"Il mare era nero, invernale, e in piedi sull’alto
ponte, quell’altipiano, mi riconobbi di nuovo ragazzo prendere il vento,
divorare il mare verso l’una o l’altra delle due coste con quelle macerie, nel
mattino piovoso, città, paesi, ammucchiati ai piedi. Faceva freddo e mi
riconobbi ragazzo, avere freddo eppur restare ostinato sull’alta piattaforma,
nel vento, a picco sulla corsa e sul mare.
Del resto non si poteva girare, il battello era pieno
di piccoli siciliani da terza classe, affamati e soavi nell’aver freddo, senza
cappotto, le mani nelle tasche dei pantaloni, il bavero della giacca rialzato.
Avevo comprato a Villa san Giovanni qualcosa da mangiare, pane e formaggio, e
mangiavo sul ponte, pane, aria cruda, formaggio, con gusto e appetito perché
riconoscevo antichi sapori delle mie montagne, e persino odori, mandrie di
capre, fumo di assenzio, in quel formaggio. I piccoli siciliani, curvi con le
spalle nel vento e le mani in tasca, mi guardavano mangiare, erano scuri in
faccia, ma soavi, con barba da quattro giorni, operai, braccianti dei giardini
di aranci, ferrovieri con i cappelli grigi a filetto rosso della squadra
lavori. E io, mangiando, sorridevo loro e loro mi guardavano senza sorridere.
– Non c’è formaggio come il nostro, – io dissi. Nessuno
mi rispose, tutti mi guardavano, le donne dalla femminilità voluminosa sedute
su grandi sacchi di roba, gli uomini in piedi, piccoli e come bruciacchiati dal
vento, le mani in tasca. E io di nuovo dissi: – Non c’è formaggio come il
nostro.
Perché ero d’un tratto entusiasta di qualcosa, quel
formaggio, sentirmene in bocca, tra il pane e l’aria forte, il sapore bianco
eppur aspro, e antico, coi grani di pepe come improvvisi grani di fuoco nel
boccone.
– Non c’è formaggio come il nostro, – dissi per la terza
volta.
Allora uno di quei siciliani, il più piccolo e soave,
e insieme il più scuro in faccia e il più bruciato dal vento, mi chiese: – Ma
siete siciliano, voi?
– Perché no? – io risposi.
L’uomo si strinse nelle spalle e non disse altro,
aveva una specie di bambina, seduta su un sacco, ai piedi, e si chinò su di
lei, e uscì di tasca una grande mano rossa e la toccò come carezzandola e
insieme aggiustandole lo scialle perché non avesse freddo.
Da qualcosa di quel gesto io vidi che la bambina non
era sua figlia ma sua moglie e intanto Messina si avvicinava, non era più
un’ammucchiata macerie sull’orlo del mare, ma case e moli e tranvai bianchi e
file di vagoni nerastri su larghi spiazzi di ferrovia. Il mattino era di
pioggia ma non pioveva, tutto era bagnato sull’alto ponte e il vento soffiava
bagnato e i fischi dei battelli risuonavano bagnati, e come fischi d’acqua
giungevano da terra quelli delle locomotive, ma non pioveva, e dall’altra parte
delle ciminiere d’un tratto si vide in mezzo all’inverno marino la torre del
faro in viaggio, altissima, in navigazione per Villa San Giovanni.
– Non c’è formaggio come il nostro, – dissi io.
Tutti i siciliani in piedi s’erano voltati verso le
ringhiere del ponte a guardare le città, e anche le donne sedute sui sacchi
avevano voltato la testa a guardare. Ma nessuno si muoveva verso il sottoponte
a prepararsi per lo sbarco; c’era ancora tempo! Ricordavo bene che c’erano, dal
faro all’approdo, quindici minuti e più.
– Non c’è formaggio come il nostro, – dissi.
E intanto finivo di mangiare, e l’uomo con la moglie
bambina si chinò un’altra volta e anzi si inginocchiò, aveva un paniere ai
piedi, e, osservato da lei, cominciò a far qualcosa attorno al paniere. Era
coperto, questo, da un pezzo di tela incerata cucita all’orlo con lo spago, e
piano piano egli sfilò un po’ di spago, cacciò la mano sotto la tela, mise
fuori un’arancia.
