13 ottobre 2023

IL VALORE LETTERARIO E POLITICO DEL RACCONTO DI GIOVANNI DI MARCO

 



L’AVVERSIONE DI TONINO PER I CECI E I POLACCHI DI GIOVANNI DI MARCO

 

Alice Pisu

 

Nel saggio Topologia della violenza (trad. Simone Buttazzi, nottetempo2020), Byung-Chul Han sostiene che la storia della violenza giunga a compimento nella “coincidenza tra carnefice e vittima, tra signore e servo, tra libertà e violenza”. Il romanzo d’esordio di Giovanni Di Marco (L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi, Baldini+Castoldi, 2022) indaga tale corrispondenza nel narrare la dolorosa metamorfosi subita da un bambino raccontata in prima persona in retrospettiva. Antonino Deogratias rivive il 13 maggio 1981, giorno del funerale di sua madre, morta nel dare alla luce il suo terzo figlio. A interrompere le celebrazioni ufficiate da Padre Alfio nella Chiesa di Castelverde la notizia dell’attentato a Giovanni Paolo II, destinata a offuscare il lutto e a catalizzare l’attenzione di tutti i parenti e i compaesani presenti. Affranto e disperato, Tonino viene affidato dal padre alla zia Nunzia e allo zio Saro. A sua sorella di appena sedici anni il fardello della cura del neonato Salvatore (ben presto soprannominato da Tonino Ammazzatore)e della casa, condannandola all’annichilamento. In tale profonda solitudine e percezione di generale incomprensione, il giovane protagonista definisce tempi e spazi nuovi per affrontare il dolore, rifugiandosi al Bar della Gioventù per leggere Il Giornale di Sicilia, nella speranza vana che si dia finalmente attenzione alla morte di sua madre.

Sin dalle prime pagine emerge il potente ritratto di un luogo che pare cristallizzato in una dimensione atavica, dove da decenni imperversa incontrastata la DC. Per Tonino i pomeriggi passano da Gnazzino ad aspettare il proprio turno per leggere La Gazzetta dello sport e intanto segnare i punti dei vecchi che scatarrano giocando a briscola o a biliardo, o in compagnia dei bambini del quartiere identificati secondo le rispettive ‘nciurieNaschilordiStratos, TattooSancisuca e Il figlio di Nino D’Angelo.

“In fondo il mio paese non era altro che un grumo di casupole, per lo più brutte e pericolanti, addensate in maniera disordinata alla base di un costone roccioso che pareva essere lì apposta per vegliare su Castelverde e i suoi abitanti”.

La scelta di delineare una dimensione temporale dilatata rivela la natura fluida della struttura narrativa, marcata in egual misura dagli eventi storici e politici e dalle vicende sportive che avrebbero caratterizzato i primi anni Ottanta, e dal travaglio interiore vissuto da un bambino smarrito, disperatamente perseguitato dall’assenza materna, che in quei continui cedimenti del corpo mostra di essere sovrastato da un dolore inestinguibile, un vuoto fisico “simile alla fame, ma di un’intensità più violenta”.

La prosa nitida di Giovanni Di Marco plasma in tale apparenza di staticità evoluzioni continue marcate dagli stravolgimenti interiori vissuti dal protagonista, attraverso un distacco temporale che assegna una valenza ulteriore al racconto per il doveroso confronto con la memoria nell’elaborazione tardiva di grovigli emotivi inestricabili.

I momenti di socialità amplificano l’alienazione di Tonino. L’unica figura materna e amorevole che avrebbe seguito la sua crescita con devozione è Tania, giovane vicina di casa di origini tedesche trasferita a Castelverde con il marito Alfredo, bella come Daisy di Hazzard. L’euforia e la gioia di vivere, nonostante un quotidiano opprimente funestato dalla mania di controllo di un marito che cerca di inibire ogni impeto di indipendenza, infondono speranza nel piccolo Tonino, che in lei vedrà un ardente desiderio di emancipazione e un’urgenza di libertà. Da lei imparerà il significato del prendersi cura dell’altro e sperimenterà fugaci momenti di felicità, come ricevere in regalo un Tango, il pallone più ambito, o passare il pomeriggio a saltare sul letto al ritmo dei Buggles, dei Police o dei Madness, ma solo dopo aver accostato le persiane per non turbare il vicinato.

Al di fuori di Tania, l’incomunicabilità definisce ogni rapporto famigliare di Tonino, con una zia votata alla rinuncia e centrata unicamente sulle incombenze del quotidiano, uno zio incapace di interpretare i segnali di disagio di un bambino, una sorella che lambisce la follia nel passare le giornate chiusa in casa a lavorare e recitare il rosario, e un padre mutanghero divenuto lo spettro di sé stesso che vive per inerzia e ridurrà il suo rapporto col figlio al fugace passaggio serale sul suo Millecento grigio antracite per un saluto prima di cena. Una condizione che contribuirà a scavare un solco e generare in Tonino una profonda estraneità al presente, nella muta accettazione degli altri, avvertiti come inadatti a comprenderne la disperazione.

L’estrema vulnerabilità di quel bambino che diventa introverso e si ribella a ogni imposizione generando un’insopportabile compassione, facilita i piani di Padre Alfio, figura astuta e meschina che con l’inganno e il crudele ricatto della gratitudine, riuscirà a piegarne la volontà per abusarne sessualmente. Lo spazio riservato al racconto della violenza assegna un accento particolare al senso di colpa generato nella vittima, definita come prescelta da Dio, costretta a giurare sulla Bibbia e a recitare poi il Confesso.

