A COSA SERVE RICORDARE?
di Matteo Bortolini
Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si
conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito.
Qoelet 1:11.
Ogni mattina accompagno a scuola Ester Emilia e torno verso il centro. Ogni
mattina supero la folla di liceali che aspettano la campanella fumando e
chiacchierando e attraverso il ponte della stazione. Ogni mattina, fermo al
semaforo di via Carracci, incontro il memoriale della Shoah di Bologna[1]. Sta lì dal 27 gennaio 2016. Un’ampia
piazza chiara dominata da due grandi parallelepipedi rossastri divisi da un
passaggio che si fa sempre più stretto via via che dalla periferia si cammina
verso il centro città[2].
Scabro e compatto all’esterno, al suo interno il memoriale rivela una serie di alloggiamenti
che rimandano ai letti a castello che abbiamo visto coi nostri occhi ad
Auschwitz e Mauthausen[3].
Per chi percorre il memoriale tra i due blocchi, la luce viene dalla stazione,
la Bolognina rimane alle spalle.
Il luogo, ha spiegato il presidente della Comunità Ebraica Daniele De Paz
il giorno dell’inaugurazione, non è casuale. Shoah e strage di Bologna sono due
momenti in cui la dignità umana è stata umiliata. Pur nella loro differenza
abissale, i due eventi contribuiscono a costruire una medesima coscienza e un
medesimo sentire. “La memoria,” ha detto De Paz alla cerimonia, “è universale,
perché appartiene a tutti ed è essa stessa identità”. Da quel
momento in poi ricordare la Shoah a Bologna diventa parte
dell’identità cittadina e insieme (e senza cesura) una riflessione universale[4]. Perché, a ben vedere, il movimento della
parola incarnata nell’acciaio va dal singolare—quell’evento, devastante nella
sua unicità—al generale—una riflessione su cosa può significare “essere
umani”—che si sofferma su un’altra singolarità—la memoria delle stragi di Bologna.
Eventi particolari, individuali, irripetibili divengono così portatori di un
significato che li trascende senza mai perdere la propria singolarità.
Ricordarli significa cercare di cogliere quel significato, che è tutto fuorché
scontato[5].
In effetti, nel discorso inaugurale di De Paz troviamo un’idea assai
precisa della memoria dell’Olocausto e del suo legame con noi, che
nel 1945 eravamo soltanto nell’immaginazione di Dio: “Su quella superficie si
può continuare a scrivere il presente,” ha affermato, “Coscienti del male e
dell’ignoranza del passato rispondiamo, tutti assieme, con la vita, il ricordo
e il dialogo, affinché la brutalità non risorga, in nessuna
forma e contro nessuna cultura”[6].
Non solo gli ebrei e non solo Bologna, dunque, ma ogni essere umano viene
idealmente abbracciato da a un “gesto antichissimo di ospitalità”. Sette anni
dopo, vedere la piazza del memoriale occupata giorno e notte da skater e
appassionati di parkour, da ragazzi e ragazze che fumano, bevono e
chiacchierano tranquilli è una vittoria del gesto che De Paz ha descritto come
“aprire le porte e condividere le nostre memorie”[7].
Al di là di Bologna, il memoriale si richiama naturalmente a quella coscienza
nazionale, whatever that means, che parla nella legge
del Giorno della Memoria istituito per “conservare nel futuro dell’Italia la
memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in
Europa, (…) affinché simili eventi non possano mai più accadere”[8]. L’idea di Renzo Gattegna, che nel 2016
presiedeva l’Unione delle comunità ebraiche italiane, è che “far conoscere ai giovani
quello che è accaduto non è solo un fatto di cultura, è un fatto di formazione
della loro coscienza civica, della loro umanità”.[9] Ricordare
serve anzitutto a non perdere il passato, a non lasciarlo passare, ma anche a
creare il presente e soprattutto il futuro. “Never again”, direbbe qualcuno.
“Nothing is ever lost”, direbbe qualcun altro. “Ma solo se ci si sforza di
mantenerlo presente”, risponderei io.
