La
Sicilia e la cultura araba
Vincenzo Consolo
Si sa che, con la fine del
latino, nel medioevo italiano, si è imposto in letteratura, sulle altre realtà
linguistiche e regionali, il dialetto toscano. Questo è avvenuto grazie ai tre
grandi padri della letteratura italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma si sa
anche che il primo nucleo della nuova lingua italia-na, o volgare, come si
chiamò, si formò in Sicilia, che i primi poeti in lingua italiana furono
siciliani, quei poeti della cosiddetta Scuola Poetica Siciliana che si
trovarono raccolti nella palermitana corte dell’imperatore Federico II o che
attorno ad essa ruotavano. E questo afferma Dante nel De vulgari eloquentia. In
lingua siciliana poetavano in quella corte, in una lingua cioè che era
mistilinguismo, in cui vi erano echi anche della lingua araba. Ma arabo era
soprattutto lo stile di quei poeti: uno stile lirico, un po’ manieristico,
nella costruzione di complicate metafore. Le rime, i sonetti, i contrasti di
Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Re Enzo, Pier delle
igne, di altri, non molto si discostano dalle qaside dei poeti siculo-a-rabi
che con l’avvento dei Normanni avevano lasciato l’isola. E basta ricordare tra
tutti il siracusano Ibn Amdis. Dal suo esilio maghrebino cosi cantava:
Ricordo
la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo. Un luogo di giovanili
follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni. Se son stato
cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza
delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso… O mare, di là da te io ho
un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura!…
La cultura araba ha lasciato nell’isola
un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la
storia siciliana. “Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano
a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba” dice Sciascia. Il quale,
mutando da Américo Castro lo schema che il grande storico aveva applicato alla
Spagna, chiama descrivibile la vita siciliana prima degli Arabi, narrabile
quella sotto la dominazione araba, storicizzabi-le quella che viene dopo.
Sciascia fa quindi iniziare quello che egli chiama il modo d’essere siciliano
proprio dalla dominazione araba. La cultura araba ha inciso nell’isola
soprattutto in quella parte occiden-tale che ha per vertici Mazara e Palermo. I
segni arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere
della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell’architettura, nella lingua,
nella letteratura, popolare e no. Durati per un millennio fino a ieri. “Ciò che
non fecero i barbari fecero i Barberini”. E i Barberini questa volta, anche
qui, in questa remota plaga dell’Italia e dell’Europa, sono i messaggi della
civiltà di massa che tendono a distruggere le vere, autentiche culture, per
tutto livellare, miseramente omologare. Ma torniamo all’inizio della conquista
musulmana di Sicilia. In una notte di giugno dell’827, una piccola fotta di
musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egi-ziani, Siriani, Libici, Maghrebini,
Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furt, partita
dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti,
attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un
piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti
incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai
Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia,
dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa,
dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia, dopo la
conquista, un emirato dipendente formalmente dal califfato di Baghdad. I
musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni del Romani, dopo
l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della
chiesa, dei monasteri, i musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure
ricca di risorse. Ma con i musulmani comincia per la Sicilia una sorta di
rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli: Val di
Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove
tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di
convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la
vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca,
specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara;
rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che
si opera durante la dominazione musulmana e lo spirito di tolleranza, la
convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza,
questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si
realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni
etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società
arabo-normanna, di cui ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr,
il geografo Idrisi, Ibn Hawqal, sono segni evidenti quelle chiese, quei
monasteri, quelle cappelle, quelle residenze reali, quei giardini che ancora
oggi si possono vedere a Palermo o in altre località vicine. Così scrive Ibn
Giubayr di Palermo: “In questa città i musulmani conservano traccie di lor
credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi
fanno la preghiera alla chiamata del muezzin… Vi hanno un qadì al quale si
appellano nelle loro divergenze, e una moschea congregazionale dove si radunano
per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminarie.
