Ritrarre la poesia di oggi
Gisella Blanco
articolo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/ritratti-di-poesia-2024-riflessioni-sul-contemporaneo/
Per quanto contraddittorio e contrastivo, il potere del linguaggio continua a insistere sulla civiltà e sulla possibilità della civiltà. Soprattutto quello del linguaggio poetico, con buona pace di critici, autori e opinionisti che pur perseverando nel discutere di poesia, la tacciano di essere morta.
“L’originario chiamare, che si volge all’intimità di mondo e cosa e a questa dice di venire, è l’autentico chiamare. Questo chiamare è l’essenza del parlare. Nella parola della poesia è il parlare. Questo è il parlare del linguaggio. Il linguaggio parla. Parla dicendo a quel che chiama, cosa-mondo e mondo-cosa, di venire nel frammezzo della dif-ferenza”, e ancora: “La parola pura del parlare mortale è la parola della poesia[1]”. Così, Martin Heidegger affronta il tema del linguaggio nella sua celebre e tuttora suggestiva riflessione sull’essere e il tempo e, non a caso, ispira le parole del Presidente della Fondazione Roma, Franco Parasassi, in occasione della diciassettesima edizione di Ritratti di Poesia, una manifestazione curata e diretta da Vincenzo Mascolo e Carla Caiafa che storicamente si prefigge l’obiettivo di fornire, una volta l’anno, uno spaccato della poesia contemporanea italiana ed estera.
“L’idea di dare vita a Ritratti di Poesia” – commenta Carla Caifa – “è nata in un periodo in cui a Roma l’attenzione per la scrittura poetica era veramente cosa rara e poco seguita. Abbiamo, quindi, avvertito l’esigenza di rendere una consuetudine la lettura pubblica di poesia contemporanea, sperando di coinvolgere, attraverso il contatto diretto con gli autori e le autrici, un pubblico più ampio di quello abituale. Ritratti di Poesia vuole essere un osservatorio sulla poesia contemporanea, nazionale e internazionale, e per questo motivo abbiamo cercato di coinvolgere il maggior numero possibile di poeti e poete, italiani/e e stranieri/e, per rappresentare la diversità di stili, di linguaggio e di poetiche, senza pregiudizi di alcun tipo e senza porre barriere, mettendo anche da parte le nostre idee sul fare poesia. Anche la XVII edizione, che si è tenuta il 15 marzo, è stata ideata sulla base di queste linee programmatiche e ritengo che quella diversità di cui parlavo sia emersa. Molte voci poetiche diverse e di molte nazionalità hanno permesso al pubblico di apprezzare la varietà anche di tematiche che la poesia affronta. In questa edizione abbiamo cercato, inoltre, di ampliare il tema dell’importanza della poesia nella didattica, sia proseguendo il progetto “Caro poeta”, dedicato agli studenti liceali (con Nicola Bultrini, Maria Grazia Calandrone e Maria Teresa Carbone), sia avviando rapporti di collaborazione con le università. Quest’anno ha partecipato ai nostri progetti l’Università LUMSA, i cui studenti del corso di laurea in Scienze della Formazione primaria hanno spiegato l’importanza dell’insegnamento della poesia nelle scuole elementari. Con alcune scuole di poesia presenti alla manifestazione, inoltre, si è discusso della possibilità effettiva di insegnare a scrivere poesia.
Con l’intento di essere sempre in contatto con la società del nostro tempo, abbiamo anche parlato di intelligenza artificiale, utilizzata spesso anche in campo artistico, e delle possibili connessioni tra scrittura poetica e tecniche digitali, accennando al tema, che a nostro avviso è in questo ambito il più rilevante, dell’etica nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale.
Ritratti di Poesia è quindi, e innanzitutto, un’occasione per ascoltare poesia contemporanea dalle stesse voci dei suoi autori e delle sue autrici, ma è anche una modalità per parlare, attraverso la poesia, della nostra società ponendo a confronto culture e idee diverse”.