Proprio in virtù dell’oppressione che condiziona l’agire di Tonino, assume un ruolo di particolare rilevanza la realtà calcistica che per il giovane protagonista non rappresenta solo un grande evento mondiale da seguire con estremo coinvolgimento, ma nel suo quotidiano diventa “uno spazio enorme” situato fuori e dentro di lui, per esularsi almeno provvisoriamente dal presente.

Il romanzo è strutturato da due parti marcate dalla fase della consapevolezza dell’abuso subito, che però non sarà condizione sufficiente a garantire la salvezza di un bambino destinato a perpetuare a sua volta violenze e soprusi e a trasformarsi in un adolescente cinico che intende solo trasgredire le regole e definire un’identità nuova. Fasi di un cambiamento marcate dalle partite di pallone, dalle scorribande sul motorino di Manlio (rifornito succhiando da un tubo di gomma la benzina della Mercedes di suo padre), e dalle prime visioni pornografiche con Le Ore trafugate al nonno. Nonostante la leggerezza con cui l’amico condivide pulsioni e fantasie, Tonino continuerà ad associare ancora per lungo tempo il sesso all’abuso, al peccato e al rimorso.

Ancor prima che per il peso delle vicende narrate e dei temi affrontati, il rilievo dell’opera risiede nella capacità del suo autore di dare una forma esatta a una dolente condizione umana, resa attraverso vicende ordinarie vissute da persone comuni del ceto popolare, e nell’adozione di una lingua a tratti colloquiale in cui si innestano espressioni gergali siciliane e coloriture che contestualizzano una dimensione circoscritta e contribuiscono a forgiare un tempo e uno spazio che paiono imperturbabili, indicando una forte affinità con la lezione di Silvio D’Arzo in Casa d’altri.

Gli indugi descrittivi e l’allestimento del paesaggio urbano esprimono una peculiare sensibilità cinematografica che assegna un ritmo nuovo e una profonda intensità lirica alle scene finali, generata anzitutto dall’evoluzione interiore del protagonista, tra contrappunti che traducono una cocente paura di vivere. Ogni figura serba un dramma interiore tratteggiato con una sottile venatura ironica, necessaria all’autore per narrare il paradosso del vivere. La prosa di Giovanni Di Marco condensa burle e tragedie per esplorare quel che si cela dietro l’inganno del comico. La scelta di enfatizzare manie e vizi di alcuni personaggi o di scoperchiare le ipocrisie di una piccola realtà dell’entroterra non si riduce a mero gusto stilistico ma mira a ritrarre le miserie di un’umanità segnata da debolezze e convinzioni, estranea al cambiamento.

L’architettura dell’opera si regge su variazioni e intermittenze, con una prosa che sintetizza il flusso di pensieri nel racconto di eventi minimi e epocali cadenzati da visioni oniriche in cui si affaccia sulla pagina la silenziosa figura materna che, nel muoversi tra palazzi in assedio e rovine, continua a indicare la via a quel figlio angustiato. Lo spazio del sogno accoglie l’assillo, segue la manifestazione di un odio che muta forma sulla base di consapevolezze nuove e porta un bambino a diventare ossessionato dall’incubo di un Papa dagli occhi corrotti e disperati nascosti dietro a un paio di Ray-Ban. Quelle che appaiono come brusche interruzioni – le lettere di Marco alla sorella Tania sulle violenze subite dal cardinale Groër – compongono un discorso più ampio e parallelo incentrato sul peso della violenza e sull’omertà delle autorità vaticane. Con un affondo sul modo in cui la Chiesa Cattolica affrontò nei secoli la questione della violenza sessuale sui minori da parte di religiosi emerge, in senso più ampio, una riflessione sul significato assunto dalla denuncia che travalica la vicenda del singolo per estendersi a innumerevoli storie analoghe e farsi portatrice di un’istanza di riforma.

La prosa icastica densa di rimandi definisce una dolente evoluzione e denota la necessità del suo autore di distanziarsi da visioni stereotipate su una terra irrimediabilmente corrotta e da modelli narrativi incentrati sulla muta accettazione che caratterizzano parte della letteratura siciliana, per diventare invece espressione di una rivalsa necessaria e salvifica. In tal senso il riferimento a Leonardo Sciascia oltre a sovrapporsi al racconto di una paura che assume le sembianze di un cane “che abbaia dentro, che guaisce e sbava, che morde il fegato e il cuore”, mostra una chiara adesione dell’autore a un disegno narrativo incentrato sull’esaltazione dell’incoerenza come misura della fallibilità della natura umana, resa anzitutto nel rapporto travagliato con i reperti del passato e che traduce la fatica nel guardare a un tempo complesso che accoglie indulgenza e disprezzo, compatimento e biasimo. Tra pagine infuocate che celano una necessità feroce di redenzione, L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi è un romanzo politico che ai silenzi di un sistema complice di crimini sessuali contrappone l’urlo disperato di un bambino trasfigurato ma non vinto. Una lancinante e luminosa indagine sull’ereditarietà della violenza nell’esplorazione di un delirio privato, la raffigurazione di una deformazione che investe ogni cosa quando si precipita nell’abisso generato dalle proprie inquietudini, dai traumi mai elaborati, dalle colpe nuove di cui macchiarsi per sopravvivere all’annientamento di sé.

 

Recensione pubblicata il  22 ottobre 2022 nel sito  https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/come-un-cane-che-abbaia-dentro-lavversione-di-tonino-per-i-ceci-e-i-polacchi-di-giovanni-di-marco

 


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