MARCUSE NELL’ANTROPOCENE.
ALCUNE NOTE SU GUERRA, ECOLOGIA E RIVOLUZIONE
Luca Mandara
se non ci lavorate fin da ora, non avrà luogo fra
75 anni, non avrà luogo tra 100 anni, non avrà luogo affatto
(Marcuse, Lezioni parigine del 1974)
1. Padre dell’Eco-Marxismo
Sfatato da qualche anno il “mito” di un
capitalismo green capace di conciliare la crescita del PIL con
la sostenibilità ambientale, il movimento ecologico sembra orientarsi sui temi
della “giustizia climatica”, legando questione ambientale e questione sociale e
scontrandosi con quei governi che fino a pochi anni fa non disdegnavano di
cooptarne i leader alle famigerate Conferences of Parties sul
clima (COP)[i].
Mi sembra lecito ipotizzare che buona parte
dell’incredibile successo riscosso dall’eco-marxista Kohei Saito sia dovuto
anche allo sviluppo di una maggiore coscienza socialista nel mainstream ecologista,
così come, a sua volta, la maggiore coscienza ecologica sta contribuendo a
sdoganare la proposta di un Degrowth Communism, impensabile fino a
qualche anno fa.
Si è creata un’atmosfera positiva, insomma, anche
per ritornare su autori del passato che, precorrendo i tempi, nel bel mezzo del
consenso bipartisan verso il «modernismo tecnologico» osavano
criticarlo. È il caso di Herbert Marcuse, a cui viene attribuita una delle
prime «critiche ecologiche del capitalismo» per le sue radicali prese di
posizione contro il produttivismo di entrambi i blocchi e per il concetto di
natura come una «non-identità»[ii],
limite ultimo ai fini di appropriazione.
Marcuse ha infatti dedicato diversi interventi al
nascente movimento ambientale negli anni Settanta ed anche prima si era
occupato, sulla scia dei colleghi Horkheimer e Adorno, dell’assoggettamento
violento della natura al “principio di prestazione”. Si è però sottovalutato il
fatto che il suo interesse ecologico va ben oltre il tema dello sfruttamento
della natura esterna nell’accumulazione di profitti, ambito privilegiato
dall’eco-socialismo, e si volge anche verso le implicazioni che questo stesso
sistema ha su quel mondo di impulsi, bisogni, immagini, che freudianamente
costituiscono la “natura interna” degli uomini. Credo che in verità sia questo
il principale punto di caduta della teoria “ecologica” di Marcuse e ciò che
essa può aggiungere al dibattito contemporaneo.
In seguito, cercherò di mostrare quelli che
ritengo gli aspetti principali della sua ecologia politica: nel §2, mi occuperò
del concetto di “produzione distruttiva” che accomuna gli interventi e i
diversi piani su cui Marcuse gioca il suo discorso ecologico; nel §3, passerò
al suo giudizio sul valore politico del movimento ambientale e, nel §4, ad
alcune conclusioni circa l’attualità o inattualità del suo eco-socialismo.
2. Guerra alla e liberazione della natura
Diversi autori sono concordi nel collegare
l’accumulazione “illimitata” di capitale (originaria e non), la nascita di una
divisione internazionale gerarchizzata tra paesi iper-sviluppati e paesi
sottosviluppati, e crisi ambientale[iii].
Questa sorta di triangolazione tra produttivismo,
colonialismo/imperialismo/neo-imperialismo, distruzione ambientale mi pare
costituire anche la trama fondamentale dell’ecologia politica di Marcuse.
I suoi interventi tematici seguono lo scoppio
della guerra in Vietnam, un evento decisivo nella sua teoria, perché
contribuì a correggere l’ipotesi, da lui stesso avanzata in L’uomo
a una dimensione, che il capitalismo riuscisse a contenere in maniera
strutturale la contraddizione fondamentale tra tendenza ad aumentare la
produttività del lavoro per aumentare i profitti, da un lato, e caduta degli
stessi dovuta alla minore quantità di lavoro vivo, fonte unica del plusvalore,
dall’altro lato, volgendo l’incredibile produttività raggiunta in una
distruttività sprecona e “oscena”. Per convertire il tempo liberato dalla
meccanizzazione in nuovo tempo di lavoro alienato da sfruttare, spiega più
volte Marcuse, il sistema genera una penuria artificiale di beni e servizi:
manipolando coscienza e desiderio degli individui attraverso il management scientifico;
sprecando risorse e pianificando l’obsolescenza delle merci; espandendo
l’industria di morte grazie al sostegno del Warfare di Stato.