La civiltà della poesia
Come ha spiegato Andrea Temporelli (e cioè Marco Merlin) nel suo intervento alla fine della manifestazione, “noi crediamo che la scrittura della poesia derivi dalla vita e possa salvarla, e quindi commettiamo l’errore di comporre libri di poesia pensando che possano essere come album fotografici della vita stessa. In parte è anche giusto, ma Orfeo non salva Euridice, alla fine torce lo sguardo e la perde. In quella perdita accade la poesia”.
Ed è proprio a questa perdita, a questa continua tragica meravigliosa caduta che siamo costantemente sottoposti. Il poeta lo sa bene, anche se a volte lo dimentica. “Non sarai tu a parlare: lascia parlare in te il disastro[2]”, afferma Maurice Blanchot a proposito della scrittura che riporta al silenzio, alla lacuna, alla possibilità non del detto ma di ciò che si può ancora dire.
A questa perdita oracolare, a questa caduta verso un infinito dire che è anche un vertiginoso affondo nella parola fanno riferimento in modo particolare, tra i moltissimi autori italiani in cartellone (i cui interventi si possono riascoltare su RayPlay[3],[4]), il danese Morten Søndergaard e l’ucraina Oksana Stomina.
Oksana Stomina e la poesia politica
Sembra che l’esperienza diretta della guerra generi, almeno in alcuni casi, un radicamento del realismo nel surrealismo o, al contrario, del surrealismo in un ambiente figurale realistico, o ancora che sproni l’accostamento dei due punti di vista attraverso una chiave linguistico-immaginativa meno oggettuale e più marcatamente psico-etica – rispetto ad altri tipi di concettualizzazione formale più orfica come il realismo magico – come accade, per fare solo qualche esempio, in Ungaretti, in Celan, in Cvetaeva, in Char e nel sereniano Diario d’Algeria, al di là della simpatia, della partecipazione concreta e dell’affinità soggettiva di questi autori al movimento culturale di Breton.
Se il dubbio posto da Adorno sulla possibilità di fare poesia dopo Auschwitz, nonostante – ma forse anche grazie alle argomentazioni e alla poetica di Paul Celan che, contrastandolo, ne ha reso evidenti i margini di veridicità – torna sempre come pungolo delle coscienze di scrittori e critici, la verità è che Auschwitz non è mai passata e gli eventi bellici, i crimini di guerra e gli stermini collettivi continuano ad essere una realtà attuale. Così come la poesia.
Oksana Stomina pubblica in Italia, per Gilgamesh Edizioni, la raccolta Lettere non spedite, nella traduzione e a cura di Marina Sorina. Il libro fa parte della collana Le Zanzare, diretta da Andrea Garbin con una precisa linea editoriale e un chiaro intento di impegno civile. Garbin commenta così l’idea che sta alla base della scelta degli autori per la sua collana: “L’esistenza di un paese e la sopravvivenza del suo popolo dipendono dalla sua cultura, da ciò che creano i suoi artisti. Chi crea cultura è dunque destinato a sopravvivere. Chi distrugge l’arte e la cultura, presto o tardi, è invece destinato a scomparire. Dal 2014 molti artisti ucraini russofoni hanno iniziato ad abbandonare la lingua russa e Oksana è una di queste persone. La sua poesia è una potente risposta all’invasione di un totalitarismo, un imperialismo, che vuole annientare la cultura di un popolo, quello ucraino, che in tutta risposta sembra aver scelto la parola poetica per controbattere alle bombe.
