27 gennaio 2022

ANCHE EDGAR MORIN SA CHE NON ESISTONO IDENTITA' FISSE ED IMMUTABLI

 


L’identità una e molteplice

Edgar Morin
26 Gennaio 2022

Chi siamo? Le nostre identità sono sempre plurali, intrecciate e in continuo divenire. Lo ricorda Edgar Morin – il filosofo e sociologo francese che più di altri negli ultimi anni ha offerto straordinarie chiavi di lettura sulla conoscenza transdisciplinare, sull’altermondialismo e sulle teorie dei sistemi complessi -, nel primo capitolo (di cui pubblichiamo ampi stralci) di Lezioni da un secolo, edito da Mimesis. Attraverso il partire da sé e senza alcuna pretesa di dare lezioni, Morin, che in luglio ha festeggiato cento anni, lega turbamenti e speranze del Ventunesimo secolo. “Non sono solo una minuscola parte di una società… – scrive Morin – La società in quanto Tutto è all’interno di me… Sono il prodotto di eventi e di incontri improbabili, aleatori, ambivalenti, sorprendenti, inattesi. E nello stesso tempo sono Me stesso… Il rifiuto di un’identità monolitica o riduttiva, la coscienza dell’unità/molteplicità dell’identità, sono delle necessità di igiene mentale per migliorare le relazioni umane”

Chi sono io? Rispondo: sono un essere umano. È il mio sostantivo. Ma ho molti aggettivi, di importanza variabile a seconda delle circostanze: sono francese di origine ebraico sefardita, parzialmente italiano e spagnolo, ampiamente mediterraneo, europeo culturale, cittadino del mondo, figlio della Terra-Patria.

Si può essere tutto questo nello stesso tempo? No, dipende dalle circostanze e dai momenti in cui predomina talvolta l’una, talvolta l’altra di queste identità. Come si possono avere molteplici identità? Risposta: è di fatto il caso comune. Ognuno ha l’identità della sua famiglia, quella del suo villaggio o della sua città, quella della sua provincia o della sua etnia, quella del suo paese, e poi quella più vasta del suo continente. Ciascuno ha un’identità complessa, cioè nello stesso tempo una e plurale.

La mia identità una e plurale

La coscienza della mia identità una e plurale mi è venuta progressivamente. I miei genitori immigrati non avevano identità nazionale. Avevano un’identità etno-religiosa sefardita e l’identità di una città, Salonicco, oasi pacifica nell’impero ottomano dal 1492, ove la maggioranza della popolazione era ebrea. A differenza dei greci, dei serbi e degli albanesi che erano stati conquistati e colonizzati dai turchi, gli ebrei vi erano stati accolti e non subivano né esazioni da parte dei giannizzeri né persecuzioni da parte degli ottomani. Una parte di loro, venuta dalla Toscana (Livorno) all’inizio del XIX secolo, vi aveva portato le idee laiche, il capitalismo e poi il socialismo. Anche Salomon Beressi, mio nonno materno, era apertamente un libero pensatore e insegnava ai suoi figli una morale senza Dio. Mio padre, da giovane, non sognava che Parigi. La borghesia sefardita di Salonicco parlava il francese oltre al vecchio castigliano, detto “djidio” in casa e giudeo-spagnolo fuori casa.

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Nato in Francia, non ho avuto in eredità una nazionalità straniera. I miei genitori avevano l’identità di una città a fare da alone dietro la loro nuova identità francese. In famiglia parlavano il djidio, anche se mai con me, ma io avevo questo spagnolo nelle orecchie. Fui sorpreso in Spagna dal fatto di comprendere in parte la lingua e di parlarla più o meno male. Poi fui molto felice di sviluppare la mia parlata castigliana in Spagna e in America latina. Ciò risvegliò in me, che mi credevo discendente diretto degli espulsi del 1492 da Isabella la Cattolica, una identità spagnola – identità che peraltro posso rivendicare legalmente, cosa che mi è stata spesso ufficialmente proposta.

Sono diventato francese naturalmente durante l’infanzia poiché i miei genitori parlavano il francese con me, e a scuola la mia mente si è appropriata della storia della Francia. Ho sentito mia questa storia, con forti emozioni all’evocazione di Vercingetorige, di Bouvines, di Giovanna d’Arco, dell’assassinio di Enrico IV, della Rivoluzione, di Valmy, della prima campagna d’Italia, di Austerlitz, di Napoleone glorioso e di Napoleone decaduto a Sant’Elena, del 1848, del 1870, della Comune, della guerra del 1914-1918. Non ero assolutamente consapevole delle ombre di questa storia […].

