Questo articolo, dedicato al libro di Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima (a cura di Diego Bertelli, Le Lettere, Firenze, 2022), è apparso sul numero n° 7/8 (luglio-agosto, 2023) de “L’Indice”. Noi lo riprendiamo da https://www.nazioneindiana.com/2023/10/03/su-losso-e-lanima-di-bartolo-cattafi/
Su "L'OSSO, L'ANIMA" di BARTOLO CATTAFI
Andrea Inglese
La diade lessicale del titolo c’introduce non tanto alla contraddittoria coesistenza tra mente e corpo, tra anima e carne, che tanto ha marcato la civiltà occidentale da un punto di vista filosofico e religioso, ma all’enigma della loro vicinanza, che potrebbe rivelare una forma di reversibilità: non l’osso e l’anima, ma l’osso è l’anima – “(…) è casomai in sequenza analogica e appositiva, scrive Bertelli, che dobbiamo interpretare i due termini”. Possiamo intenderlo in questo modo, allora, il titolo di Cattafi: lo spazio del di dentro è altrettanto opaco che lo spazio del di fuori; non solo la coscienza non fornisce all’essere umano nessun privilegio morale nei confronti della turpitudine cosmica, ma neppure le sue facoltà conoscitive le permettono un vero controllo sul destino. Accenti leopardiani attraversano la poesia di Cattafi, ma con una disinvoltura e un’ironia tutta novecentesca. D’altra parte, L’osso, l’anima, sembra eleggere come proprio osservatorio privilegiato la soglia tra soggetto e mondo, lo schermo della coscienza nel bilico che separa l’io dall’azione, il principio dalla sua messa in opera, l’enunciato dalla cosa a cui si riferisce.
Un’altra caratteristica della voce di Cattafi è la perentorietà degli attacchi e la versificazione martellante che li sviluppa. Evochiamone qualcuno: “Quanto secchi e squadrati / i nostri metri di mondo. / (…)”; “Lascia stare le fredde geometrie, / i faticosi conti della serva. / (…)”; “Giunse quindi il momento di buttarci / a capofitto, / ariete sprizzaschegge / che squassa scardina divelle. / (…)”; “Ti spiattello in faccia / come vanno le cose: / vanno male. / (…)”; “La tua grande bravura / infilare nel quadro colori / tesi, drammatici, scattanti. / (…)”. La brevità e la causticità dell’epigramma sono messe qui al servizio di un’intenzione allegorica, che inscena brevi parabole, micro-narrazioni, dialoghi interiori, che quasi mai fungono da espressione lirica diretta di un’esperienza. Un riferimento italiano pertinente, per questo e altri libri di Cattafi, è allora il Caproni allegorico del Franco cacciatore, ma già punti di contatto possono stabilirsi con il quasi coevo Il muro della terra, che è uscito nel 1975, ma include componimenti degli anni Sessanta. La differenza con Caproni è riscontrabile soprattutto nella più ampia mobilità figurativa di Cattafi, che pur funzionando anch’egli per “variazioni su tema”, rifiuta di confinare i suoi componimento entro una cornice allegorica unitaria e ben definita (la caccia, in Caproni).
Come già ricordato, la scena ricorrente in Cattafi è quella di un programma razionale, di conoscenza o azione, che s’infrange puntualmente contro il mondo (o il proprio sé inconsapevole e animale); in questo la sua tragicità e l’”antiumanesimo integrale” di cui ha scritto Baldacci. La parola poetica è una constatazione d’impotenza nei confronti degli eventi che circondano l’uomo, nonostante la sua presunzione di conoscere e controllare la realtà. E non vi sono zone di conciliazione (religiosa) o di riparazione (etico-politica) possibili. Nemmeno margini di montaliana saggezza. Ma vi è l’esistenziale energia, l’eros insopprimibile, che Albert Camus aveva visto nello sforzo vano di Sisifo, e che Cattafi celebra in questi fronteggiamenti con il mondo nella sua ambigua carnalità: ora calda e afferrabile, ora sfuggente e illusoria.
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