Scrittori, giornalisti, persino i soldati sul fronte, tutti si sono prestati alla poesia. Anna Politkovskaja diceva “la Cecenia è lo strumento con cui Putin ha conquistato il Cremlino soffocando la società civile e la libertà di espressione”. Oggi possiamo dire senza esagerazione che “l’Ucraina è lo strumento con cui Putin vuole conquistare l’Europa”. Ma il popolo ucraino, che non vuole ripetere gli errori di quello bielorusso, resiste sì con le armi, ma ha avuto l’intelligenza di scegliere anche di creare: sta infatti ricostruendo la propria cultura, rinforzandone la memoria, e come punto di partenza ha scelto la poesia. Questo sta facendo Oksana Stomina con la sua poesia, non ce lo dice nelle sue poesie, ma i suoi versi lo sottendono, ed è questo, unito alla sua rabbia, uno dei motivi che mi ha spinto a pubblicarla”.
Lettere non spedite è la testimonianza dell’assedio di Mariupol, vissuto direttamente dall’autrice prima di dover andare via dalla propria terra per portare la sua testimonianza nei Paesi europei. Oksana Stomina ha dovuto lasciare a Mariupol non solo la sua casa e tutte le sue abitudini, già del tutto stravolte dalla guerra, ma anche suo marito, rimasto intrappolato insieme ad altri civili e militari nell’acciaieria Azovstal e che, da allora, risulta scomparso, irreperibile.
Il lavoro di Oksana con la poesia inizia proprio da quell’occupazione e da quel dolore incontenibile, da quella precisa e devastante caduta che, però, non ha sancito il silenzio.
Che fiducia si può dare ancora alla parola poetica? Si può fare politica con la poesia?
L’atto di scrivere poesia, nel caso di Stomina, sembra dare seguito a un mandato sociale e, contemporaneamente, a un imperativo interiore, tra testimonianza, esposizione politica, rielaborazione psicologica e ribellione all’invasore che è non solo il nemico politico ma anche tutto il dolore e lo straniamento che derivano dalle conseguenze dirette e indirette della guerra.
Alla mia domanda se, secondo lei, sia ancora possibile questa funzione internazionale per il poeta, l’autrice risponde: “Nella sua domanda mi ha sorpreso la parola “funzione internazionale”, mi ha ricordato i tempi sovietici quando la poesia era vista come mero strumento funzionale ai bisogni del partito e del governo, e se esprimeva un pensiero alternativo i poeti venivano puniti. La letteratura sovietica era costretta ad essere “in funzione di” un compito, come succede ora anche in Russia. La poesia contemporanea in Ucraina, invece, è come un uccello libero, ed è così che deve essere. Non parliamo di obblighi, ma di bisogno interiore di urlare, interloquire, testimoniare, documentare. L’unico obbligo del poeta è quello di essere onesto e di scrivere come respira. Infatti, tutte le mie poesie sono molto personali. A volte, è nelle poesie che riesco esprimere quel che non potrei dire a voce. Sembrerà contradditorio, ma cercate di capirmi: scrivo le poesie quando il livello di dolore o di amore, di disperazione o di tristezza, di rabbia o di tenerezza va oltre ogni limite. Allora nascono i versi.
Un altro discorso è cosa fare poi con le poesie ormai nate. In un istante, diventano come una parola d’ordine per aprire le anime di altre persone. Questo è un momento di grande responsabilità, perché si tratta della fiducia; la connessione tra un’anima e l’altra attraverso la poesia è più immediata che quella delle vie diplomatiche. Le poesie nate fra l’amore e le lacrime si trasformano in strumento di diplomazia internazionale. Sono conscia di quanto sia importante il mio popolo, uso questo strumento per combattere contro la propaganda russa. Faccio tutto quel che è nel mio potere per immettere, nelle anime che si aprono grazie alla poesia, l’informazione veritiera sulla guerra della Russia contro l’Ucraina, e il genocidio a cui sono sottoposti gli ucraini. Voglio parlare del genocidio degli ucraini, delle violazioni del diritto internazionale, dei loro crimini contro l’umanità, dell’eroismo dei miei connazionali. Anche in Italia, in questo momento storico cruciale va valorizzata ogni persona impegnata che diventa uno dei tasselli della forza per contrastare il male e l’ingiustizia.