Non era grande, né molto bella, non forte di colore,
ma era un’arancia, e silenziosamente, senza levarsi di ginocchio, egli l’offrì
alla moglie bambina.
La bambina guardò me, io vidi i suoi occhi dentro il
cappuccio dello scialle e poi la vidi scuotere il capo.
Il piccolo siciliano parve disperato, e rimase in
ginocchio, una mano in tasca, l’arancia nell’altra. Si rialzò in piedi e così
continuò a stare, col vento che gli sbatteva la visiera molle del berretto
contro il naso, l’arancia in mano, bruciato dal freddo nella piccola persona
senza cappotto, e disperato, mentre a picco sotto di noi passavano, nel mattino
di pioggia, il mare e la
città.
– Messina, – disse con lamento una donna; e fu una
parola detta senza ragione; solo una specie di lagnanza; e io osservai il
piccolo siciliano dalla moglie bambina pelare disperatamente l’arancia, e
disperatamente mangiarla, con rabbia e frenesia, senza affatto voglia, e senza
masticare, ingoiando e come maledicendo, le dita bagnate di sugo d’arancia nel
freddo, un po’ curvo nel vento, la visiera del berretto molle contro il naso.
– Un siciliano non mangia mai la mattina, – egli disse
d’un tratto. Soggiunse: – Siete americano, voi?
Parlava con disperazione eppure con soavità, come
sempre era stato soave anche nel disperato pelare l’arancia e nel disperato
mangiarla. Le ultime tre parole le disse eccitato, in tono di stridula tensione
come se gli fosse in qualche modo necessario, per la pace dell’anima, sapermi
americano.
– Sì, – dissi io, vedendo questo. – Americano sono. Da
quindici anni.
Pioveva, sul molo della Stazione Marittima dove il
piccolo treno che avrei preso aspettava; e della folla di siciliani scesa dal
battello-traghetto parte se ne andarono, il bavero della giacca rialzato, le
mani in tasca, attraverso il piazzale nella pioggia; parte restarono, con donne
e sacchi e panieri, come dianzi a bordo, immobili, in piedi, sotto la tettoia.
Il treno aspettava di essere allungato coi vagoni che
avevano passato il mare sul battello; e questo era una lunga manovra; e io mi
ritrovai vicino al piccolo siciliano dalla moglie bambina che di nuovo sedeva
sul sacco ai suoi piedi.
Stavolta egli mi sorrise vedendomi, eppur era
disperato, con le mani in tasca, al freddo, al vento, ma sorrise, con la bocca,
di sotto alla visiera di panno che gli copriva metà della faccia.
– Ho dei cugini in America, – disse. – Uno zio e dei
cugini…
– Ah, così, – dissi io. – E in che posto? A New York o
in Argentina?
– Non lo so, – rispose lui. – Forse a New York. Forse
in Argentina. In America.
Così disse e soggiunse: – Di che posto siete voi?
– Io? – dissi io. – Nacqui a Siracusa…
E lui disse: – No… Di che posto siete dell’America?
– Di… Di New York, – dissi io.
Un momento fummo zitti, io su questa menzogna,
guardandolo, e lui guardando me, dai suoi occhi nascosti sotto la visiera del
berretto.
Poi, quasi teneramente, egli chiese:
– Come va a New York? Va bene?
– Non ci si arricchisce, – risposi io.
– Che importa questo? – disse lui. – Si può star bene
senza arricchire… Anzi è meglio…
– Chissà! – dissi io. – C’è anche lì disoccupazione.
– E che importa la disoccupazione? – disse lui. – Non
è sempre la disoccupazione che fa il danno… Non è questo… Non sono disoccupato,
io.
Indicò gli altri piccoli siciliani intorno.
– Nessuno di noi lo è. Lavoriamo… Nei giardini…
Lavoriamo.
E si fermò, mutò voce, soggiunse: – Siete tornato per
la disoccupazione, voi?
– No, – io dissi. – Sono tornato per qualche giorno.
– Ecco, – disse lui. – E mangiate la mattina… Un
siciliano non mangia mai la mattina.
E chiese: – Mangiano tutti in America la mattina?