La distruttività diventa così produttiva e permette di stabilizzare la
contraddizione: garantisce “piena” occupazione, un tenore di vita elevato e un
immaginario condiviso tra capitale e lavoro, capitalismo e comunismo, legato
alla “magia” di una crescita illimitata assunta come “neutra” e quindi valida
“universalmente” per il progresso dell’Uomo, al di qua di ogni differenza
“politica”.
Il Vietnam provava, però, che la capacità del
capitalismo di integrare dentro il sistema anche le classi
lavoratrici, si fondava sulla creazione di un fuori su cui
scaricare la distruttività accumulata dal centro. Queste “alterità”, nel lavoro
su Ecologia e Rivoluzione del 1972, vengono individuate nel
popolo vietnamita e nella natura. Quella della «controrivoluzione globale»,
scrive Marcuse, è una fase in cui «il capitalismo monopolistico» muove «guerra
contro la natura – tanto esterna quanto umana»[iv].
Innanzitutto, Marcuse individua una
«contraddizione interna» tra quel modello di sviluppo e la natura esterna.
L’abbondanza di prodotti e di servizi con cui alimentare occupazione e consumi,
richiede una «domanda crescente di sfruttamento» che «riduce ed esaurisce
progressivamente le risorse: più aumenta la produttività capitalistica, più
diventa distruttiva». «La legge dell’accumulazione allargata di capitale», che
fonda sulla «necessità di perpetuare il lavoro alienato e lo sfruttamento»,
quindi, «entra in conflitto con la natura stessa» e genera una «contraddizione
assoluta tra ricchezza sociale e il suo uso distruttivo». Si badi, questo non è
un accidente: è piuttosto il fatto che «la logica ecologica è puramente e
semplicemente la negazione della logica capitalistica».
Nella misura in cui buona parte di queste risorse
è tratta da paesi di “periferia”, anche quella che apparentemente non sembra
una guerra imperialistica – non erano immediatamente coinvolti investimenti
diretti americani nel Vietnam – lo diventa per prevenire la diffusione di una
ribellione che potrebbe minacciare il motore nascosto di quell’immenso apparato
distruttivo, cioè l’estorsione di pluslavoro e di risorse all’estero. Ancor di
più quando lo sviluppo di questi paesi dipende solo da una riforma agraria che
intacca gli interessi delle classi locali dei latifondisti, che diventano gli unici
referenti possibili per gli USA. La «levigata, confortevole, ragionevole,
democratica non-libertà» della «civiltà industriale avanzata, segno di
progresso tecnico»[v] richiede
quindi colpi di Stato di stampo autoritario-fascista nel mondo.
L’unità di progresso distruttivo, distruzione
ambientale e distruzione umana si manifesta nell’uso del Napalm. L’«ecocidio»[vi] che «intacca le fonti e le risorse
della stessa vita» diventa una strategia di «guerra genocida», visto che
«bruciare e avvelenare la terra, deforestare, far saltare in aria le dighe»
permette di prevenire che non solo i «viventi di oggi, ma anche chi non è
ancora nato» si possano ribellare alla gerarchia globale usando in maniera
autonoma le proprie risorse naturali. Il dominio sulla natura diventa così lo
strumento madre per rinsaldare il dominio sull’uomo minacciato dalla
ribellione. Come «la Terra non può essere salvata all’interno del capitalismo»,
così, conclude Marcuse, «il Terzo Mondo non può svilupparsi secondo il modello
del capitalismo».
Questo è però solo un lato della questione,
quello attinente, se vogliamo, ai rapporti sociali esterni tra
gli esseri umani e tra questi e la natura non-umana. La teoria critica di
Marcuse, però, aveva già ampliato il suo raggio a quel mondo della “natura interna”
freudianamente descritto in termini di pulsioni fondamentali – Eros e Thanatos,
pulsione di vita e pulsione di distruzione –, di principio di piacere e
principio di realtà, di rapporti tra l’Io e l’Es e il Super-io. I due piani non
sono affatto scollegati: per Marcuse il «mondo della natura» è un «mondo
storico, sociale»[vii],
sia nel senso che l’umanità, mediante il lavoro sociale, trasforma la natura
esterna, sia nel senso che così facendo, trasforma la sua natura
interna, la soggettività degli individui, costituendo natura
interna ed esterna una totalità dialettica. Ed è proprio lo sviluppo del
capitalismo più avanzato a dimostrarlo.
