02 ottobre 2023

LEGGERE KAFKA NON E' FACILE

 


Franz Kafka, “La metamorfosi”, 

punti di osservazione ingenui


L’illusione di poter scrivere di qualcosa che tutti conoscono

Quasi tutti lo sanno, almeno per sentito dire: Gregor Samsa è un giovane uomo che una mattina si sveglia, dopo “sogni inquieti”, trasformato in un insetto, “un insetto mostruoso”. Giace nella sua stanza, nell’appartamento che divide con i genitori e la sorella Grete.
Ma un conto è credere di “sapere la storia”. Diverso è leggere La metamorfosi. Quando leggiamo scopriamo di entrare, già dalle prime parole, in un mondo dal quale non potremo più andarcene. 
Un mondo che ci appare consueto, noto – un interno piccolo borghese di inizio Novecento, così abituale per la letteratura che amiamo – ma supremamente enigmatico, inafferrabile, ostile.
È così normale e materiale, concreto il mondo di Gregor. E tuttavia chi legge La metamorfosi lo vede attraverso un prisma; un prisma che ci è apparso in un sogno a occhi aperti che non sappiamo far finire. Un prisma che ci mostra ogni scena e ogni parola, ce la fa capire, ma che ci confonde appena prima di aver davvero compreso questa storia.
L’esperienza del leggere questo racconto si ripeterà unica e diversa ogni volta che la faremo, per il resto della nostra vita. E non saremo mai più a nostro agio pensando a Gregor Samsa. Ma non potremo più lasciarlo.

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Gregor non è spaventato, Gregor forse è solo stupito. 
Si chiede: “Che mi è accaduto?” Sa bene che ciò che sta vivendo non è un sogno. Il dorso è duro come una corazza, lo sente stando sdraiato. Sollevando il capo vede “il ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole gli si agitava dinanzi agli occhi” (traduzione di Anita Rho, Adelphi).
Gregor non urla, non chiama aiuto. Gregor, ci dice la voce che narra, prova a guardare dalla finestra ma il cielo tetro “finì di renderlo malinconico”. 

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Franz Kafka (1883-1924) scrisse La metamorfosi verso la fine del 1912. Insieme a Il processo (iniziato nel 1914 e rimasto incompiuto) è la sua opera più nota, citata. È stata recensita migliaia di volte con centinaia di interpretazioni. Su questo racconto sono state scritte pagine illuminanti da alcuni degli autori più importanti del Novecento. Ancora oggi, a oltre 110 anni dalla scrittura, La metamorfosi continua a interrogarci sulla condizione umana e, generazione dopo generazione, sul nostro essere dentro la storia e la società, sul mistero della nostra vita.

Il lavoro del lettore è sempre un lavoro di interpretazione, ma il lettore di Kafka non può mai davvero interpretare. Lo scritto è così stupefacente e profondo che non ci si riesce mai a specchiare, né a intravedere un luogo dove osservarlo senza che ci sfugga.

Dovremmo dunque cominciare a dire che La metamorfosi è solo se stessa. L’opera di Kafka sopravviverà ovviamente alla nostra capacità di comprendere (“contenere in sé, abbracciare, racchiudere”, Treccanile sue parole. 

Poche settimane fa lo scrittore Edoardo Rialti su “Linus“ (n. 7, 2023,  la rivista ha dedicato un numero speciale a Kafka) – ha scritto che da “un secolo Kafka ci espone costantemente a questa totale inscindibilità tra segno e significato, che non possiamo più isolare e brandire ma che piuttosto ci avvolge, insidia”. 

Vladimir Nabokov, come, dopo di lui, Milan Kundera, ci ha invitato a leggere Kafka lasciando perdere la categoria della “santità” nella quale voleva collocarlo il suo amico, primo biografo ed “esecutore letterario” Max Brod. Il suo posto è solo il posto della grande letteratura. 

Philip Roth ha definito Kafka «il poeta dell’inafferrabile e dell’irrisolto, le cui atroci visioni di sconfitta hanno al proprio cuore la fede nell’irremovibile barriera che separa la volontà dalla sua realizzazione; il Kafka la cui narrativa invalida qualsivoglia, facile, commovente, umanisticheggiante sogno a occhi aperti di salvezza e giustizia e soddisfacimento, immaginando complessi controsogni che deridono qualunque soluzione o via di fuga” (Guardando Kafka, in Perché scrivere? Einaudi).

Solo le parole di Kafka nella metamorfosi, dunque spiegano La metamorfosi.

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Quando Gregor osserva la luce tetra della giornata nella quale si sveglia insetto, pensa di tornare a dormire. Per qualche momento gli sembra che dormire ancora un poco potrebbe fargli dimenticare “ogni pazzia”. 

