02 gennaio 2022

LEA MELANDRI, PRENDERSI CURA

 


La cura, una responsabilità politica

Lea Melandri
02 Gennaio 2022

Confinata nel privato e lasciata alla responsabilità della donna, la cura ha finito per fare tutt’uno col lavoro domestico, la mole di attività richieste dalla quotidianità di una casa, di una famiglia, ed è andata a confondersi con i legami affettivi, sessuali, amorosi, più intimi. Quando richiamiamo il concetto di cura per riparare il mondo dobbiamo partire da qui. «La “normalità” a cui non possiamo più tornare – scrive Lea Melandri – è la divisione sessuale del lavoro, la cura come “naturale” destino femminile, anziché responsabilità collettiva…»

La “normalità” a cui non possiamo più tornare è la divisione sessuale del lavoro, la cura come “naturale” destino femminile, anziché responsabilità collettiva. La cura è una necessità degli esseri umani, sia come risposta a bisogni essenziali quando non si è in condizione di autosufficienza – il bambino, l’anziano, il malato -, sia come attenzione, affetto, riconoscimento da parte dei propri simili, di cui ogni individuo ha bisogno per vivere. “Non si vive di solo pane”. Si può morire di dolore, di solitudine, di indifferenza. Che cosa ha impedito allora di essere riconosciuta come tale e affrontata con l’impegno collettivo che merita?

Ora, la prima e la più duratura delle pregiudiziali che hanno impedito finora di vedere la cura come necessità, responsabilità collettiva e scelta, è il fatto che nella storia che conosciamo e che è arrivata fino a noi la cura è diventata il destino “naturale” della donna, considerata come genere e non come individuo. È dalla capacità biologica di fare figli, dalla maternità, che vengono fatte discendere, deterministicamente, le doti tradizionali femminili: riproduzione della vita, dedizione all’altro, capacità di ascolto e di mediazione dei conflitti, responsabilità della casa e della famiglia. Nel Disagio della civiltà, Freud indica come fondamenti della vita in comune la “coercizione al lavoro” e la “potenza dell’amore”, riconoscendo in questo binomio anche la differenziazione tra i ruoli del maschio e della femmina, e il rapporto di potere di un sesso sull’altro. In realtà, una separazione netta tra amore e lavoro non c’è mai stata. Oggi si può dire che, saltati i confini tra privato e pubblico, tra il corpo e la polis, le due sfere si vanno confondendo: da un lato, la cura e il lavoro domestico diventano in parte lavoro salariato, dall’altro le trasformazioni del lavoro produttivo, sempre più immateriale, cominciano a considerare le “doti femminili” una “risorsa”. Il lavoro di cura entra oggi visibilmente nell’economia, ma i legami ci sono sempre stati. La cura dei figli, della famiglia, della casa sono da sempre, come dice Antonella Picchio, “un grande aggregato dell’economia generale”.

La ragione principale dell’occultamento che impedisce tuttora di affrontare alla radice la divisione sessuale del lavoro, e di vedere le conseguenze che ha sulla relazione tra uomini e donne, va ricercata nel fatto che la conservazione della specie si è venuta a confondere con la maternità e con l’amore – amore per un figlio, per un uomo, per una persona particolarmente cara -, e con l’intreccio tra amore e dominio. Le cure che le donne elargiscono all’interno della famiglia come madri, mogli, sorelle, nuore, a bambini, malati, anziani, ma anche uomini in perfetta salute, sono al centro di un paradosso, di una contraddizione che oggi arriva, sia pure lentamente, alla coscienza, ma di cui troviamo tracce inequivocabili nel passato.

Per J.J. Rousseau, la maternità, insieme alla seduzione erotica, è una delle “attrattive” che rendono la donna potente agli occhi dell’uomo, il quale dipende da lei per la nascita, le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali, l’educazione. Ma è anche, proprio per questo, la ragione della sua esclusione dal “contratto sociale”.