È molto importante la sua domanda sulla possibilità di eseguire una missione internazionale con la poesia. Infatti, vorrei dire a ogni persona che leggerà questo articolo: certo che si può fare! È possibile ed auspicabile, perché tutte le libertà democratiche che ora appartengono all’umanità, una volta erano soltanto delle idee. I risultati sono diventati possibili e duraturi grazie alle persone che hanno sostenuto questi ideali e che hanno trasformato la propria voce solitaria in una grande onda di bene condiviso. Ed erano persone comuni, come me e lei”.
I versi di Stomina sono “vere e proprie lettere”, come lei stessa ha affermato durante la sua intervista a Ritratti di Poesia, che ha ritenuto necessario dover condividere con gli altri nella speranza che un giorno il marito torni e possa leggerle. La sua più forte volontà è che queste lettere giungano a destinazione, siano ascoltate, comunichino la catastrofe privata e collettiva che non si può tacere, né occultare.
Le ricorrenti interpunzioni presenti nei testi aggiungono l’elemento della colloquialità a questo dramma, lasciando aprire la dimensione intimistica a quella comunitaria e politica, attiva, concreta, iperrealistica: “È spaventoso scriverne. Come farne poesia/o sulla cenere ardente costruirsi una via,/trattenendola nei palmi delle mani a grande scorta,/poi essere con lui, nella prigione, fatta morta/e insieme a loro, tra quelli che non smettono di cercare,/sotto l’assedio, nei rifugi, nelle trincee, nelle bare, essere l’ultimo dottore all’hospital,/la madre che ha il figlio in “Azovstal”,/sepolta viva da una casa che si sgretola…”.
Il lettore conosce bene questa guerra, che è una guerra del presente. Le date apposte tra parentesi alla fine di ogni testo, così come si usa fare nella formula epistolare, sembrano riprodurre lo sgocciolamento del dolore che cola dalle parole. Si tratta di dati riconoscibili, storia viva: “Perché la «pioggia» – è troppo precisa e fitta,/perché la «grandine» fuori non si ferma,/perché la primavera si è rivelata troppo «russa»/quest’anno”.
La patria abbandonata è una casa che è non più dimora, ma l’appartenenza non viene interrotta o derogata: “Quando me ne andai, non erano stelle a cadere dal cielo./Il ricordo di quell’istante è travolgente e crudele./Lo so, mia Mariupol, per anni/tutto ciò non mi passerà..”.
Sgretolandosi i luoghi, anche l’io sembra perdere contorni, sembra smarrire il proprio nome: l’individuo, davanti a un fatto devastante come la guerra, viene defraudato di ogni struttura portante ma può ancora preservare e coltivare un pensiero etico. Il poeta, per farlo, sceglie la poesia.
La memoria conserva le radici della storia in cui la sacralità persiste nonostante lo scempio, e la divinità piange, inchinandosi assieme all’uomo, è atterrita essa stessa dagli eventi: “Il Creatore piangeva, senza celare lo strazio, /come se fosse sua colpa la nera disgrazia /del cemento schiantato, del muro incapace di reggere, /che la sua stessa mano più non poteva proteggere. /Piangeva, a soffiare su una candela innocente./Piangeva per l’Uomo, che come sempre non sente”.
Il senso della morte emerge dalla coscienza dei vivi, denuncia lo spregio per i cadaveri, testimonia la disumanità in una quotidianità irriconoscibile: “Sono rimossi dalle strade per mantenere il decoro./Sono caricati nei sacchi, troppo impegno chiudergli gli occhi./Non è una sepoltura: è l’occultamento di un reato”. L’autrice scegliere di essere esplicita nei suoi testi, politica fino in fondo: anche per questo, la forma epistolare che talvolta assomiglia a quella diaristica, talaltra a quella dell’invettiva, risulta efficace come veicolo formale per un messaggio che non si può mettere a tacere. “Se questo è un uomo[5]” rimbomba nella testa come monito ancora attualissimo.