Nello stesso tempo, scoprivo di essere ebreo. I miei genitori, benché laicizzati, mi facevano partecipare alla cena di Pasqua da mia nonna, celebrata in giudeo-spagnolo in presenza del rabbino Perahia. Ero stato circonciso, evidentemente senza saperlo, ma mio padre non mi aveva fatto preparare il mio bar mitzvah alla sinagoga dove, a tale scopo, si impara un po’ di ebraico e qualche preghiera. Su insistenza di un cognato pio si rassegnò a un compromesso: chiese al rabbino di rue Buffault di celebrare il rito senza preparazione, adducendo il fatto che fossi un piccolo orfano. Così dovetti ripetere le parole ebraiche che il rabbino mi suggeriva e fare una breve dichiarazione, in francese, dicendo che sarei stato sempre rispettoso nei confronti della famiglia.

Era soprattutto al liceo, nella mia classe, in cui c’erano dei cattolici, qualche protestante, cinque ebrei e dei figli di liberi pensatori, che alcuni compagni mi domandavano quale fosse la mia religione. Ero dunque ebreo, ma questa identità non aveva contenuto culturale. Essa era soprattutto qualcosa di strano per alcuni, e qualcosa di cattivo per altri che avevano ereditato dell’antisemitismo dai loro genitori. Sebbene abbia subito solo pochissime offese personali nella mia giovinezza, ho dovuto sopportare l’antisemitismo estremamente violento della stampa di destra, poi quello di Vichy, senza che ciò mettesse in discussione interiormente la mia identità francese sempre più legata alla tradizione umanista che va da Montaigne a Hugo.

Umanista prima di tutto

In effetti, la mia coscienza ebraica si diluiva nella mia ricerca di una coscienza politica umanistica che cercava una via nella crisi della democrazia, nell’antifascismo e nell’antistalinismo. Avevo diciassette anni quando i nazisti privarono gli ebrei tedeschi dei loro diritti civili e organizzarono la Notte dei cristalli, nel novembre del 1938. Rimasi pacifista, desideroso di conservare un punto di vista universale, piuttosto che auspicare, in quanto ebreo, la guerra contro la Germania.

Sotto l’Occupazione, durante la Resistenza, dopo la guerra, l’identità ebraica si risvegliava e poi scompariva. Avendo preso nella Resistenza lo pseudonimo di Morin, ebbi dopo la guerra la tentazione di cambiare legalmente identità, come fecero alcuni, ma ho mantenuto Nahoum sulla mia carta d’identità, facendovi aggiungere: “detto Morin”. Infine, poiché all’epoca vivevo la tragedia dei processi comunisti, seguii da lontano la guerra d’indipendenza di Israele, felice che i combattenti e i kibbutz smentissero il mito dell’ebreo commerciante e codardo.

Un soggiorno in Israele nel 1965, dunque prima della Guerra dei sei giorni, mi fece scoprire l’odio fra ebrei e arabi. Abbandonai la mia ricerca di radici in quella nazione. Poi, la dominazione di Israele sul popolo arabo della Palestina mi implicò di nuovo come ebreo, ma in quanto uno degli ultimi intellettuali ebrei portatori di universalismo e anticolonialismo, dunque ostili alla colonizzazione della Palestina araba. Gli articoli che all’epoca scrissi su “Le Monde”, nei quali non contestavo per niente l’esistenza di Israele, mi valsero l’essere trattato da traditore e persino da antisemita.

Ho scritto un libro di omaggio a mio padre e ai miei antenati, Vidal mio padre, cosa che rende ridicola ogni accusa di odio, ivi compreso l’odio di sé.

Non ho mai contestato il diritto all’esistenza dello stato israeliano e ho sempre avuto consapevolezza dei pericoli storici che ha subito e potrà subire nel futuro la nazione israeliana. Ho in compenso criticato l’azione repressiva dell’esercito o della polizia israeliani sui palestinesi, e ho riconosciuto il diritto di questi ultimi a uno stato nazionale, conformemente alle risoluzioni dell’ONU e ai defunti accordi di Oslo. Il mio vero desiderio sarebbe stato lo stesso di Martin Buber, quello di una nazione comune agli ebrei e agli arabi. […] Pur riconoscendo la mia discendenza ebraica e pur affermando di essere del popolo maledetto e non del popolo eletto, mi definisco come post-marrano, cioè come figlio di Montaigne (di ascendenza ebraica) e dello Spinoza anatemizzato dalla sinagoga.

