Genius loci: Anna Maria Ortese e il Monaciello di Napoli
A CURA DI IVANA MARGARESE
Elio Vittorini presentando Il mare non bagna Napoli definì Anna Maria Ortese con un’espressione capace di descrivere benissimo il talento e la produzione della scrittrice, fin dai suoi esordi, una «zingara assorta in sogno».
E alla produzione giovanile di Anna Maria Ortese appartengono due racconti, in un certo qual modo onirici, dal titolo Il Monaciello di Napoli e Il fantasma, che apparvero quando la scrittrice era poco più che venticinquenne su due riviste: Ateneo Veneto e Nove Maggio.
La loro lettura ha la virtù di riportare indietro nel tempo, quando bambini ci immaginavamo interagire con creature fantastiche, giocare con loro, confidargli i nostri segreti e talora fuggire mossi da un timore vago a cui non riuscivamo a dare un chiaro significato. Il Monaciello di Napoli e Il fantasma ci riconducono a questo spazio di memoria e sogno, in cui le emozioni sono intense ma ancora intorpidite e si sosta pieni di attese sulla soglia:
Del resto, o Lettore intelligente, credi proprio che la vita sia così semplice come appare? Non hai mai, in nessun momento della tua vita, per esempio un giorno di maggio, avvertito nell’aria, coll’odor dei fiori e la danza delle farfalle, l’esistenza di un mondo più brillante, più gioioso e soave? E d’inverno, quando il vento urlava terribilmente intorno alla tua casa, con alti gridi un po’ meccanici un po’ umani, e tu sedevi ben caldo nella tua poltrona, non ti è mai accaduto di avvertire, in quella voce un po’ disuguale e dolorosa, il lamento e la ribellione di povere creature inimmaginabili ? Certo che sì, lettore. Essi sono nascosti dovunque, e ci guardano con occhi sì puri, sì dolci, sì pieni di lagrime e raggianti d’amore. Fate dalle sottili trecce bionde, gnomi, coboldi, spiritelli, fino al caratteristico Monaciello napoletano, di cui parlava mia Nonna, questi esseri vivono, vivono!
Queste creature incarnano l’irreale che tanta parte ha nelle nostre vite, ma che è stato secondo Ortese negato e messo al bando dalla visione umana del progresso positivista. Ortese in Corpo celeste peraltro afferma di credere in tutto ciò che non vede e di credere poco in quello che vede:
Per fare un esempio: credo che la terra sia abitata, anche adesso, in modo invisibile. Credo negli spiriti dei boschi, delle montagne, dei deserti, forse in piccoli demoni gentili (tutta la Natura è molto gentile). Credo anche nei morti che non sono più morti (la morte è del giorno solare). Credo nelle apparizioni. Credo nelle piante che sognano e si raccomandano di conservare loro la pioggia. Nelle farfalle che ci osservano, improvvisando, quando occorra, magnifici occhi sulle ali. Credo nel saluto degli uccelli, che sono anime felici, e si sentono all’alba sopra le case… In tutto credo, come i bambini. In una sola cosa non credo: nell’uomo e nella donna, che esistano ancora. Posso sbagliarmi, ma essi mi sembrano ormai luoghi comuni, simulacri di antichi modelli, canne vuote, dove, nelle notti d’inverno, fischia ancora, piegandole, il vento dell’intelligenza, che li sedusse e distrusse.
Altro tema di entrambi i racconti è quello delle prime ferite d’amore, in cui gli inizi dei sentimenti si accompagnano con il presentimento di essere trasparenti per coloro che amiamo, di sembrare goffi. Ci si percepisce ignorati e al contempo pieni di desideri. Questo sentire di cui parla Ortese può facilmente essere accostato ai versi di una nota poesia di Saffo che nella traduzione di Salvatore Quasimodo recita così: A me pare uguale agli dei/chi a te vicino così dolce/suono ascolta mentre tu parli/e ridi amorosamente. Subito a me/il cuore si agita nel petto/ solo che appena ti veda, e la voce/ si perde sulla lingua inerte./ Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e ho buio negli occhi e il rombo/ del sangue alle orecchie./ E tutta in sudore e tremante/ come erba patita scoloro/ e morte non pare lontana/ a me rapita di mente.