Fast forward al 13 ottobre 2023. Come ogni mattina mi incammino verso il ponte
della stazione. C’è il sole e ho salutato Ester Emilia con un bacio e un
sorriso. Mentre attraverso la strada mi accorgo che il memoriale della Shoah è
diverso dal solito. Oggetti e cartelli, foto e volantini coprono le pareti di
acciaio arrugginito. Sparsi a terra, un centinaio di piccoli portacandele di
vetro ormai vuoti. Dodici ore prima una piccola folla di cittadini si è stretta
attorno alla comunità ebraica di Bologna nel ricordo delle vittime degli
attacchi di Hamas del 7 ottobre. Ciò che è rimasto è la traccia, la memoria del
dolore e della solidarietà per chi ha subito una violenza che fa tremare i
polsi. Il presidente della Comunità Ebraica, ancora Daniele De Paz, ha
pronunciato parole del tutto in linea con il discorso di sette anni prima:
bisogna, dice, “ricordare non solo le vittime, ma anche (…) bisogna essere con
tutte le forze contro ogni forma di violenza e di sopruso”[10].
Mentre mi avvicino per fare qualche foto, un ragazzo dai tratti
marcatamente magrebini—non saprei come dirlo altrimenti—comincia, a distanza, a
insultarmi. Lo guardo negli occhi e gli chiedo se ce l’abbia proprio con me. No
no, si affretta a scusarsi mentre si avvicina, ce l’ho con chi sta
strumentalizzando quello che è successo. È magro, carino e sfrontato. Ci
raggiunge una ragazza—occhi azzurri, piercing, felpa rossa, sigaretta. Avranno
sì e no trent’anni in due. Abbiamo strappato questo, mi dicono, chinandosi a
raccogliere da terra un foglio accartocciato. È un manifesto che fino a pochi
istanti fa era attaccato, insieme agli altri, al memoriale della Shoah. La
scritta “I stand with Palestine” è stata cancellata e sostituita con “I stand
with Hamas”. Il messaggio è, anche questa volta, assai chiaro. Tra le foto
degli ostaggi, tra i manifesti che ricordano i quaranta bambini uccisi, tra i
cartelli “Never again is now” c’era, la sera prima, anche un foglio in cui
Palestina e Hamas diventavano la stessa cosa. Questo messaggio—e solo
questo, mi guardo intorno e non vedo altri fogli strappati—è intollerabile
per i due. Se fanno qualcosa per ricordare la Shoah, dicono salutandomi, noi ci
siamo, ma questo proprio no. Attraverso il ponte senza lasciarmeli alle spalle.
Fast forward, un’altra volta. Sono passati sei giorni dal 13 ottobre 2023. Sei giorni
di bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Sei giorni senza acqua, elettricità,
cibo e internet. Sei giorni di morte indiscriminata. Sei giorni in cui il
memoriale della Shoah è rimasto in silenzio, intoccato. Nessuna foto di bambini
palestinesi morti, nessun cartello, nessun messaggio. Ma non era, il memoriale,
il luogo in cui si lavorava affinché la brutalità non risorgesse “in nessuna
forma e contro nessuna cultura”? Non era il luogo in cui il ricordo di un
particolare (la Shoah) si saldava alla memoria di un altro particolare (la
strage di Bologna) per costruire qualcosa di universale e definitivo? Non era
il luogo “aperto”, capace di intrecciarsi alla vita della città e predisposto
“a eventuali partecipazioni e riti comunitari”?[11] Sei giorni in cui mi sono chiesto
incessantemente cosa succederebbe se andassi ad attaccare al memoriale qualche
foto, qualche slogan, qualche riflessione[12].