Nel capovolgimento, che vede il più debole diventare il più forte, alla donna viene chiesto di vivere “in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce”. Di quanto le donne abbiano a loro volta confuso la forza con la debolezza, l’amore per l’altro con la cancellazione di sé, la cura materna di un figlio con la dedizione amorosa a un marito, un amante, sono testimonianza alcuni frammenti di “lucida intuizione” di Sibilla Aleramo.

“Impulsi intimi di dedizione, compiacimento nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria. 1908”. “Ero schiava della mia forza, della mia creatrice immaginazione ormai… il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché, senza soggetto quasi”.

Questo “sacrificio di sé” nella cura dell’altro è quello che la cultura maschile ha ritenuto essere la “naturale” estensione della maternità e del rapporto madre-figlio a ogni rapporto adulto: madre comunque e sempre, anche se vergine (Mantegazza, Michelet). Il rimprovero che Emilio Cecchi fa all’Aleramo è, in questo senso, illuminante: “Nessuna virtù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé”. Vale la pena di soffermarsi su questo aspetto della cura, perché, al di là dell’“atto sacrilego” che è la rinuncia alla propria individualità, la dipendenza materiale a cui tiene vincolato l’uomo-figlio pesa drammaticamente anche sul desiderio di ogni individuo di rendersi autonomo rispetto al corpo che l’ha generato e da cui ha ricevuto le cure necessarie nell’infanzia. Nel momento in cui non è riconosciuta alla donna un’individualità propria, il bisogno legittimo di curarsi di sé, di potersi esprimere attraverso una molteplicità di manifestazioni di vita, la figura che il figlio si lascia alle spalle crescendo resta quella della madre che lo richiama all’antico legame fusionale, che sembra volerlo perennemente bambino, bambina lei stessa che non ha mai smesso di giocare con le bambole.

L’arresto nel processo di individuazione della donna fa scendere inevitabilmente un’ombra minacciosa anche sull’individuazione e sull’autonomia dell’uomo-figlio.La fissità nel ruolo di madre innalza la donna immaginariamente come minaccia di dipendenza perenne agli occhi del figlio diventato uomo. Per liberarsi di quell’ombra che dall’infanzia si prolunga sulla sua vita adulta, sembra che l’unica soluzione sia l’assorbimento in sé della madre: negarla come esistenza fuori di lui, perché possa vivere solo attraverso la sua vita, la sua riuscita nel mondo. “La mamma è l’unica persona – scrive Michelstaedter nell’ultima lettera alla madre – che può voler bene così, senza mai aver bisogno di affermare la sua individualità e senza che questo le sia un sacrificio”.

Per celebrare la sua autonomia nella sfera pubblica, la comunità storica degli uomini ha avuto bisogno di cancellare i suoi vincoli biologici: la nascita dal corpo femminile ma anche tutto ciò che è inscritto nell’essere corpo (fragilità, dipendenza, mortalità). Per esaltare le potenzialità del pensiero si è accanita sulla natura fino ad alterarne, forse irrimediabilmente, gli equilibri. La svalutazione del corpo, dei bisogni e delle vicende che lo attraversano – la sessualità, l’invecchiamento, la malattia, ecc. – ricade, di conseguenza, sulle cure necessarie per tenerlo in vita, e sul sesso femminile che ne è stato considerato depositario per natura.

Confinata nel privato e lasciata alla responsabilità della donna, la cura ha finito per fare tutt’uno col lavoro domestico, la mole di attività richieste dalla quotidianità di una casa, di una famiglia, ed è andata a confondersi con i legami affettivi, sessuali, amorosi, più intimi. Di qui la gratuità e l’ invisibilità , che hanno impedito finora di vederla come risposta necessaria ai bisogni essenziali dell’umano, una responsabilità che non riguarda la morale femminile ma l’”etica pubblica” (Joan Tronto).


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