La Repubblica oggi anticipa il contenuto di un magro carteggio tra l’autore de “La tregua” e lo scrittore siciliano
Levi
e Sciascia carissimi sconosciuti
Marco Belpoliti
Pur pubblicando da vari anni dal
medesimo editore, entrambi a partire dal 1958, Primo Levi con Se questo è un
uomo e Leonardo Sciascia con Gli zii di Sicilia , i due scrittori
non si sono mai incontrati. Si leggevano e si stimavano. Però si sono scritti.
Due sole lettere in andata e ritorno, entrambe per iniziativa di Levi. La prima
nel 1968 e la seconda nel 1984. Due epoche diverse della storia personale e anche
della storia italiana, e più in generale del mondo. Ora queste lettere, quattro
in tutto, vedono la luce in un numero di Todomodo , la rivista di studi
sciasciani che pubblica da tredici anni la “Associazione degli Amici di
Leonardo Sciascia”. Sono incluse in un bel saggio di Domenico Scarpa, indefesso
ricercatore, intitolato Su due frontiere , che le presenta, commenta e
le inserisce in un contesto più ampio. Era stato il narratore ebreo a prendere
l’iniziativa di corrispondere con lo scrittore siciliano, entrambi autori “di
frontiera”, come sottolinea Levi. La prima del 26 febbraio 1968 si apre con un
avverbio: «Caro Sciascia, veramente è un pezzo che Le volevo scrivere, per
dirLe che i Suoi libri sono molto belli e importanti: della Civetta ho spedito
almeno 5 copie in diverse parti del mondo, e proprio adesso lo sto rileggendo
(con immutata ammirazione) dopo aver visto il film, per verifica. Verifica del
film beninteso». Cosa spinge il chimico torinese, autore a quel punto di tre
libri, di cui uno, Storie naturali (1966), pubblicato con lo pseudonimo di
Damiano Malabaila, a prendere questa iniziativa? È la guerra in Vietnam, che
gli Stati Uniti del presidente Johnson stanno combattendo contro i vietcong e
il Vietnam del Nord comunista. Levi ha scritto un appello diretto al leader
americano e lo sottopone a Sciascia per la firma. Il testo è pubblicato
all’interno del saggio di Scarpa. C’è da dire che in quel momento il Vietnam è
diventato un argomento quotidiano in Europa, come negli Stati Uniti, e sarà
proprio quella guerra a scatenare alcune delle rivolte studentesche nei mesi
seguenti, anche per l’arruolamento di giovani americani nelle forze armate che
combattono nelle giungle asiatiche. La risposta di Sciascia non è positiva dal
momento che segnala due aspetti di dissenso con la lettera redatta dall’ex
deportato di Auschwitz: «Caro Levi, firmerei senz’altro la Sua lettera se non
ci fossero due punti su cui non sono d’accordo». La lettera a Johnson è un
testo in stile primolevi: garbato, acuto, problematico e insieme deciso. Ci
sono molte delle sue convinzioni, la prima delle quali che la guerra è
«radicata nella natura umana», tema che trae dalle letture etologiche
sull’aggressività umana, da Konrad Lorenz, premio Nobel di lì a cinque anni, e
da Erich Fromm, psicoanalista, che s’era interrogato sulle pulsioni distruttive
degli umani sulla scia di Freud. C’è anche l’idea della guerra come legittima
difesa dall’attacco di altri. Quello che gli preme è che ora l’Americasembra
perdere «il buon nome che si era guadagnato nella “crociata in Europa” contro
il fascismo». Si parla positivamente di «volontà buona», ma già all’epoca gli
Usa cominciano a essere paragonati, per quanto accade nei villaggi vietnamiti,
all’esercito tedesco in Europa. “Yankee Go Home” era scritto sui muri italiani
dal 1967. Del resto, lo stesso Levi paragona il soldato americano in Vietnam
all’occupante nazista. Si sente dal testo che Levi soffre per questo; per
quanto sia stato liberato ad Auschwitz dai sovietici, per lui il riferimento
agli Stati Uniti è importante. Sciascia gli manifesta la sua ripugnanza a
rivolgersi a Johnson e gli propone di indirizzarla «ai rappresentanti del
popolo degli Stati Uniti». L’altra obiezione riguarda «l’affermazione che la
guerra è radicata nella natura umana». Sciascia gli chiede di fare questi due
cambiamenti e di pubblicare l’appello sulle pagine del New York Times a
pagamento, come hanno fatto «certi gruppi dissidenti in America».