Rispetto alle fasi iniziali della società di
mercato, in cui sopravviveva una natura «al di là del lavoro», nello stadio
monopolistico il capitalismo «riduce sempre più gli ultimi spazi naturali
rimasti al di fuori del lavoro e dello svago organizzato e manipolato». Non si
tratta solo di un processo economico, ammonisce Marcuse, ma anche di un
«processo politico». La natura al di là dell’alienazione è
anche «la fonte e il locus delle pulsioni di vita che lottano
contro le pulsioni dell’aggressività e della distruzione», cioè contro quelle
pulsioni che la società repressiva ha bisogno di liberare per adattare gli
individui fin alla loro «radice» al suo orizzonte competitivo, prestazionale,
sprecone, bellicoso. La «dimensione profonda della società» viene perciò
segnalata per Marcuse da «eventi simbolici» quali «l’incremento crescente nella
spesa militare» e la «proliferazione delle installazioni nucleari, il generale
avvelenamento e inquinamento del nostro ambiente vitale»[viii].
Una natura inquinata, sfruttata, assoggettata al
consumo, fa sì che nella natura esterna gli individui trovino soltanto «una
ripetizione della sua stessa società», impedendo preventivamente lo sviluppo di
una struttura caratteriale, pulsionale, antagonistica a quella dominante. La
guerra contro la natura esterna è perciò uno degli strumenti di dominio di quel
progetto capitalistico che, nutrendosi dello sfruttamento del lavoro altrui,
fin dalla prima età moderna ha avuto bisogno di «assoggettare il principio di
piacere al principio di realtà e trasformare l’uomo in uno strumento di un
lavoro sempre più alienato»[ix],
innanzitutto nel corpo. Essa abitua a trattare la propria corporeità e quella
esterna come mero strumento di lavoro per altri e altro piuttosto
che come strumento di piacere. La distruzione della natura, così, rientra nella
«tendenza totalitaria del capitalismo monopolistico» che deve chiudere «una
dimensione pericolosa di fuga e di contestazione», una fonte di ispirazione di
bisogni e valori alternativi a quelli socialmente dominanti. Un locus in
cui la liberazione sociale dal lavoro alienato possa
diventare bisogno, obiettivo “naturale” delle pulsioni di vita:
«L’inquinamento e l’avvelenamento sono processi
tanto mentali quanto fisici, tanto soggettivi quanto oggettivi […] Quando le
persone non sono più capaci di distinguere tra bellezza e bruttezza, tra
serenità e cacofonia, non sono più capaci di comprendere la qualità essenziale
della libertà, della felicità. Nella misura in cui è diventata il territorio
del capitale piuttosto che dell’uomo, la natura serve a rafforzare la servitù
umana. Queste condizioni sono radicate nelle istituzioni fondamentali della
società costituita, per la quale la natura è innanzitutto un oggetto di
sfruttamento per il profitto. Questo è l’insormontabile limite interno di
qualsivoglia ecologia capitalistica»[x].
Tuttavia, il sorgere del movimento ecologico, al
pari della resistenza corporea dei vietnamiti alla macchina
super-tecnologica della distruzione americana, viene a provare che la
dimensione naturale dell’Eros resta ciò che si era prospettato fin dalle pagine
di Eros e civiltà, e che in L’uomo a una dimensione pareva
essere stato definitivamente assoggettato: la base fondamentale del “Grande
Rifiuto” contro le forme di vita e gli obiettivi fondamentali oggettivati nelle
istituzioni sociali del lavoro alienato, del profitto, dello Stato
amministrato.
Sia quella vietnamita, che quella dei giovani
nelle metropoli, diventa quindi una rivolta che, mobilitando la dimensione
soggettiva nel profondo, minaccia alle radici la civiltà di dominio e quindi la
sua forma storica specifica, quella del capitalismo e del socialismo della
prestazione. Ciò che li accomuna, e che spiega la solidarietà tra i giovani
della società “opulenta” e il popolo vietnamita, nonché dei ghetti neri, prima
ancora che un comune interesse di classe sono «impulsi e bisogni comuni». Si
tratta in entrambi i casi di una «ribellione della natura ridotta a oggetto»[xi]. Ciò a cui «ci troviamo di fronte»,
commenta Marcuse, è «una politicizzazione dell’energia erotica»: i movimenti
radicali, prima ancora che «lotta di classe in senso
tradizionale […] costituiscono delle rivolte esistenziali contro un principio
di realtà obsoleto» in cui «l’intero organismo, l’anima stessa dell’essere
umano, si fa politico. È una rivolta delle pulsioni di vita contro la
distruzione organizzata e socializzata»[xii] generata non solo in reazione a
quest’ultima, ma anche a causa dell’inedita possibilità di liberazione
dischiusa dallo sviluppo sociale:
«Nella società classista la rivoluzione è
“investita” dall’impulso erotico alla liberazione da una repressione
addizionale […] Le rivendicazioni essenziali della rivoluzione, quali l’abolizione
del lavoro alienato, uguali possibilità di autodeterminazione, la pacificazione
della natura, la solidarietà, hanno, così, nella soggettività, una base
erotica – come il fascismo ha la propria nel carattere distruttivo. La
società e la liberazione in quanto processo storico-sociale coinvolgono lo
stesso Eros – a differenza di quanto avviene con la sessualità e la
soddisfazione sessuale, che può consumarsi anche nell’abito della società di
classe. Il dispiegamento delle pulsioni di vita, l’Eros, ha bisogno del
mutamento sociale, della rivoluzione; la rivoluzione ha bisogno di una base
pulsionale»[xiii].