Il paesaggio suggerisce, presagisce e agisce l’ambiente interiore, è un’allegoria sobria e contrita, un correlativo oggettivo che trascina all’esterno le macerie emotive dell’animo umano. D’altronde, come cita un indimenticabile verso di Ungaretti, “nel cuore/nessuna croce manca./E’ il mio cuore il paese più straziato”.
Da che parte sta Dio nella guerra?
I due amanti sembrano condannati a non incontrarsi mai, prigionieri in dimensioni ormai separate, rapiti in una danza d’amore che si svolge nell’assenza reciproca e che capovolge il mito del legame impossibile tra Tristano e Isotta, restituendo però la speranza in un epilogo positivo: “La distanza fra noi nelle insonnie è misurata,/nelle cicatrici sul cuore e nelle tempie imbiancate,/ma il girasole della speranza, brillante e forte,/fiorisce, e protende ancora al cielo le foglie,/come quello che cresceva sul mio poggiolo./Presto tornerai, amor mio, e lo vedrai da solo!”.
Una lettera al giorno, anche se non sarà effettivamente recapitata, è l’atto strenuo di resistenza contro il vuoto, il silenzio e i presunti addii, un gesto che può creare o ricreare la realtà desiderata o, quanto meno, la farà vivere nel foglio, nella dimensione altrettanto dignitosa e vivida della scrittura e della letteratura: “Anche se scarseggiano la forza e la speranza,/scrivimi una lettera al giorno!/E spediscimela oltre gli orizzonti,/con il primo vento in poppa. Costruisci ponti,/parola dopo parola, crea la strada che porta da me,/Adornala con miriadi di parole importanti,/chiamami mentalmente, ascoltami in lontananza/e mandami i tuoi ambasciatori,/e gli uccelli migratori!/Come un mago,/riduci la distanza fra noi, impugna il remo,/Contro coloro che si frappongono tra noi,/contro coloro che giungono per toglierci la vita!”. Il filo ininterrotto del discorso rappresenta un cordone affettivo, politico, sociale, un percorso di parole che porta fino all’ideale di salvezza.
L’accostamento di frangenti di guerra a spaccati di intimità familiare è, già dalla forma, un abbattimento di frontiere, una dichiarazione di immersione profonda nel fenomeno sociale che riguarda tutti, indipendentemente dall’esserne coinvolti in modo diretto o per la generale ma non meno rilevante responsabilità civica.
Un coraggioso “guardare attraverso la fiamma” è forse la metafora più calzante per questa poesia non solo di resistenza ma di persistenza alla barbarie della storia: “Chi l’avrebbe mai detto: anche a un passo dalla morte/le muse rimangono forti”.
Morten Søndergaard e il veleno curativo della poesia.
Søndergaard, il poeta danese che si è trasferito per un lungo periodo in Italia con l’idea di fare un esperimento e cioè di sottoporre la propria scrittura e la propria immaginazione all’influenza di un paesaggio, di una storia e di una lingua completamente diversi da quelli d’origine, ha pubblicato per l’editore italiano Del Vecchio la raccolta (composta da tre parti) A Vinci, dopo – Gli alberi hanno ragione. – Blog, nella traduzione di Bruno Berni.
“L’atto del camminare e la poesia per me sono legati”, scrive l’autore nell’introduzione. Parola e movimento sono allegorie reciproche, si consustanziano nella visione delle cose. “Si cammina./Si cammina all’indietro sulle proprie orme./Passo: nome./Cammino: nomi in movimento”: il linguaggio può invertire la prospettiva (“la domanda/si è ramificata nel paesaggio”, e ancora “I meli fioriscono inconfutabili/e ci insegnano a vedere con le parole”), può rendere visibile ciò che non dice, lascia ramificare il senso oscuro degli eventi nell’impressione della memoria.