Spagnolo, italiano, europeo

La mia identità spagnola deriva dal vecchio castigliano parlato nella mia famiglia, dal mio amore per il teatro e per la letteratura del Secolo d’oro, per García Lorca e Antonio Machado, e soprattutto dai soggiorni in Spagna, particolarmente in Andalusia, dove ho trovato dei cibi matriciali. Tuttavia, la mia identità italiana è diventata molto viva, non solo perché in Toscana mi sono sentito come in una matria ritrovata e perché mi sono impregnato d’Italia, ma anche perché le mie famiglie materne, Beressi e Mosseri, sono di origine italiana. Anche i Nahoum furono un tempo insediati in Toscana, dove uno di loro partecipò al Risorgimento. Del resto, la mia famiglia Nahoum ottenne la nazionalità italiana a Salonicco non appena l’Italia divenne uno stato unificato indipendente. Così come il primo ministro Felipe González volle restituirmi l’identità spagnola, la città di Livorno mi offrì la cittadinanza onoraria.

Europeo, lo divenni politicamente nel 1973, quando scoprii che l’Europa dominatrice del mondo e potenza coloniale disumana era divenuta una povera vecchia cosa che aveva perso le sue colonie e poteva sopravvivere solo sotto perfusione del petrolio mediorientale. Ma le mie speranze europee si deteriorarono con la subordinazione delle istituzioni europee alle forze tecno-burocratiche e poi finanziarie. Infine, le divergenze fra le ex democrazie popolari e le nazioni fondatrici, la pressione distruttiva delle autorità dell’UE sul governo greco di Tsipras e l’atteggiamento generale nei confronti dei migranti di Afghanistan e Siria finirono per deludermiMi auguro che ciò che sussiste non si disintegri, ma ho perso la fiducia nell’Europa.

La mia cultura umanistica mi ha reso fin dall’adolescenza preoccupato per il destino dell’umanità. Quando Philippe Dechartre, uno dei capi del movimento di Resistenza a cui avevo aderito, mi ha chiesto che cosa avesse motivato il mio ingresso nella lotta clandestina, gli ho risposto che non era solo per liberare la Francia, ma anche per partecipare alla lotta di tutta l’umanità per la sua emancipazione – cosa che confondevo con il comunismo.

Una volta dissipata questa confusione, verso il 1952-1953 aderii ai Cittadini del mondo, di cui ho conservato la tessera. Poi presi coscienza del fatto che noi viviamo gli sviluppi dell’era planetaria cominciata nel 1492, prendendo a prestito questo termine da Heidegger. Nella rivista “Arguments” mi dedicai ai problemi di quello che allora si definiva Terzo mondo. Nel 1993 scrissi e pubblicai Terra-Patria, poi diventai adepto di una altermondializzazione, pur prendendo coscienza del fatto che la mondializzazione tecno-economica aveva creato una comunità di destino fra tutti gli umani. Tramite, dunque, Terra-Patria e la comunità di destino, ritorno alla mia prima e sostantiva identità di essere umano. […]

Identità familiare

I miei genitori avevano sei o sette fratelli o sorelle. Una comunità di mutuo aiuto li tenne legati per tutta la loro vita. Le coppie della mia generazione avevano solo un figlio o due. Con la fine della grande famiglia, i legami si allentarono. Figlio unico, incontravo qualche volta zii, zie e cugini; mantenevo qualche raro legame affettivo con alcuni di loro.

La morte di mia madre Luna, quando avevo dieci anni, aggravò la mia solitudine. Rimaneva di lei solo una grande presenza mitica, ma nessuna presenza fisica. L’esagerata protezione che mio padre esercitava sul suo unico figlio fu vissuta da me come una schiavitù della quale mi liberavo non appena si presentava l’occasione. Vissi veramente fuori dalla famiglia, a scuola, al cinema, nei libri, in strada. Io ho fatto la mia educazione e appreso le mie verità.