Per un verso, la guerra in Indocina è la «risposta
capitalistica al tentativo di una liberazione ecologica rivoluzionaria: le
bombe devono impedire [prevent] che la popolazione del Nord Vietnam
riabiliti socialmente ed economicamente la terra»[xiv]. Esso appare come il Nemico che va
annichilito per difendere la civiltà tout court perché la sua
resistenza è rottura dell’immaginario dell’unità tra crescita illimitata e
progresso umano. È prova della possibilità di «vincere la povertà mediante una
riconversione, più che un aumento della produzione, mediante l’eliminazione
della produttività dai campi dello spreco socialmente necessario,
dell’obsolescenza pianificata, degli armamenti, della pubblicità, della
manipolazione»[xv].
Per l’altro verso, «la rivolta dei giovani
(studenti, lavoratori, donne)» sorge, ancor prima che da una teoria
consapevole, da «un sentimento, un riconoscimento, che non è più necessario
esistere come uno strumento di lavoro e svago alienati […] che il benessere non
dipende da una crescita perenne nella produzione»[xvi]. È una rivolta che perciò «attacca tutti
i valori che governano il sistema capitalistico», che in taluni casi si orienta
«verso l’obiettivo di un ambiente tecnico e naturale radicalmente differente» e
che sperimenta già ora pratiche di vita in comune e in
comunione con la natura. Il movimento ecologico è quindi «un movimento di
liberazione politico» e insieme «psicologico»[xvii]: politico, in quanto sottrae la natura
allo sfruttamento capitalistico, e perciò «si oppone al potere compatto del
grande capitale»; psicologico, poiché mobilita l’Eros alla rivolta, «perché la
pacificazione della natura esterna, la protezione dell’ambiente vitale,
pacificherebbe anche la natura interna degli uomini e delle donne. Se avesse
successo, l’ambientalismo subordinerà, all’interno degli stessi individui,
l’energia distruttiva all’energia erotica».
3. Prassi politica o idea regolativa?
Se la dinamica di accumulazione di capitale è
l’origine sia della distruzione che della possibilità di liberare la natura
esterna e interna dallo sfruttamento, Marcuse non può che ritenere una
«cooptazione da parte dell’establishment» quelle riforme locali promosse dal
movimento ecologico volte ad «abbellire l’ambiente, renderlo più piacevole,
meno brutto, più salutare e quindi più tollerabile». Esse bloccano lo sviluppo
di un «ecologismo autentico» verso una «lotta militante socialista che attacchi
il sistema alle sue radici»[xviii]. È questa la più chiara formulazione
marcusiana del suo eco-socialismo politico.
Tuttavia, non è la sua ultima parola sul tema.
Nel 1979, infatti, mostra tutto il suo scetticismo sulla confluenza
dell’ecologismo in un movimento fondato su delle masse ancora integrate nel
sistema dei bisogni dominante. Piuttosto che disperarsi per la propria «inefficacia
politica», però, i radicali dovevano vedere nel proprio isolamento dalle
organizzazioni di massa (partito e sindacato) un «segno della loro autenticità»[xix].
Si tratta di un cambio di prospettiva?
