L’AVVERSIONE DI TONINO PER I CECI E I POLACCHI DI GIOVANNI DI MARCO
Alice Pisu
Nel saggio Topologia della
violenza (trad. Simone Buttazzi, nottetempo2020), Byung-Chul Han
sostiene che la storia della violenza giunga a compimento nella “coincidenza
tra carnefice e vittima, tra signore e servo, tra libertà e violenza”. Il
romanzo d’esordio di Giovanni Di Marco (L’avversione di Tonino per i ceci e
i polacchi, Baldini+Castoldi, 2022) indaga tale corrispondenza nel narrare
la dolorosa metamorfosi subita da un bambino raccontata in prima persona in
retrospettiva. Antonino Deogratias rivive il 13 maggio 1981, giorno del funerale
di sua madre, morta nel dare alla luce il suo terzo figlio. A interrompere le
celebrazioni ufficiate da Padre Alfio nella Chiesa di Castelverde la notizia
dell’attentato a Giovanni Paolo II, destinata a offuscare il lutto e a
catalizzare l’attenzione di tutti i parenti e i compaesani presenti. Affranto e
disperato, Tonino viene affidato dal padre alla zia Nunzia e allo zio Saro. A
sua sorella di appena sedici anni il fardello della cura del neonato Salvatore
(ben presto soprannominato da Tonino Ammazzatore)e della casa,
condannandola all’annichilamento. In tale profonda solitudine e percezione di
generale incomprensione, il giovane protagonista definisce tempi e spazi nuovi
per affrontare il dolore, rifugiandosi al Bar della Gioventù per leggere Il
Giornale di Sicilia, nella speranza vana che si dia finalmente attenzione
alla morte di sua madre.
Sin dalle prime
pagine emerge il potente ritratto di un luogo che pare cristallizzato in una
dimensione atavica, dove da decenni imperversa incontrastata la DC. Per Tonino
i pomeriggi passano da Gnazzino ad aspettare il proprio turno per leggere La
Gazzetta dello sport e intanto segnare i punti dei vecchi che scatarrano
giocando a briscola o a biliardo, o in compagnia dei bambini del quartiere
identificati secondo le rispettive ‘nciurie: Naschilordi, Stratos, Tattoo, Sancisuca e Il
figlio di Nino D’Angelo.
“In fondo il mio
paese non era altro che un grumo di casupole, per lo più brutte e pericolanti,
addensate in maniera disordinata alla base di un costone roccioso che pareva
essere lì apposta per vegliare su Castelverde e i suoi abitanti”.
La scelta di
delineare una dimensione temporale dilatata rivela la natura fluida della
struttura narrativa, marcata in egual misura dagli eventi storici e politici e
dalle vicende sportive che avrebbero caratterizzato i primi anni Ottanta, e dal
travaglio interiore vissuto da un bambino smarrito, disperatamente perseguitato
dall’assenza materna, che in quei continui cedimenti del corpo mostra di essere
sovrastato da un dolore inestinguibile, un vuoto fisico “simile alla fame, ma
di un’intensità più violenta”.
La prosa nitida
di Giovanni Di Marco plasma in tale apparenza di staticità evoluzioni continue
marcate dagli stravolgimenti interiori vissuti dal protagonista, attraverso un
distacco temporale che assegna una valenza ulteriore al racconto per il
doveroso confronto con la memoria nell’elaborazione tardiva di grovigli emotivi
inestricabili.
I momenti di
socialità amplificano l’alienazione di Tonino. L’unica figura materna e amorevole
che avrebbe seguito la sua crescita con devozione è Tania, giovane vicina di
casa di origini tedesche trasferita a Castelverde con il marito Alfredo, bella
come Daisy di Hazzard. L’euforia e la gioia di vivere, nonostante
un quotidiano opprimente funestato dalla mania di controllo di un marito che
cerca di inibire ogni impeto di indipendenza, infondono speranza nel piccolo
Tonino, che in lei vedrà un ardente desiderio di emancipazione e un’urgenza di
libertà. Da lei imparerà il significato del prendersi cura dell’altro e
sperimenterà fugaci momenti di felicità, come ricevere in regalo un Tango, il
pallone più ambito, o passare il pomeriggio a saltare sul letto al ritmo dei
Buggles, dei Police o dei Madness, ma solo dopo aver accostato le persiane per
non turbare il vicinato.
Al di fuori di
Tania, l’incomunicabilità definisce ogni rapporto famigliare di Tonino, con una
zia votata alla rinuncia e centrata unicamente sulle incombenze del quotidiano,
uno zio incapace di interpretare i segnali di disagio di un bambino, una
sorella che lambisce la follia nel passare le giornate chiusa in casa a
lavorare e recitare il rosario, e un padre mutanghero divenuto
lo spettro di sé stesso che vive per inerzia e ridurrà il suo rapporto col
figlio al fugace passaggio serale sul suo Millecento grigio antracite per un
saluto prima di cena. Una condizione che contribuirà a scavare un solco e
generare in Tonino una profonda estraneità al presente, nella muta accettazione
degli altri, avvertiti come inadatti a comprenderne la disperazione.
L’estrema
vulnerabilità di quel bambino che diventa introverso e si ribella a ogni
imposizione generando un’insopportabile compassione, facilita i piani di Padre
Alfio, figura astuta e meschina che con l’inganno e il crudele ricatto della
gratitudine, riuscirà a piegarne la volontà per abusarne sessualmente. Lo
spazio riservato al racconto della violenza assegna un accento particolare al
senso di colpa generato nella vittima, definita come prescelta da Dio,
costretta a giurare sulla Bibbia e a recitare poi il Confesso.