Non l’ho fatto, e non lo farò. Ma se lo facessi attaccherei la prima cosa a
cui ho pensato quando Tsahal ha cominciato a bombardare i gazawi. È un
passaggio da Benvenuti nel deserto del reale[13], il pezzo scritto da Slavoj Žižek dopo
l’11 settembre, che rimane per me una vera bussola politica e morale: ““Non
sappiamo ancora quali saranno le conseguenze di questo evento per l’economia,
l’ideologia, la politica o la guerra, ma una cosa è sicura: gli Stati Uniti,
che finora si concepivano come uno spazio isolato esente da questo tipo di
violenza, testimone di cose del genere solo dal sicuro punto di osservazione di
uno schermo televisivo, sono ora direttamente coinvolti. L’alternativa quindi
è: gli americani decideranno di rafforzare ulteriormente la loro ‘sfera’ o si
azzarderanno a uscirne? L’America potrebbe persistere, addirittura
intensificandolo, nel suo atteggiamento profondamente immorale del tipo ‘Perché
questo è successo a noi? Cose del genere non accadono qui!’, puntando verso una
maggior aggressività contro il minaccioso Esterno, facendo sua una professione
di paranoia. Oppure potrebbe finalmente rischiare di attraversare lo schermo
fantasmatico che la separa dal mondo Esterno, prendendo atto di essere arrivata
nel mondo Reale e decidendosi finalmente a compiere il passo (da lungo tempo
atteso) che porta da ‘Una cosa del genere non dovrebbe accadere qui!’ a ‘Una
cosa del genere non dovrebbe accadere da nessuna parte!’ Qui si trova la vera
lezione degli attacchi terroristici: l’unico modo per essere sicuri che non
succederà un’altra volta qui è fare in modo che non accada da
nessun’altra parte”[14].
Ma perché non vado al memoriale della Shoah ad attaccare una foto, un
articolo, uno slogan? Sono sei giorni che ci penso. Ne avrei, di
questo sono certo, tutto il diritto. Sono un cittadino di Bologna e
il memoriale alla Shoah, lo ha detto il sindaco all’inaugurazione, è anche mio.
Nel documentario Tzachor lo dice anche De Paz: “Nostro, in
questo caso, non di Comunità Ebraica, nostro della città di Bologna”[15]. Il memoriale sta nel punto in cui la
città nuova (dove va a scuola mia figlia) tocca la città vecchia (dove
abitiamo)[16]. Sta nel punto in cui 2 agosto e 27
gennaio si con/fondono. Sta nel punto in cui i se e i ma, le storie e i
contesti devono tacere, fosse anche solo per un attimo. È anche, più
intimamente, il punto della città in cui i miei tentativi di vivere le mie relazioni,
da quelle personali a quelle istituzionali, contro ogni forma di violenza, di
prevaricazione, di oppressione si scontrano con la realtà e la debolezza
dell’essere umano. Di rado sono stato all’altezza delle aspettative che gli
altri mi rivolgevano e quasi mai all’altezza di quelle che rivolgevo a me
stesso, e il memoriale della Shoah è lì a ricordarmelo. Perché dunque non ci
vado? Perché non agisco? Ho paura di essere segnalato, arrestato, pestato? Non
credo e d’altronde, come diceva Maurice Halbwachs, la memoria è un fenomeno
collettivo e in quanto tale un’arena di conflitti—il conflitto è, o dovrebbe
essere, l’essenza stessa del luogo di cui stiamo parlando[17]. E allora perché non me la
sento? E perché nessun altro, almeno fino a questa mattina, lo ha
fatto? Perché nella pratica quel memoriale non è mio,
non è nostro?
Erase and rewind: A cosa serve dunque ricordare? Io credo che nessuno sano di mente dica
“Never again is now” perché pensa che un regime con camicie brune, treni e
camere a gas possa tornare oggi o domani esattamente com’era
nel periodo tra le due guerre. No, ricordare serve ad altro. Serve, forse, a
imparare a riconoscere l’ingiustizia, l’oppressione, la violenza in ogni gesto
in cui possono incarnarsi—cioè in ogni gesto. A imparare che gli eventi del
passato presentano a tratti, se le sappiamo e le vogliamo vedere,
somiglianze di famiglia con gli eventi del presente. A imparare a vedere queste
somiglianze, a volte gioiose, a volte tragiche. Ad addestrare la nostra
capacità individuale e collettiva di riconoscere e rifiutare l’inaudito. Una
capacità che non è naturale, non è scontata e non è tanto forte da spingerci ad
agire. Una capacità di connettere i frantumi che viene costantemente e
irresistibilmente spinta nel futuro, mentre il cumulo delle rovine sale davanti
noi al cielo.