Va detto che persino in pieno Maggio parigino,
Marcuse ha sempre tenuto a precisare che una “rivolta” non è “rivoluzione”, che
una “rivoluzione culturale” non è una “rivoluzione sociale”, poiché quest’ultima
richiede la mobilitazione della classe dei lavoratori. Molti lettori, anche
contemporanei, gli hanno imputato un’identificazione ancora troppo ortodossa e
troppo immediata tra forma partito-sindacato, organizzazione, e la base della
classe. La delusione per l’accondiscendenza delle organizzazioni diventa in lui
uno scetticismo per il ruolo rivoluzionario della classe dei lavoratori che
però, restando per lui l’unico soggetto oggettivamente rivoluzionario,
getta ombre anche sulle proposte della Nuova Sinistra, relegata al rango di
mero “catalizzatore” di una rivolta più ampia. Il fatto che piuttosto che
catalizzare e radicalizzare l’opposizione sociale il Sessantotto fosse stato
sconfitto dalla nuova stabilizzazione controrivoluzionaria, può spiegare lo scetticismo
verso una confluenza tra movimento ambientale e partiti tradizionali alla fine
degli anni Settanta.
D’altronde, Marcuse non è estraneo ad una
tendenza ad opporre in maniera piuttosto a-dialettica bisogni particolari e
bisogni universali, bisogni falsi e bisogni veri, forse proprio a causa della
sua critica alle forme tradizionali di organizzazione, identificate però con
l’organizzazione tout-court della classe. Piuttosto che
considerare il fatto che la lotta, soprattutto quando organizzata, è ciò che
porta effettivamente a maturazione i primi nei secondi e, ad esempio, volge una
lotta per il diritto di parola in una singola università in una lotta generale
per la riforma del sistema di istruzione[xx], egli fa appello all’Eros come
radice immediata di bisogni veri e universali. Così anche il
tardo ecologismo può essere “autentico” nella misura in cui non si
radica sul terreno oggettivo della prassi politica, ma trova le sue fondamenta
sul piano di una soggettività “interna” e “naturalmente” disposta alla
ribellione.
È anche vero, però, che Marcuse – spinto probabilmente
dalle critiche – proprio in quegli anni definiva meglio la dialettica tra
sviluppo della produzione verso servizi e beni sempre più legati alla
creatività, all’affettività, all’autonomia nel lavoro, da un lato, e
impossibilità di soddisfare queste esigenze all’interno del lavoro alienato,
dall’altro lato; e tra questa negazione e la conseguente politicizzazione di
quei bisogni “veri” nei nuovi movimenti femministi, ambientalisti, operai.
In Ecology and Revolution, ad esempio, scrive: «esigenze economiche
e tecniche sono trascese in un movimento di rivolta che sfida il modo stesso di
produzione e il modello di consumo»[xxi].
Grazie a questa nuova teoria della produzione e
della politica, Marcuse insiste che nella fase della controrivoluzione non «si
gioca a fare la rivoluzione», ma compito del movimento è elaborare una nuova forma
di organizzazione per non perdere la politicizzazione generata negli anni
Sessanta. Una forma organizzativa capace di tenere insieme, ma al contempo di
tenere distinti, l’esigenza di liberazione personale e di liberazione sociale
ed evitare tanto la burocratizzazione dell’organizzazione e della teoria,
quanto un «problematico culto dell’immediatezza»[xxii] in cui era scaduto anche il
movimento ambientale quando promuoveva una «evasione» verso una natura “buona”
in sé ed opposta astrattamente ad una civiltà cattiva. In verità, spiegava
Marcuse, la natura è «erotica, quanto distruttiva»; base, ma anche «limite
della liberazione»; qualcosa da reprimere e da cui liberarsi,
non solo da liberare e lasciar “sfogare”.
Sono anni in cui Marcuse torna più volta sul
rapporto tra personale e politico, tra pratiche di autoformazione e la
necessità che esse, conservando la loro autonomia, pure non si limitassero ad
esse, perché era nella lotta politica, di cui il movimento ambientale più sincero
era espressione, che l’Eros doveva essere liberato. È «qui», precisa Marcuse,
che la natura si fa «forza della dinamica sociale come soggetto-oggetto»; e
ancora: «i limiti naturali del capitalismo vengono alla luce nei movimenti di
protesta; qui la natura diviene una forza potenziale della trasformazione della
società, concreto contraltare al suo ingabbiamento nel processo capitalistico
di produzione»[xxiii]. Tuttavia, la mediazione della politica
impone una generalizzazione in cui qualcosa del personale e
del “naturale” va perduto: c’è bisogno di conquistare il consenso delle masse,
c’è bisogno di teoria, di ragione, non di immediatezza, non di sfogo di
emozioni personali.
Ne viene una diversa valutazione tanto della
cooptazione “green”, quanto del valore politico delle sperimentazioni più
radicali.