Avrei potuto dire di no, e che anche io, di solito,
non mangiavo la mattina, e che conoscevo tanta gente che non mangiava forse più
di una volta al giorno, e che in tutto il mondo era lo stesso, eccetera, ma non
potevo parlargli male di un’America dove non ero stato, e che, dopotutto, non
era nemmeno l’America, nulla di attuale, di effettivo, ma una sua idea di regno
dei cieli sulla terra. Non potevo; non sarebbe stato giusto.
– Credo di sì, – risposi. – In un modo o in un altro…
– E il mezzogiorno? – egli chiese allora. – Mangiano
tutti il mezzogiorno, in America?
– Credo di sì, – dissi io. – In un modo o in un altro…
– E la sera? – egli chiese. – Mangiano tutti, la sera,
in America?
– Credo di sì, – dissi io. – Bene o male…
– Pane? – disse lui. – Pane e formaggio? Pane e
verdure? Pane e carne?
Era con speranza che lui mi parlava e io non potevo
più dirgli di no.
– Sì, – dissi. – Pane e altro.
E lui, piccolo siciliano, restò muto un pezzo nella
speranza, poi guardò ai suoi piedi la moglie bambina che sedeva immobile,
scura, tutta chiusa, sul sacco, e diventò disperato, e disperatamente, come
dianzi a bordo, si chinò e sfilò un po’ di spago dal paniere, tirò fuori
un’arancia, e disperatamente l’offrì, ancora chino sulle gambe piegate, alla
moglie e, dopo il rifiuto senza parole di lei, disperatamente fu avvilito con
l’arancia in mano, e cominciò a pelarla per sé, a mangiarla lui, ingoiando come
se ingoiasse maledizioni.
– Si mangiano a insalata, – io dissi, – qui da noi.
– In America? – chiese il siciliano.
– No, – io dissi, – qui da noi.
– Qui da noi? – il siciliano chiese. – A insalata con
l’olio?
– Sì, con l’olio, – dissi io. – E uno spicchio
d’aglio, e il sale…
– E col pane? – disse il siciliano.
– Sicuro, – io risposi. – Col pane. Ne mangiavo sempre
quindici anni fa, ragazzo…
– Ah, ne mangiavate? – disse il siciliano. – Stavate
bene anche allora, voi?
– Così, così, – io risposi.
E soggiunsi: – Mai mangiato arance a insalata, voi?
– Sì, qualche volta, – disse il siciliano. – Ma non
sempre c’è l’olio.
– Già, – io dissi. – Non sempre è buona annata… L’olio
può costar caro.
– E non sempre c’è il pane, – disse il siciliano. – Se
uno non vende le arance non c’è il pane. E bisogna mangiare le arance… Così,
vedete?
E disperatamente mangiava la sua arancia, bagnate le
dita, nel freddo, di succo d’arancia, guardando ai suoi piedi la moglie bambina
che non voleva arance.
– Ma nutriscono molto, – dissi io. – Potete vendermene
qualcuna?
Il piccolo siciliano finì d’inghiottire, si pulì le
mani nella giacca.
– Davvero? – esclamò. E si chinò sul suo paniere, vi
scavò dentro, sotto la tela, mi porse quattro, cinque, sei arance.
– Ma perché? – io chiesi. – E’ così difficile vendere
le arance?
– Non si vendono, – egli disse. – Nessuno ne vuole.
Il treno intanto era pronto, allungato dei vagoni che
avevano passato il mare.
– All’estero non ne vogliono, – continuò il piccolo
siciliano. – Come se avessero il tossico. Le nostre arance. E il padrone ci
paga così. Ci dà le arance… E noi non sappiamo che fare. Nessuno ne vuole.
Veniamo a Messina, a piedi, e nessuno ne vuole… Andiamo a vedere se ne vogliono
a Reggio, a Villa San Giovanni, e non ne vogliono… Nessuno ne vuole.
Squillò la trombetta del capotreno, la locomotiva
fischiò.
– Nessuno ne vuole… Andiamo avanti, indietro, paghiamo
il viaggio per noi e per loro, non mangiamo pane, nessuno ne vuole… Nessuno ne
vuole.
Il treno si mosse, saltai a uno sportello.
– Addio, addio!
– Nessuno ne vuole… Nessuno ne vuole… Come se avessero il tossico… Maledette arance.
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia
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