L’ossessione dell’accumulazione
05 Ottobre 2023
A otto anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si‘, dove i cambiamenti climatici erano trattati come uno dei “gemiti della Terra” – la nostra casa comune – sotto l’effetto dell’incuria degli uomini, nella giornata dedicata al santo da cui ha preso il nome, papa Francesco torna sull’argomento con una “Esortazione apostolica” che aggiorna e integra l’enciclica del 2015. Il testo di questo documento è molto più breve dell’enciclica ed è focalizzato in modo esplicito, se non esclusivo, sulla minaccia del collasso climatico che incombe sul pianeta. Segno evidente che Francesco avverte l’urgenza e l’intensità del rischio che corriamo, tanto da fargliene anteporre la trattazione a due degli altri temi che sappiamo stargli particolarmente a cuore: la guerra e i migranti, di cui qui non si parla se non di sfuggita.
“L’impatto del
cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e
famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle
risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti… Si tratta di un
problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita
umana” (2 e 3).
Il corso della crisi è sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno degli scienziati per rendersene conto:
“negli ultimi
anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo,
siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili
di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi” (6).
Ma il negazionismo di principio o di fatto si ostina a
ridicolizzare o sottovalutare la gravità e l’origine antropica della
crisi climatica:
“Negli ultimi
tempi non sono mancate le persone che hanno cercato di
minimizzare questa osservazione” o che cercano di “porre in ridicolo chi parla
di riscaldamento globale” (7).
Si giustifica così l’inazione, o un’azione insufficiente, in nome delle
esigenze dell’economia e dell’occupazione, o della salvaguardia dell’esistente,
e non si tiene conto del fatto che a essere maggiormente esposti e
colpiti dalle conseguenze di questa crisi sono i poveri e gli
emarginati della Terra:
“Ciò che sta
accadendo è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie
conseguenze del cambiamento climatico: l’innalzamento del livello del mare, la
siccità e molti altri fenomeni che colpiscono il pianeta hanno lasciato
parecchia gente alla deriva” (4 e 10). “Ma la realtà è che una bassa
percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50%
di quella più povera” (9).
Il danno è ormai irreversibile:
“non possiamo
più fermare gli normi danni che abbiamo causato. Siamo appena in tempo per
evitare danni ancora più drammatici” (16).
Il fatto è che gli accordi sul clima a livello internazionale, a partire
dalla convenzione sul clima del 1992 di Rio de Janeiro, non hanno funzionato se
non in misura molto limitata e spesso le COP sul clima si sono rivelate un vero
fallimento:
“vi è stata un’abbondanza
di ‘esortazioni’, da cui era difficile attendersi un impatto reale. Le proposte
volte a garantire una transizione rapida ed efficace verso forme di energia
alternativa e meno inquinante non sono riuscite a fare progressi” (49).
Quindi, senza abbandonare l’approccio multilaterale affidato agli Stati, è
sull’iniziativa dal basso, su un multilateralismo dei movimenti di base, che
bisogna contare, anche per smuovere e incanalare nella giusta direzione le
scelte che vengono fatte a livello statuale. Di fatto, le azioni di gruppi
detti “radicalizzati” in realtà
“occupano un
vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana
pressione, perché spetta ad ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei
propri figli” (58). “Gli sforzi delle famiglie per inquinare meno, ridurre gli
sprechi, consumare in modo oculato, stanno creando una nuova cultura. Il
semplice fatto di cambiare le abitudini personali, familiari e comunitarie
alimenta la preoccupazione per le responsabilità non assolte da parte dei
settori politici e l’indignazione per il disinteresse dei potenti” (71).
“Tutto ciò
presuppone che si attui una nuova procedura per il processo decisionale e per
la legittimazione di tali decisioni, poiché quella stabilita diversi decenni fa
non è sufficiente e non sembra essere efficace” (43). Quindi “possiamo solo
aspettarci delle forme vincolanti di transizione energetica che abbiano tre
caratteristiche: che siano efficienti, che siano vincolanti e facilmente
monitorabili” (59).
Ma che cosa c’è all’origine dello scempio che infliggiamo alla madre Terra
e alle nostre stesse vite? Francesco non ha dubbi: c’è quello che chiama “il
paradigma tecnocratico” e che noi conosciamo con il nome di economia
capitalistica:
“Il paradigma
tecnocratico… consiste nel pensare come se la realtà, il bene e la verità
sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia”
[Laudato sì]. E,come conseguenza logica, “da qui si passa facilmente all’idea
di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli
economisti, i teorici della finanza e della tecnologia”. Ma “il problema più
grande è l’ideologia che sottende un’ossessione: accrescere oltre ogni
immaginazione il potere dell’uomo, per il quale la realtà non umana è una mera
risorsa al suo servizio” (20 e 22).
Il problema è dunque la crescita, l’ideologia che presiede e giustifica
l’accumulazione del capitale. Ma alla
sua base c’è il pensiero secondo cui il mondo non umano non è che una risorsa a
disposizione dello “sviluppo”, delle esigenze dell’essere umano. È questo il
modo di pensare che va abbandonato per sempre, ricostituendo la stretta
intimità che lega gli esseri umani alla “natura”, al resto del creato:
“La vita,
l’intelligenza e la libertà dell’uomo sono inserite nella natura che
arricchisce il nostro pianeta e fanno parte delle sue forze interne e del suo
equilibrio”. Pertanto, “un ambiente sano è anche il prodotto dell’interazione
dell’uomo con l’ambiente, come avviene nelle culture indigene e come è avvenuto
per secoli in diverse regioni della Terra” (26 e 27).
Francesco ribadisce dunque la necessità di abbandonare per sempre
l’antropocentrismo così come l’abbiamo inteso, praticato e vissuto finora:
“oggi siamo
costretti a riconoscere che è possibile sostenere solo un “antropocentrismo
situato”. Vale a dire, riconoscere che la vita umana è incomprensibile e
insostenibile senza le altre creature. Infatti, “noi tutti esseri dell’universo
siamo uniti da legami invisibili”. Così, in questo “percorso di riconciliazione
con il mondo”, “mettiamo fine all’idea di un essere umano autonomo, onnipotente
e illimitato, e ripensiamo noi stessi per comprenderci in una maniera più umile
e più ricca” (67 e 68). Perché “un essere umano che pretende di sostituirsi a
Dio diventerà il peggior pericolo per se stesso” (73).
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