«Per essere chiari» non ci si deve nascondere che
riforme locali possono fare il gioco della cooptazione. Tuttavia, nel lungo
periodo, quando la cooptazione è una risposta ad una lotta per riforme
radicali, essa non può non avere anche degli aspetti «progressivi»: proprio
abbellendo l’ambiente non può che contribuire alla diffusione «di bisogni e
aspirazioni» che modificano «il comportamento, delle persone, l’esperienza e
l’atteggiamento verso il loro lavoro»[xxiv]. In un certo senso, le riforme radicali
preparano il terreno oggettivo, empirico, materiale, su cui sempre
più individui possono sviluppare una soggettività qualitativamente diversa,
anche dentro il centro capitalistico.
Ridefinita la strategia, almeno nei paesi
avanzati, in una “lunga marcia nelle istituzioni”, l’inefficacia politica come
«segno» di autenticità dei radicali, va intesa come la «qualità iniziale di
gruppi e individui che hanno sostenuto diritti e obiettivi propri dell’uomo, al
di là dei cosiddetti obiettivi realistici»[xxv]. Ma è solo l’inizio, non la fine del
processo di liberazione, né l’unico mezzo. «Finché, tuttavia, persiste la
divisione sociale del lavoro costituita, una simile emancipazione rimane nel
quadro dell’educazione personale, psicologica»[xxvi]. È incolmabile, ad esempio, l’abisso che
separa le campagne “utopistiche” «sul “vegetarianesimo universale”» e la
necessità politica di stabilire «solidarietà» tra uomo e uomo che resta la
«priorità» rispetto alla pacificazione della lotta tra uomo e natura[xxvii]. Eppure, come quel “mito” orfico non è
falsa illusione se viene concepito come «idea regolativa» per una «riduzione»
del conflitto con la natura, così anche le sperimentazioni “autentiche” e
radicali non sono del tutto inutili “piccole utopie”, almeno fin tanto che si
pensano come limitate per dimensione e compito: rinunciano a generalizzarsi
ora, e si impegnano a prefigurare e anticipare, nell’autonomia limitata a
piccoli gruppi, forme di vita che possono diventare quelle generali in un
domani da costruire su più dimensioni: personale e
istituzionale, individuale e sociale. Il che non significa rassegnarsi
all’impossibilità della Rivoluzione, ma lavorarci su piani, temporalità,
dimensioni diversi.
4. Tra passato e presente: Marcuse nell’Antropocene
È forse inutile sottolineare quanto le condizioni
oggettive e soggettive siano profondamente mutate rispetto agli anni in cui
Marcuse scriveva e a partire dai quali aveva elaborato la sua riflessione
politica ed ecologica. Il nuovo ordine controrivoluzionario del neoliberismo –
intuito da lui nella sua fase embrionale – ha acuito le disuguaglianze anche in
Occidente, squarciando da sé il “velo tecnologico” di una società inclusiva
grazie alla crescita costante. Persino le classi dominanti ora parlano
apertamente di “decrescita”; l’URSS non c’è più; la crisi ambientale e lo
sfruttamento della natura hanno assunto forme e dinamiche molto più gravi rispetto
al mero depauperamento delle risorse che Marcuse poteva vedere[xxviii].
Di fronte all’urgenza, la “lunga marcia nelle
istituzioni” sembra dover lasciare il posto alla loro immediata abolizione: che
non sia possibile alcuna transizione ecologica senza una transizione ad una
società post-capitalistica, e viceversa, appare chiaro a sempre più Reds e Greens.
Eppure, proprio su questo il discorso marcusiano può tornare di lucida attualità. Quando, a 77 anni suonati, egli ricordava ai giovani universitari che qualcosa come il Sessantotto «SI PUO’ ANCORA FARE»[xxix], lo faceva per ammonire a non fare dell’urgenza, del bisogno, della sofferenza, né un utopismo del “tutto e subito”, né un realismo catastrofista del “there is no alternative”: entrambi sono buoni solo alla conservazione dello status quo perché è nelle fedi verso gli assoluti che si annida il rischio di cocente disillusione, di disfattismo e depoliticizzazione. Che bisogni cambiare il mondo, e subito, ce lo ricordano incendi, alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, estinzioni di specie, migrazioni di popoli, carestie, guerre. Come fare, resta compito del “lavoro del concetto” – determinarlo – e della prassi – sperimentarlo. Per determinarlo ci vuole una buona dose di utopia e di immaginazione, perché senza un nuovo immaginario non è possibile una società autenticamente eco-socialista. Ma ci vuole anche un sano realismo della ragione e una disciplina della prassi per riconoscere quei limiti storici e ambientali irriducibili tanto ai wishful, quanto ai dreadful thinkings[xxx].