È banale finire una riflessione sulla memoria con l’Angelo della Storia?
Probabilmente sì. Ma rimane vero che il passato e la sua vera immagine passano
di sfuggita. Luoghi come il memoriale della Shoah di Bologna sono, o potrebbero
essere, luoghi per provare ad afferrare quello che passa, per creare quello che
Walter Benjamin chiamava, misteriosamente, il “vero stato di
eccezione, migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il
fascismo”,[18] ovunque e in ogni tempo, “affinché
la brutalità non risorga, in nessuna forma e contro nessuna cultura”. Senza
paradossi questa possibilità nasce solo dall’interrompersi della nostra
arroganza, da una crepa, da una piccola porta. Un passaggio che, come quello
che separa i blocchi di acciaio del memoriale della Shoah di Bologna, si fa
ogni giorno più stretto.
Note
[1] https://www.storiaememoriadibologna.it/memoriale-della-shoah-1215-opera;
https://vimeo.com/152951361
[2] https://www.bolognatoday.it/cronaca/Shoah-Memoriale-Bologna-inaugurazione-via-carracci-matteotti.html
[3] https://www.area-arch.it/bologna-shoah-memorial/
[4] Il memoriale è stato in parte finanziato da
istituzioni come la Regione Emilia-Romagna e la Fondazione del Monte di Bologna
e Ravenna. La sua storia è raccontata in un bel documentario dal titolo Tzachor, https://vimeo.com/196838595.
[5] Vedi per esempio Jeffrey C. Alexander, La
costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre, Bologna, Il Mulino,
2006.
[6] https://www.bolognatoday.it/cronaca/Shoah-Memoriale-Bologna-inaugurazione-via-carracci-matteotti.html
[7] https://moked.it/blog/2021/04/08/memoriale-un-luogo-vivo-un-luogo-dincontro/
[8] Vedi l’articolo 2 della legge 211 del 20 luglio
2000.
[9] Vedi l’intervista a Renzo Gattegna, Tzachor, https://vimeo.com/196838595, dal minuto
1:25.
[10] https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/candele-vittime-israele-pace-e81fe52e
[11] Vedi
l’intervista di Gianfranco Maraniello in Tzachor, https://vimeo.com/196838595, dal minuto
14:40.
[12] Ma cosa potrei
attaccare? Qualche articolo di Haaretz (https://www.haaretz.com/opinion/2023-10-09/ty-article-opinion/.premium/israel-cant-imprison-2-million-gazans-without-paying-a-cruel-price/0000018b-1476-d465-abbb-14f6262a0000), oppure “On
Mourning and Statehood” di Gabriel Winant, pubblicato su Dissent proprio
nel momento in cui salutavo i due ragazzi al memoriale (https://www.dissentmagazine.org/online_articles/a-response-to-joshua-leifer). O ancora il
pezzo scritto da Judith Butler per la London Review of Books (https://www.lrb.co.uk/the-paper/v45/n20/judith-butler/the-compass-of-mourning) o il
bellissimo “The Need to Forget” di Yehuda Elkana
(https://ceuweekly.blogspot.com/2014/08/in-memoriam-need-to-forget-by-yehuda.html).
Per fortuna, e contro tutto il pessimismo di questi giorni, c’è solo l’imbarazzo
della scelta.
[13] https://muse.jhu.edu/article/30771/pdf
[14] Slavoj
Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi, 2002.
[15] Tzachor, https://vimeo.com/196838595, intorno al
minuto 19:13.
[16] Vedi
l’intervista di Francesco Evangelisti in Tzachor, https://vimeo.com/196838595, dal minuto
3:08.
[17] Maurice
Halbwachs, La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 2007.
[18] Walter
Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997.
Pezzo ripreso da LEPAROLELECOSE
[Immagine: Memoriale di Bologna].
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