Le moschee ordinarie poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di
scuola ai maestri del Corano”. Non voglio, né so fare qui tutta la storia del
periodo musulmano di Sicilia. Voglio però qui rimandare a La Storia dei
Musulmani di Sicilia scritta da un grande siciliano del secolo scorso: Michele
Amari. Quest’apostolo della cultura e della libertà (egli combatté contro la
dominazione borbonica nell’Italia meridionale e per l’Unità d’Italia) scrisse
questa monumentale opera in cinque volumi durante il suo esilio politico in
Francia, a Parigi. Nelle biblioteche di quella città, dopo aver imparato
l’arabo, Amari reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba
che riguardava la Sicilia. “La storia dei Musulmani di Sicilia è una delle più
suggestive opere d’intenti storici che da un secolo circa siano state scritte
in Europa” scrive Elio Vittorini. E aggiunge: “La storia dei Musulmani di
Sicilia voleva essere, forse, solo un frammento della storia patria, ma sembra
che abbia avuto per punto di partenza, da come è scritta, una seduzione del
cuore, qualche favolosa idea che l’Amari fanciullo si formò del mondo arabo tra
le letture dei vecchi libri e i ricordi locali”. E come poteva non scrivere con
la “seduzione del cuore”, cioè con rigore scientifico, ma anche con
visionarietà e poesia, Michele Amari, nato e cresciuto a Palermo, in quella
Palermo che ancora nel secolo scorso conservava non pochi vestigi, non poche
tradizioni, non poca cultura araba? Basti pensare al castello della Zisa (restaurato,
sembra destinato ora a museo islamico), alla Favara, ai bagni di Cefalà Diana,
alla Cuba, alla Cubula, al quartiere della Kalsa, ai suq, ai mercati della
Vucciria, di Ballarò o dei Lattarini, a San Giovanni degli Eremiti, alla
Martorana, alla stessa cattedrale… Ultimi splendori della Palermo araba dalle
numerose moschee, dai giardini, dai bagni innumerevoli, con cui poteva stare a
confronto soltanto Cordova. Dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860, Amari,
nominato ministro della Pubblica Istruzione, non smise di coltivare i suoi
studi di arabo. Così, oltre La storia dei Musulmani di Sicilia, ci ha lasciato
una Biblioteca Arabo-Sicula, Epigrafi, Sulwan al-mutà di lbn Zafir, Tardi studi
di storia arabo-mediterranea. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si
sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti, poeti arabi classici. Per
lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti
o orientalisti che ebbe le sue eminenti figure in Ignazio e Michelangelo Guidi,
Giorgio Levi Della Vida, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Celestino
Schiaparelli, Umberto Rizzitano e il famoso Francesco Gabrieli. Il quale
ultimo, idealmente continuando l’opera di Michele Amari, pubblicava nel 1980,
in collaborazione con altri, un poderoso e documentatissimo volume dal titolo
Gli Arabi in Italia. E scriveva, nel 1983, nel volume collettivo Rasa’il, in
onore di Umberto Rizzitano, un capitolo dal titolo Attraverso il canale di
Sicilia (Italia e Tunisia). Capitolo in cui fa la storia dei rapporti fra i due
paesi, dall’antichità e fino a oggi. Ma più che della Tunisia con l’Italia,
della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e
culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli, che già sul finire della
dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in
tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda
tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese,
all’Imaàm al-Màzari. E ancora: “Nella scuola di lingue Bu Rqiba, i nostri
giovani studenti dell’arabo e dell’Islàm han trovato da molti anni il più
efficiente centro di iniziazione linguistica, in un diretto contatto con la
terra dell’Islàm ispirato da puro interesse scientifico e spirituale”. Per
merito di questi valorosi arabisti italiani si sono tradotti i classici arabi,
a partire da una splendida edizione, curata proprio da Gabrieli, de Le mille e
una notte. Ma della letteratura, del romanzo e della poesia maghrebina
contemporanea gli editori italiani solo da qualche anno han cominciato a
pubblicare qualcosa. Negli anni ’50 si svolse a Roma un convegno di scrittori
arabi in cui si esaminarono i mezzi per una migliore diffusione delle loro
opere in Italia. Questa non può avvenire che attraverso le traduzioni e quindi
di una maggiore diffusione della lingua araba. In questi anni ciò è avvenuto,
la lingua araba è sempre più studiata. Riallacciandoci allo scritto di
Francesco Gabrieli, ripartiamo da quel porticciolo siciliano che si chiama
Mazara in cui sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn alFuràt. Partire da lì per
dire, in uno con quelli letterari o oltre essi, anche di altri sbarchi, di
siciliani nel Maghreb e di maghrebini in Sicilia.
Vincenzo Consolo
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