Sposato e padre di due figlie, non cercavo di educarle, pensando che niente valesse più dell’auto-educazione, come era stata la mia. Poi la mia separazione da Violette quando loro avevano undici e dodici anni, la mia vita amorosa, le mie ossessioni intellettuali e politiche sospesero a più riprese le nostre relazioni senza porvi fine. Non fui un buon figlio né un buon padre, ma fui un marito amato e amorevole. […]

Il mio cammino intellettuale da solitario

Il mio primo libro, L’Anno zero della Germania, che tornava sulle mie esperienze del 1945-1946 nella Germania devastata e sconvolta, fu accolto bene. Se ha irritato qualche germanista, è pur vero che in quel momento non c’era nessun altro che trattasse di quel momento unico e straordinario della storia tedesca. Allo stesso modo, L’uomo e la morte, il mio primo libro importante, in cui inauguro il mio modo di conoscenza transdisciplinare, non subì alcuna critica da parte degli specialisti, poiché nessuno fino ad allora aveva mai trattato dei paradossali atteggiamenti umani davanti alla morte intrecciando la storia, la sociologia e la psicologia. Fu così anche per il mio libro di antropologia del cinema, che non fece torto ad alcun esperto, e poi per quello sulle star, personaggi semi-mitici che non avevano mai interessato i sociologi. In seguito, al contrario, quando mi sono lanciato ne Il Metodo, sono stato spesso mal visto da alcuni proprietari dei domini di conoscenza, accusato come incompetente o volgarizzatore, mentre reinterpretavo e collegavo le conoscenze sparse e forgiavo il metodo per trattare le complessità.

So per certo che ci sono state e che ci sono molto più grandi vittime dell’incomprensione e della calunnia. Pur amareggiato, e pur criticando quelli che ritengo essere i loro errori, e in alcuni casi la loro vanità, non ho mai attaccato chi mi ha attaccato.

Ho anche subito, dopo la mia rottura con il Partito comunista, gli insulti di routine che ogni escluso riceve. Ho subito le più enormi calunnie per aver criticato la politica repressiva di Israele nei confronti del popolo palestinese. Ogni personaggio pubblico suscita innumerevoli inimicizie. Ma beneficia anche di amici sconosciuti…

Ho preferito rimanere libero e indipendente al CNRS (dove ero giudicato favorevolmente, a seconda della quantità e non della qualità dei miei lavori) piuttosto che brigare per un posto in un’università di provincia dove sarei stato ossessionato dal desiderio di essere chiamato a Parigi, sognando la pensione o la morte dei titolari di cattedra. Non ho aspirato ad alcun posto onorifico come il Collège de France e non ho mai fantasticato sull’Académie. Ma ho accettato con piacere i trentotto dottorati honoris causa ricevuti all’estero.

Chi sono io, infine?

Ho dedicato molte pagine per descrivermi, sapendo che questo autoritratto lacunoso comporta anche l’assenza di ciò che indicherò ora.

Non sono solo una minuscola parte di una società e un effimero momento del tempo che passa. La società in quanto Tutto, con la sua lingua, la sua cultura e i suoi costumi è all’interno di me. Il mio tempo vissuto nel XX e XXI secolo è all’interno di me. La specie umana è biologicamente all’interno di me. La linea dei mammiferi, dei vertebrati, degli animali, dei policellulari è in me.

La vita, fenomeno terrestre, è in me. E poiché ogni vivente è costituito da molecole, le quali sono assemblaggi di atomi, i quali sono unioni di particelle, è tutto il mondo fisico e la storia dell’universo che sono in me. Sono un Tutto per me, pur restando quasi niente per il Tutto. Sono un umano tra otto miliardi, sono un individuo singolare e qualunque, differente e simile agli altri. Sono il prodotto di eventi e di incontri improbabili, aleatori, ambivalenti, sorprendenti, inattesi. E nello stesso tempo sono Me stesso, individuo concreto, dotato di una macchina ipercomplessa auto-eco-organizzatrice che è il mio organismo, macchina non banale, capace di rispondere all’inatteso e di creare dell’inatteso. Il cervello dà a ciascuno la mente e l’anima, invisibili al neuroscienziato che analizza il cervello, ma emergenti in ogni umano nella sua relazione con l’altro e con il mondo. Ciascuno di noi è un microcosmo, che porta all’interno dell’unità irriducibile del suo Me-Io, spesso inconsciamente, i molteplici Tutto dei quali fa parte all’interno del grande Tutto. Questi molteplici Tutto sono costituiti dalla diversità dei nostri ascendenti familiari e delle nostre appartenenze sociali.

Il rifiuto di un’identità monolitica o riduttiva, la coscienza dell’unità/molteplicità (unitas multiplex) dell’identità, sono delle necessità di igiene mentale per migliorare le relazioni umane.

Articolo ripreso da  https://comune-info.net/lidentita-una-e-molteplice/



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