Ma come può credere di potersi salvare, dormendo ancora un po’?. 

Del resto Gregor è abituato a dormire sulla parte destra e nelle sue attuali condizioni non riesce a mettersi in quella posizione. Provò “più di cento volte” ci dice il narratore: “ad occhi chiusi per non vedere tutte quelle gambe guizzanti, e rinunziò soltanto quando incominciò a sentire nel fianco un dolore leggero, sodo, non ancor mai provato”.

Non riesce a rifugiarsi nel sonno ed è costretto a pensare alla propria condizione. Ma qui ci riserva una delle sconcertanti sorprese del racconto. Perché Gregor, l’uomo appena diventato insetto, pensa al lavoro, rimugina sul suo lavoro, teme di perdere il suo posto. Maledice il lavoro che lo costringe ogni mattina a svegliarsi alle quattro e a prendere il treno delle cinque per vendere la merce che il principale, il gerente, la sua famiglia si aspettano che venda.

Ogni volta che leggo non riesco a non sentire il ghiaccio della solitudine assoluta per la condizione di Gregor davanti al suo lavoro, alla maledizione del lavoro. Il lavoro borghese di Gregor, il decoro del commesso viaggiatore che teme di essere licenziato; che si è presa la famiglia sulle spalle, che oltre a mantenere la madre, il padre e la sorella, e l’appartamento, deve anche restituire soldi al principale per saldare i debiti del fallimento commerciale del padre stesso. Eppure, non è solo la maledizione del lavoro: c’è un abisso più profondo davanti a Gregor.

Piero Citati ha scritto (Kafka, Adelphi) che il giorno in cui cominciò La metamorfosi, il 17 novembre del 1912, Kafka attendeva nel suo letto una o due lettere dalla donna che amava, Felice Bauer;  le aspettò per quasi tre ore. In quella terribile attesa “venne assalito dalla sua angoscia ricorrente – l’angoscia di essere cacciato dal mondo come un animale parassitario che gli uomini possono schiacciare o prendere a calci”.

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Gregor pensa ancora come un uomo ma l’istinto diventa quello dell’insetto: cammina sui muri, gli piace stare aggrappato al soffitto in “una felice smemoratezza”. mangia avanzi marci. Eppure soffre per il tormento della madre, si commuove per le premure della sorella, si preoccupa per le difficoltà finanziarie nelle quali precipiterà il padre e tutta la famiglia, privati del suo stipendio.

Il passaggio chiave della storia si raggiunge ben presto quando per Gregor, insetto mostruoso, chiuso e assediato nella sua stanza troppo piccola, la vita diventa la tragedia del quotidiano ribrezzo, del disprezzo fisico e morale che l’interno borghese della sua famiglia gli riserva e che dapprima si insinua solo attraverso gli sforzi di prestargli un po’ di cura. 

È un passaggio composto da piccoli dettagli. Come quando Gregor comprende che per la sua amata sorella – che si era assunta il compito di accudire un poco alla sua stanza dopo la metamorfosi –  vederlo era diventato “insopportabile e che ella doveva farsi una gran forza per non scappare anche soltanto alla vista della piccola parte del suo corpo che spuntava fuori dal divano”. 

Poco dopo Grete, aiutata con incertezza dalla madre, decide di sgombrare i mobili della stanza di Gregor: la scrivania, la cassettiera, gli attrezzi del suo hobby di piccola falegnameria, il ritratto della signora impellicciata appeso a una parete. Egli abbraccia questo ritratto, lo vuole trattenere con sé; e, attaccato alla parte e al quadro, la madre per la prima volta vede bene il figlio trasformato in insetto. 

Scorge “la gigantesca macchia bruna sulla tappezzeria a fiori e, prima ancora di rendersi conto che era Gregorio ciò che ella vedeva, con voce aspra e acuta gridò: «Oh Dio! Oh Dio!» e cadde sul divano aprendo le braccia”. Ed è qui che Kafka mostra la trasformazione della sorella: “«Oh Gregorio», gridò la sorella, levando il pugno con uno sguardo che passava da parte a parte”.

Sofferenza e rabbia e una reazione timida all’offesa della sua camera, privata “di tutto ciò che gli era caro” finiscono con chiudere accidentalmente per qualche minuto Gregor nella sala da pranzo. Qui lo coglie il padre al suo rientro, mentre la sorella soccorre la madre colpita da un malessere per la fatica e l’emozione.

Qui, in una scena ricca – direte: ma come è possibile? – anche di umorismo, la svolta drammatica del racconto: assistiamo a un inseguimento goffo e svogliato del padre che vorrebbe raggiungere Gregor per punirlo. 

