La guerra e le sue logiche arcaiche
Riconoscere che all’origine della guerra, un fenomeno la cui comparsa nella storia è duratura e sistematica, c’è quella mai combattuta che un sesso ha fatto all’altro, significa anche fare i conti con le molteplici e non sempre visibili implicazioni che vi si accompagnano. Prima fra tutte è l’ambiguità del rapporto di amore odio con cui si costruisce la figura di un nemico, che forse ci era parente, e che ci somiglia in quei tratti dell’umano che non vorremmo vedere e dover ritrovare in noi stessi. La rapidità e facilità con cui i conflitti sociali si trasformano in uno scontro armato che riporta i corpi e le passioni più elementari al centro dello spazio pubblico, dice quanto poco sia ancora conosciuto il rapporto di potere e la gerarchia di valori che si sono imposti nella storia con il trionfo del “principio paterno” – “immortale, spirituale” – e di quello “materno”, rimasto legato alla radice biologica, animale del nostro essere. L’asimmetria che sempre contraddistingue le guerre può assumere forme diverse, ma evoca in ogni caso logiche prevedibili: tra aggressori e vittime, civiltà e barbarie, natura superiore e inferiore, democrazia e dittatura, moralità e perversione, Dio e Satana. Seppellendo nell’insignificanza storica il corpo femminile, è come se il patriarcato avesse cancellato nel medesimo tempo la complessità delle condizioni che sottostanno all’esplosione della violenza e dovesse costruire ogni volta la narrazione più rassicurante per non farle emergere.
Il fatto che di fronte a uno scenario bellico le donne scompaiano, e con loro tutte le tematiche che fino a quel momento sembrava potessero portarle al centro del dibattito politico – femminicidi, stupri, violenza domestica, molestie nei luoghi di lavoro, ma anche interrogativi sul rapporto tra corpo, sessualità e politica – non dovrebbe destare meraviglia. Quando il conflitto armato non le respinge nel ruolo di cura e protezione della famiglia, considerato “naturale”, ma indebolito da scelte e comportamenti femminili più liberi, sappiamo che purtroppo vanno ad accrescere il numero delle vittime della popolazione civile. Al fondo delle “pulizie etniche” c’è sempre una “pulizia di genere” che sgombra il campo dalla possibilità di soluzioni diverse dallo scontro frontale di una virilità guerriera. Manifestare per dire che la guerra deve essere messa “fuori dalla Storia “, contrapporre il “silenzio” al fragore sinistro dei bombardamenti, appellarsi al bisogno di “Pace” che tutti dicono di volere, non dovrebbe far distogliere lo sguardo dalle ragioni da cui prende ogni volta origine, soprattutto da quelle più remote, meno visibili e perciò stesso più facili da nascondere da parte di chi si trincera dietro la logica “amico/nemico”, “democrazia/dittatura”, “civiltà/barbarie”.
A volte l’occultamento dell’ingiustizia e della violenza che sta a monte di un conflitto è talmente cinico e spudorato, che per farlo emergere si è costretti a far passare in secondo piano ragioni più immediatamente riconducibili al contesto storico e politico in cui avviene. È quello che è accaduto quando, di fronte all’attacco feroce e imprevisto di Hamas ad Israele, la stampa occidentale ha toccato aspetti diversi della situazione del Medio Oriente – gli accordi recenti di Israele con l’Arabia Saudita, di Hamas con l’Iran – senza nominare l’occupazione di Gaza, l’apartheid e le infinite restrizioni, devastazioni e stragi inflitte da anni al popolo palestinese.
Al di là di tutte le analisi più estese e approfondite sulla situazione del Medio Oriente, di un conflitto che sembra rinnovarsi senza via d’uscita, ci sono domande che hanno già la loro risposta, ma che forse è bene continuare a porle contro il rischio di una progressiva assuefazione agli orrori delle guerre. Perché la “vendetta” di Israele, come l’ha chiamata Netanyau, o la “rappresaglia”, fatta di bombardamenti che non risparmiano neppure gli ospedali e di una avanzata per terra di carri armati, che lasciano presagire una devastazione ancora più brutale di quello che resta della Striscia di Gaza e dei suoi abitanti, viene chiamata “guerra”, usando un appellativo che sembra nobilitarla, spogliarla dei suoi orrori, e l’assalto di Hamas, fatto di lancio di razzi, uccisioni che fanno orrore e rapimenti, viene collocato invece nella categoria di “terrorismo”? Le parole non sono “neutre”, in quanto legate alla cultura e al dominio patriarcale, ma non sono neppure esenti da interessi e logiche di potere. Hanno, prima di tutto, il potere di fomentare pregiudizi, e campagne di odio, ed è per questo che riescono a occultare la violenza selvaggia che le accomuna, così come la loro asimmetria. Infine: come si fa chiamare “democrazia” un governo che parla di “ripulire” il proprio territorio da presenze razzializzate, che ha colonizzato un altro popolo, alzato muri e barriere per controllarne i movimenti? È questa “impunità” che, al di là delle ragioni contingenti, resta il fondamento innominabile di una guerre senza fine. Il salto che è avvenuto nella coscienza storica con la comparsa di quel soggetto “imprevisto” che sono le donne ci costringe oggi a interrogare non solo le condizioni contingenti da cui nasce ogni volta una guerra, ma le radice profonde, arcaiche, su cui poggiano le logiche perverse che ancora le sorreggono.
Pubblicato su il manifesto del 13 ottobre e qui con il consenso dell’autrice. Nell’archivio di Comune tutti gli articoli di Lea Melandri sono leggibili qui
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