Note
L’articolo riassume una più ampia introduzione
agli scritti “ecologici” di Herbert Marcuse in corso di pubblicazione, prodotto
di una ricerca nell’ambito di una borsa di post-dottorato presso l’Università
degli Studi di Napoli “Federico II”.
[i] Basta scorrere le prime
pagine di G. Thunberg, The Climate Book, Milano, Mondadori, 2022,
per avvertire la coscienza del legame tra disastro ambientale, disuguaglianza
sociale e inefficacia delle politiche governative. Per una breve disamina
storica sui recenti mutamenti nel rapporto tra movimento ecologico e governi,
rimando all’articolo La metamorfosi della giustizia climatica di
Emanuele Leonardi e Paola Imperatore pubblicato su questo blog il 26 luglio
2023 [https://www.leparoleelecose.it/?p=47374].
[ii] Per alcune valutazioni
dell’eco-marxismo sull’opera ecologica di Marcuse, cfr. P. Burkett, J.B.
Foster, Marx and The Earth. An Anti-critique, Brill, 2016, p.
2, p. 37, p. 55, p. 232 e K. Saito, Marx in the Anthropocene. Towards
the idea of Degrowth Communism, Cambridge, Cambridge University Press,
2023, p. 70, nota 12. Su quest’ultimo, si veda la recensione di Jacopo Bergamo,
pubblicata su questo blog il 28 marzo 2023
[https://www.leparoleelecose.it/?p=46483].
[iii] Cfr. il già citato Marx
in the Anthropocene di K. Saito; A. Malm, Fossil capital. The
Rise of Steam Engine and the roots of Global Warming,
London, Verso, 2016, su globalizzazione degli anni Novanta, accumulazione
originaria in Cina e uso del carbone; S. Barca, Forze di riproduzione,
Milano, Edizioni Ambiente, 2023, sulle figure salariate e non-salariate (donne,
comunità afroamericane e indigene, natura extra-umana) che hanno subito, a
costo di morti e violenze inaudite, la cosiddetta ascesa dell’uomo a “forza
geologica” celebrata nella master-narrative dell’Antropocene.
[iv] H. Marcuse, Ecology
and Revolution, in Id., Ecology and the Critique of Society Today,
ed. by S. Surak, P-E. Jansen, C. Reitz, Santa Barbara, University of California
Santa Barbara, 2019, p. 2. Per le prossime citazioni, ivi, pp. 2-4.
[v] Id., L’uomo a una
dimensione, tr.it. di L. Gallino e T.G. Gallino, Torino, Einaudi, 1999, p.
15. Cfr. anche Id., Sul Vietnam, in Id., Oltre l’uomo a una
dimensione. Scritti e interventi di Herbert Marcuse, vol. I, tr.it di S.
Bomura e L. Garzone, a cura di R. Laudani, Roma, Manifestolibri 2006, pp.
47-69.
[vi] Id., Ecology and
Revolution, cit., pp. 1-2.
[vii] Ivi, p. 3.
[viii] Id., Ecologia e
critica della società moderna, in Id., Marxismo e Nuova Sinistra. Scritti
e interventi di Herbert Marcuse, vol. II, tr.it. di L. Scafoglio, a cura di
R. Laudani, 2007, p. 166.
[ix] H. Marcuse, Ecology
and Revolution, cit., p. 2. Da una prospettiva femminista, attenta anche
alla conquista del Nuovo Mondo, anche S. Federici, Il Calibano e la
Strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano, Mimesis,
2020, p. 203, parla della necessità capitalistica di trasformare la «vis
erotica» in «vis lavorativa». Da segnalare che, al pari dell’autrice, anche H.
Marcuse, Eros e civiltà, tr. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino,
2001, p. 109, fa riferimento all’«eccidio crudele e organizzato dei Catari,
degli Albigesi, degli Anabattisti, degli schiavi, dei contadini e dei poveri» e
«al rogo delle streghe» per disciplinare il “corpo ribelle”, le facoltà
“riproduttive” ed erotiche al diktat della prestazione capitalistica, ma anche
come «l’irruzione di forze pulsionali inconsce nel mondo razionale e
razionalizzato» in cui «i carnefici e le loro bande combattevano lo spettro di
una liberazione che desideravano, ma che erano costretti a rifiutare».
[x] H. Marcuse, Ecology
and Revolution, cit., p. 5.
[xi] Id., Protosocialismo
e tardocapitalismo. Verso una sintesi teorica a partire da Rudolph Bahro,
in Id., Marxismo e nuova Sinistra, cit., p. 269.