L’atteggiamento dello scrittore siciliano è decisamente critico verso
l’America. Con una frase dura e a effetto dice: rivolgersi a Johnson, per far
finire i bombardamenti americani, è come «se per far finire la mafia in Sicilia
mi rivolgessi a Genco Russo», il capo mafioso legato alla Democrazia cristiana.
Che la guerra in Vietnam abbia costituito la vera perdita dell’innocenza è
evidente per la generazione cui appartiene Levi. Più della guerra in Corea, è
questo avvenimento contestato dalla gioventù mondiale che costituisce un punto
di svolta. Ne tornerà a parlare Levi più volte negli anni successivi insieme
alla guerra in Algeria, alla repressione del dissenso in Urss, al Cile di
Pinochet e all’Argentina dei generali, per arrivare al Sud Africa e all’auto-
genocidio della Cambogia di Pol Pot. L’appello non uscirà. Scarpa riproduce
anche una lettera di Natalia Ginzburg cui Levi aveva mandato il testo. La
scrittrice risponde all’autore di Se questo è un uomo in modo diretto e
con durezza, come sua abitudine. La seconda lettera del 5 dicembre 1984 di Levi
a Sciascia riguarda la lettura di Occhio di capra(1984), libro dedicato
a detti e proverbi siciliani, da cui ricava una domanda riguardante una parola
che si pronunciava nel gioco da lui praticato da bambino, “nascondino”. Si
ricorda di un grido, una misteriosa parola, “marsa”, che corrispondeva a “alimorta!”.
“Marsa” in arabo è il porto, l’asilo, scrive; forse viene da Marsala. È quella
l’origine? chiede a Sciascia. Come si diceva in Sicilia negli anni Venti? La
risposta del 21 dicembre è interlocutoria: forse non è “marsa” ma “massa”; lui
non sa e chiederà ai suoi coetanei di Racalmuto. La missiva contiene un
passaggio amaro e pessimistico: «Per la vita che mi resta da vivere». Sciascia
morirà cinque anni dopo aver lottato contro la malattia che l’affliggeva. Levi
tornerà su questo tema dei giochi infantili più volte nella sua vita. In un
testo, prima apparso su un quotidiano, poi in un libro, recensisce un volume di
due coniugi inglesi sui giochi di strada e pone ai suoi lettori lo stesso
interrogativo rivolto a Sciascia: come si chiama “tregua”? Si dice “marsa!” o
in altro modo? Cosa si urlava in Sicilia? Come ha spiegato Stefano Bartezzaghi
in uno dei capitoli di Scrittori giocatori, Levi possiede un profondo spirito
ludico, ama i giochi, a partire da quelli linguistici, e la dimensione comica è
ben presente nei suoi libri, cosa invece assente dalle pagine del barocco
Sciascia, più volto al tragico, alla visione dolorosa dell’esistenza che è
propria degli scrittori siciliani. Occhio di capra inizia con un modo di
dire: «Abbrusciatu vivo come a Caleddru», «bruciato vivo come Caleddru » sia in
senso effettivo che figurato: la maledicenza, la diffamazione. Non è tutto
così, ma questo aspetto dolente è molto forte. Due caratteri diversi e antitetici.
A chi verrebbe in mente di scrivere a un altro scrittore per domandargli il
significato d’un antico gioco d’infanzia? In Primo Levi vive un carattere
infantile, nel senso positivo della parola: semplice, ingenuo, innocente. La
sua infanzia, di cui ha parlato molto, è piena di tonalità allegre e curiose,
le stesse che si leggono tra le righe di tutti i suoi libri, anche quelli più
scuri e drammatici.
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