Il padre – che a Gregor appare però forte e risoluto mentre qualche settimana prima arrancava durante le passeggiate, appoggiandosi a Gregor e alla moglie –  rincorre senza successo l’insetto, che si stupisce “delle gigantesche dimensioni delle sue suole”, fino a quando prende a “bombardarlo” con le mele trovate sulla fruttiera. Una di queste “gli penetrò addirittura nella schiena”. Gli provoca un “improvviso incredibile dolore” e “completa confusione di sentimenti”. Ora, a chiusura della seconda parte del racconto – in una transizione tragico-grottesca della vita nell’appartamento – Gregor vede, “con un’ultima occhiata” la madre “tutta discinta poiché Grete le aveva sciolte le vesti durante lo svenimento per facilitarle il respiro”, correre verso “il padre mentre le gonne slacciate scivolavano al suolo ad una ad una, raggiungerlo, inciampando nelle vesti, e abbracciata stretta a lui – mentre la vista di Gregorio si offuscava – le mani intrecciate sullo nuca del padre, chiedergli pietà per la vita di Gregorio”.

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Ora Gregor vive con la mela conficcata nella carne e la ferita lo “fece soffrire per un mese e più” ma sembrò ricordare al padre che, in fondo, “malgrado il suo aspetto triste e repugnante, era tuttavia un membro della famiglia, che non si doveva trattare come un nemico ma di fronte a cui la legge del dovere familiare imponeva di inghiottire il ribrezzo e sopportare, sempre sopportare”. 

La porta della camera da pranzo che dava sullo sua stanza veniva anche socchiusa poco prima della cena in modo che Gregor potesse vedere, senza essere scorto, tutta la famiglia riunita intorno alla tavola sotto la lampada e poteva ascoltare la conversazione.

Al sostentamento della famiglia provvedevano il padre, con un nuovo lavoro da fattorino  – aveva un’uniforme che indossava sempre, anche in casa – e Grete, che aveva ottenuto un impiego come commessa di negozio. Alla madre, licenziata la domestica, toccava il lavoro domestico. Per far quadrare il bilancio bisognava risparmiare, e si sarebbe voluto traslocare in un appartamento più piccolo e meno costoso. Ma come fare a trasportare Gregor?

Egli tuttavia sapeva che questo ostacolo si sarebbe potuto aggirare – bastava una cassa di legno con dei buchi per farlo respirare – ma che l’ostacolo “principale era invece il profondo scoraggiamento e il pensiero di esser stati colpiti da una disgrazia che non aveva la pari in tutto il loro cerchio di parenti e di amici.”

Alla difficoltà di bilancio si rimedia tenendo a pensione tre uomini – seri e barbuti – ai quali, naturalmente, Gregor non dovrebbe mai mostrarsi. 

Eppure, una sera, per ascoltare meglio la sorella che suona il violino, Gregor si avventura fuori dalla camera. È ricoperto di polvere, fili, capelli, avanzi di cibo, “divenuto troppo indifferente a tutto per voltarsi sulla schiena e ripulirsi strofinandosi sul tappeto, come faceva prima parecchie volte al giorno”.  La musica del violino della sorella era così bella: “strisciò ancora un poco in avanti e tenne la testa contro il suolo, in modo da poter incontrare i suoi sguardi. Come poteva non essere che una bestia, se la musica lo afferrava così?”. I pensionanti dunque vedono per la prima volta Gregor, sembrano più divertiti che stupiti o irritati per aver avuto, a loro insaputa, un vicino così. 

Il racconto di Kafka scivola verso la conclusione, che in omaggio a chi non ha mai letto La Metamorfosi, non riveliamo. Viene facile però riprendere le parole di Citati che abbiamo menzionato poco fa: Kafka nella sua camera quel novembre del 1912 “venne assalito dalla sua angoscia ricorrente – l’angoscia di essere cacciato dal mondo come un animale parassitario che gli uomini possono schiacciare o prendere a calci”. Ecco ci siamo cascati, abbiamo ceduto alla tentazione di dare un senso alle storie di Kafka con parole che non sono le parole che lo scrittore usa dentro la sua storia. Ma forse lo facciamo perché è il solo modo che abbiamo per liberarci, almeno per qualche giorno, dalla meravigliosa ambiguità che ci tiene prigionieri della Metamorfosi.


[Nell’immagine in apertura, oltre a foto di Kafka, un lavoro di Kim Prisu “Metamorphose (Franz Kafka)” del 2016 (Fair Use, WIkiart)]


Pezzo ripeso da  https://gruppodilettura.com/2023/10/02/franz-kafka-la-metamorfosi-punti-di-osservazione-ingenui/.

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