[xii] Id., Ecologia e
critica della società moderna, cit., p.
[xiii] Id., Bahro,
cit., p. 267.
[xiv] Id., Ecology and
revolution, cit., p. 2.
[xv] Id., Individuo nella
grande società, in Id., La società industriale avanzata. Scritti e
interventi di Herbert Marcuse, vol. III, tr.it. di L. Scafoglio, a cura di
R. Laudani, Roma, Manifestolibri, 2008, p. 183.
[xvi] Id., Ecology and
revolution, cit., p. 3.
[xvii] Id., Ecologia e
critica della società moderna, cit., pp. 173-174 (tr. leggermente
modificata).
[xviii] Id., Ecology and
revolution, cit., p. 5.
[xix] Ivi, p. 175.
[xx] Cfr. H. Draper, La
Rivolta di Berkeley. Il movimento studentesco negli Stati Uniti, tr.it. di
R. Giammanco, Torino, Einaudi, 1968.
[xxi] H. Marcuse, Ecology
and Revolution, cit., p. 4.
[xxii] Id., Bahro,
cit., p. 269.
[xxiii] Ivi, pp. 268-269.
[xxiv] Id., Ecology and
Revolution, cit., p. 4.
[xxv] Id., Ecologia e
critica della società moderna, cit., p. 175.
[xxvi] Id., Oltre il marxismo
cattivo, in Id., Marxismo e Nuova Sinistra, cit., p. 279.
[xxvii] Id., Counterrevolution
and revolt, Boston, Beacon Press, 1972, p. 68 (tr. it. mia). In questo
capitolo su Nature and Revolution, Marcuse discute della
possibilità che la natura possa diventare un “alleato nella Rivoluzione” –
«anche la natura aspetta la rivoluzione!», scrive in ivi, p. 74 – attraverso la
filosofia di Kant, per il concetto di estetica come capacità della sensibilità
di dare forma apriori all’esperienza, da un lato; ed il pensiero di Hegel e
Marx, per la concezione storico, sociale e pratica di siffatta formazione
sensibile, dall’altro lato. Il capitolo è stato pubblicato su questo blog da
Davide Nota il 31 Luglio 2020 [https://leparoleelecose.it/?p=38986].
[xxviii] L’analisi di Marcuse
trova grandi affinità con quelle elaborate negli stessi anni da A. Gorz, Ecologia
e libertà, a cura di E. Leonardi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2015. Per le
nuove forme di sfruttamento capitalistico della natura, cfr. l’opera di E.
Leonardi, Lavoro, natura, valore, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017 e
E. Leonardi, Carbon Trading Dogma. Presupposti teorici e implicazioni
pratiche dei mercati globali di emissioni di gas climalteranti, in «Jura
Gentium».
[xxix] H. Marcuse, Università
e la trasformazione radicale della società, in Id., Lezioni
americane (1966-1977), a cura di L. Mandara, Milano, Mimesis, 2022, p. 66.
[xxx] L’ecologismo mi pare
giunto a questo “realismo” una volta abbandonato il wishful
thinking che la transizione ecologica possa essere semplicemente
delegata a dei governi che, senza mobilitazioni dal basso, non possono che difendere tout
court gli interessi dominanti del capitale. Si pecca ancora di
“utopismo”, però, quando questa consapevolezza non porta a porsi problemi di
natura propriamente politica, come la questione del potere e
dell’organizzazione di una forza capace di bloccare e riconvertire
la produzione, il che implica il problema del consenso e della mobilitazione
della forza lavoro globale. Un’ingenuità che traspare, mi pare, nelle recenti
prese di posizioni di Greta Thunberg sul nucleare e la guerra in Ucraina, che
hanno de facto cancellato decenni di lotte anti-nucleari e
anti-militariste che, come visto attraverso l’opera di Marcuse, hanno
costituito il nerbo del movimento ambientale almeno fino al crollo dell’Unione
Sovietica. Altrettanto ingenuo sarebbe credere che con una Rivoluzione
socialista globale il problema ambientale possa essere risolto senza atti
“repressivi” e in sostanziale tranquillità: per quanto “falsi”, quelli
“consumistici” sono diventati bisogni e desideri diffusi, immaginario condiviso
spesso anche da popolazioni povere, e una loro trasformazione richiederà molto
probabilmente atti repressivi e dunque, di nuovo, l’esercizio
di autorità – senza per questo dover necessariamente risolvere il problema in
chiave eco-fascista.
Articolo ripreso da: https://www.leparoleelecose.it/?p=47752
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