Questo percepirsi come inesistente appartiene al vissuto della Ortese, così come gli amori non corrisposti ma vissuti con grande intensità. Nell’intervista sull’infanzia a Dacia Maraini, raccolta con quelle di altri artisti dall’editore Bompiani col titolo E tu chi eri?, racconta di essersi innamorata per la prima volta a dodici anni di un ragazzo arabo. Poco prima di partire da Tripoli. Un amore che conosceva solo lei – dice – esprimendo tutto lo stupore dei primi amori:
Lo guardavo camminare. Mi piaceva il suo corpo minuto, leggero. Era la prima volta che scoprivo la magia di un’altra persona.
Nel racconto Il fantasma la protagonista ragazzina temendo che il suo sentimento di amore segreto sia visibile a tutti prova imbarazzo e persino terrore:
Mi parve che tutti, sì, tutti, dovessero già essere a parti di tanto segreto, che solo di ciò tutti fossero sì arcanamente tristi e preoccupati. Mi sentii morire. Ripensandoci capisco che lontanissimo doveva essere dalla mente di Zio Alberto, come da quella degli altri parenti, non dico la certezza, ma il solo sospetto e persino il desiderio di conoscere quanto in quel momento addolorava l’anima mia. Ma così è. Quando la passione ci agita, noi crediamo che il fragore angoscioso di quelle onde debba necessariamente raggiungere gli astri: non riflettiamo che invece sì piccolo, sì lieve nel gran mondo il rumore di un’anima.
Ma torniamo al monaciello di Napoli. Chi è il monaciello? È una sorta di genius loci, di spiritello del luogo, di natura sia benefica, che dispettosa, che abita gli armadi delle case. È ribelle rispetto alle regole umane, ma al contempo entra a far parte delle vicende degli abitanti della casa in cui si trova a vivere. Creatura della soglia tra umano e non umano, come tante figure descritte da Ortese, questo ragazzino vestito da monaco, è emblema di uno stare al mondo sospesi. La protagonista del racconto se ne innamora e desidera prendersi cura di lui, proteggerlo, donargli ciò che dagli uomini non ha mai ricevuto. Nonostante sia più piccola di lui, si sente madre del Monaciello Nicola e felice per quella possibilità intima di veder crescere qualche cosa. Proprio così – ha scritto Ortese – amare qualcosa che diventa è come svegliarsi e guardare l’aurora.
Questa attenzione per il dolore e il prendersi cura in prima persona delle creature più minute e fragili avvicina Ortese alla ricerca filosofica di Maria Zambrano e Simone Weil e alla loro ricerca del sacro, del segreto del piccolo senza le quali non avremmo accesso all’intima realtà delle cose. In una intervista di Luigi Vaccari per “Il Messaggero”, 19 maggio 1993, Anna Maria Ortese dichiara:
«Bisogna sempre intervenire contro il Dolore, riguardi un passero o l’Imperatore. Non è giusto veder soffrire chiunque, senza soccorrerlo. Solo alla fine capiremo che l’essere che abbiamo ferito, o ucciso, o ignorato, siamo noi stessi. Il primo dei Comandamenti della coscienza umana resta di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi. Anzi: di fare il bene degli altri, come se gli altri fossimo noi stessi».
Quasi fosse anche lei uno spiritello, una creatura al contempo tenera e dispettosa, a metà tra il mondo visibile e invisibile, Ortese sussurra parole che diventano suoni, ritmo capace al di là dei rumori e delle fascinazioni di indicare verità profonde che sentiamo anche nostre.
Articolo tratto da https://www.vocidallisola.it/2021/12/28/genius-loci-anna-maria-ortese-e-il-monaciello-di-napoli/
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