto custodito al museo Mandralisca di Cefalù.

E basta questa laconica ironia a smantellare le pretese puriste e intellettualistiche del “giovane letterato”, a rivelargli le qualità di uno “strumento” particolarmente adatto a sviscerare la realtà siciliana.

Le deduzioni di Consolo sono impeccabili:

Il racconto giallo era insomma uguale al piccone col quale lo zolfataro, accortamente e abilmente, dentro le viscere pericolose della gialla miniera, stacca massi, scava cunicoli, gallerie. Il cui linguaggio non può che riflettere quello del piccone, la sua funzione: un linguaggio duro e affilato, preciso e incisivo, di rattenuta emozione e di dispiegata comunicazione, di grande chiarezza e ordine contro l’oscurità e il disordine”.

È la realtà che impone dunque lo stile. E insieme ad essa la motivazione dello scrittore, la sua opzione poetica. In altri termini, la lingua non può vivere di se stessa, non può confinarsi in un iperuranio algido e splendente. Può e deve essere altra rispetto a quella usurata e svilita dell’entertainment o della burocrazia, ma non aliena rispetto a quell’altro che è il mondo, di cui il linguaggio è parte.

E dunque è una “funzione civile” l’escavazione ermeneutica del poliziesco sciasciano.

E che Sciascia procedesse nella direzione opposta a quella del giallo ortodosso, pervenendo al mistero anziché alla sua consolatoria soluzione, nulla toglieva all’efficacia del suo piccone, della sua prosa asciutta e rigorosa, fatta di sottrazioni, di raffinate sintesi, di ponderose ellissi.

5. Un silenzio profetico

La questione tuttavia s’ingarbuglia e si arrovescia allorché il “letteratino” si rivela buon profeta, e il giallo cessa di offrirsi come cartina di tornasole di un mondo fondato sul delitto e sull’inganno, appiattendosi senza molte eccezioni alla condizione di mero esercizio di intrattenimento.

L’acuta lungimiranza di Sciascia s’acceca infine nelle strategie di un’industria culturale che individua nel giallo un genere da sdrammatizzare e ricondurre al suo schematismo consolatorio.

Ma d’altra parte anche il travaglio stilistico di Consolo, la sua faticosa ricerca di una lingua altra che non sia quella omologata del potere e del consenso, si traduce in ultima analisi in una involontaria retorica che l’invettiva dolente non riscatta.

Non è un caso che il fenomeno del camillerismo (accomunando per un attimo il caposcuola ai suoi epigoni) fonde l’una e l’altra tendenza dando luogo a una sorta di poliziesco vernacolare o di commedia cronachistica che traduce in caricatura tanto il pastiche gaddiano che l’antigiallo sciasciano.

Così come la parsimonia di Consolo, il suo esilio da una scrittura integrata e corrotta, è stato un modo, consapevole o meno, di comunicarci il disagio e l’irriducibilità dell’intellettuale in una società che ha svuotato di senso la cultura tutta, allo stesso modo la morte, sovrapponendosi a quel silenzio, non cessa il nostro rapporto sia con l’opera, così densa e imprescindibile, pur tra vette e inciampi, sia con l’uomo, così sincero nelle sue lamentazioni, nelle sue polemiche, nelle sue invettive. Incauto come Sciascia, ma meno aduso alla querelle e più pronto all’assalto furente e allo sdegno fremente.

Anche in questo, nelle sue idiosincrasie, nelle sue avversioni, nei suoi j’accuse che a volte sembravano anatemi fu grande e generoso. Non si sottrasse allo scontro, non fu accomodante, si espose su ogni fronte, da quello culturale a quello politico. Volle fino in fondo interpretare la sua dissidenza, anche con il ripudio viscerale a concedersi al consumo letterario.

Ci seppe dire in primo luogo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Come dovrebbe fare ogni grande scrittore.

MARCELLO BENFANTE





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