Proprio in virtù
dell’oppressione che condiziona l’agire di Tonino, assume un ruolo di
particolare rilevanza la realtà calcistica che per il giovane protagonista non
rappresenta solo un grande evento mondiale da seguire con estremo coinvolgimento,
ma nel suo quotidiano diventa “uno spazio enorme” situato fuori e dentro di
lui, per esularsi almeno provvisoriamente dal presente.
Il romanzo è
strutturato da due parti marcate dalla fase della consapevolezza dell’abuso
subito, che però non sarà condizione sufficiente a garantire la salvezza di un
bambino destinato a perpetuare a sua volta violenze e soprusi e a trasformarsi
in un adolescente cinico che intende solo trasgredire le regole e definire
un’identità nuova. Fasi di un cambiamento marcate dalle partite di pallone,
dalle scorribande sul motorino di Manlio (rifornito succhiando da un tubo di
gomma la benzina della Mercedes di suo padre), e dalle prime visioni
pornografiche con Le Ore trafugate al nonno. Nonostante la
leggerezza con cui l’amico condivide pulsioni e fantasie, Tonino continuerà ad
associare ancora per lungo tempo il sesso all’abuso, al peccato e al rimorso.
Ancor prima che
per il peso delle vicende narrate e dei temi affrontati, il rilievo dell’opera
risiede nella capacità del suo autore di dare una forma esatta a una dolente
condizione umana, resa attraverso vicende ordinarie vissute da persone comuni
del ceto popolare, e nell’adozione di una lingua a tratti colloquiale in cui si
innestano espressioni gergali siciliane e coloriture che contestualizzano una
dimensione circoscritta e contribuiscono a forgiare un tempo e uno spazio che
paiono imperturbabili, indicando una forte affinità con la lezione di Silvio
D’Arzo in Casa d’altri.
Gli indugi
descrittivi e l’allestimento del paesaggio urbano esprimono una peculiare
sensibilità cinematografica che assegna un ritmo nuovo e una profonda intensità
lirica alle scene finali, generata anzitutto dall’evoluzione interiore del
protagonista, tra contrappunti che traducono una cocente paura di vivere. Ogni
figura serba un dramma interiore tratteggiato con una sottile venatura ironica,
necessaria all’autore per narrare il paradosso del vivere. La prosa di Giovanni
Di Marco condensa burle e tragedie per esplorare quel che si cela dietro l’inganno
del comico. La scelta di enfatizzare manie e vizi di alcuni personaggi o di
scoperchiare le ipocrisie di una piccola realtà dell’entroterra non si riduce a
mero gusto stilistico ma mira a ritrarre le miserie di un’umanità segnata da
debolezze e convinzioni, estranea al cambiamento.
L’architettura
dell’opera si regge su variazioni e intermittenze, con una prosa che sintetizza
il flusso di pensieri nel racconto di eventi minimi e epocali cadenzati da
visioni oniriche in cui si affaccia sulla pagina la silenziosa figura materna
che, nel muoversi tra palazzi in assedio e rovine, continua a indicare la via a
quel figlio angustiato. Lo spazio del sogno accoglie l’assillo, segue la
manifestazione di un odio che muta forma sulla base di consapevolezze nuove e
porta un bambino a diventare ossessionato dall’incubo di un Papa dagli occhi
corrotti e disperati nascosti dietro a un paio di Ray-Ban. Quelle che appaiono
come brusche interruzioni – le lettere di Marco alla sorella Tania sulle
violenze subite dal cardinale Groër – compongono un discorso più ampio e
parallelo incentrato sul peso della violenza e sull’omertà delle autorità
vaticane. Con un affondo sul modo in cui la Chiesa Cattolica affrontò nei
secoli la questione della violenza sessuale sui minori da parte di religiosi
emerge, in senso più ampio, una riflessione sul significato assunto dalla
denuncia che travalica la vicenda del singolo per estendersi a innumerevoli
storie analoghe e farsi portatrice di un’istanza di riforma.
La prosa
icastica densa di rimandi definisce una dolente evoluzione e denota la
necessità del suo autore di distanziarsi da visioni stereotipate su una terra
irrimediabilmente corrotta e da modelli narrativi incentrati sulla muta
accettazione che caratterizzano parte della letteratura siciliana, per
diventare invece espressione di una rivalsa necessaria e salvifica. In tal
senso il riferimento a Leonardo Sciascia oltre a sovrapporsi al racconto di una
paura che assume le sembianze di un cane “che abbaia dentro, che guaisce e
sbava, che morde il fegato e il cuore”, mostra una chiara adesione dell’autore
a un disegno narrativo incentrato sull’esaltazione dell’incoerenza come misura
della fallibilità della natura umana, resa anzitutto nel rapporto travagliato
con i reperti del passato e che traduce la fatica nel guardare a un tempo
complesso che accoglie indulgenza e disprezzo, compatimento e biasimo. Tra
pagine infuocate che celano una necessità feroce di redenzione, L’avversione
di Tonino per i ceci e i polacchi è un romanzo politico che ai
silenzi di un sistema complice di crimini sessuali contrappone l’urlo disperato
di un bambino trasfigurato ma non vinto. Una lancinante e luminosa indagine
sull’ereditarietà della violenza nell’esplorazione di un delirio privato, la
raffigurazione di una deformazione che investe ogni cosa quando si precipita
nell’abisso generato dalle proprie inquietudini, dai traumi mai elaborati,
dalle colpe nuove di cui macchiarsi per sopravvivere all’annientamento di sé.
Recensione pubblicata
il 22 ottobre 2022 nel sito https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/come-un-cane-che-abbaia-dentro-lavversione-di-tonino-per-i-ceci-e-i-polacchi-di-giovanni-di-marco
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