L’uso peculiare della punteggiatura (in particolare dei doppi punti che, pur ricordando certa sperimentazione novecentesca, non sembra ricadere nello spirito della scrittura di ricerca ma piuttosto appare profondamente immerso nei suoni e nei significati che risiedono nei suoni), l’unione di parti del discorso e di parti grammaticali attraverso i trattini (altro esercizio di suoni e sensi) e lo spezzamento ritmico del soliloquio (sia attraverso il verso che con la frammentazione sintattica) lasciano intuire una tensione inesausta dell’autore verso la rielaborazione del ricordo visivo.
La scena viene psicologizzata, la letteralità del paesaggio diventa letterarietà antropogenica.
Non sempre il linguaggio “si lascia leggere”, proprio come il paesaggio e il suo sistema di segni e di simboli, è spiazzante, confondente. I testi sono visionari ma non surreali, psicologici ma non orfici, dilatano il focus sul dettaglio reale, che talvolta è anche impercettibile, e lo lasciano slittare verso significati diversi, con abitudini interpretative variabili (e questa, forse, è una delle sollecitazioni dell’esperimento di Søndergaard). A volte può sembrare di essere in presenza di calembour ma il retrogusto di amara leggerezza che aleggia in questi versi lascia presagire intenti poetici che uniscono la giocosità del dettato al senso del dramma, un dramma a volte severo ed altre trasognato ma che inerisce tutte le cose.
In un ambiente casalingo (ma non del tutto familiare) avviene la mise en scene -quasi teatrale- dell’avvento degli “ospiti”, individui non nominati cui l’io può relazionarsi, con cui può differenziarsi, attraverso cui può distinguere il dentro dal fuori. Questi ospiti, dotati di una volontà talvolta imperscrutabile, ondivaga e che esorbita dal normale comportamento di relazione con le cose, si muovono e agiscono nello spazio comune del testo, anch’esso poco canonico e riconoscibile, comprovando la radice psico-semantica di ambienti e ambientazioni “illeggibili” (“ma il paesaggio è illeggibile”/e noi proiettiamo/ombra d’ossa”).
La poesia fa ingresso nella scena, una meta testualità si innesta tra le immagini per consentire alla riflessione sulla poesia di prendere parte a quella sull’esistenza: “ogni poesia illumina il suo tratto di mondo con la sua torcia”.
La poesia, come specifica l’autore ne La Farmacia delle parole presentata in Italia a Ritratti di Poesia, anche in questo caso inizia in una “caduta”, appare come “erotica euforia”, unica libertà, “accesso al mondo”, scossa elettrica del linguaggio, defibrillatore per la memoria collettiva, pharmacon contro il “Grande Male” possibile attraverso un’attenta e consapevole somministrazione delle parole e delle loro relazioni logico-grammaticali.
Alla mia domanda su cosa abbia da dare la poesia alla società odierna, considerando la peculiarità che Søndergaard le attribuisce, e cioè di far diventare, in qualche modo, verità ciò che si dice in poesia, il poeta risponde così:
“È una domanda molto complessa che fornisce molti spunti di riflessione e non ho una risposta. Ma voglio provare ugualmente a rispondere. Il mio primo impulso è pensare che la poesia mantiene aperto uno spazio, un campo energetico linguistico altamente concentrato, che è possibile visitare e da cui ci si può lasciar contagiare. Uno spazio che è sempre stato lì e sarà sempre lì. È l’altro, l’estraneo, ciò che non è stato ancora formulato. Ciò che sta appena nascendo come significato e che poco prima non c’era. È il linguaggio potenziale, ciò che viene detto con grande enfasi e chiarezza nel momento in cui viene formulato. La poesia si esprime esprimendola. Prima non c’era, ma ora c’è. Ma non penso che la poesia sia uno sforzo progressista e innovativo o “d’avanguardia”. Quando una (buona) poesia è stata scritta, si raggiunge solo il luogo in cui si trova la poesia. Lì. Lì c’è poesia. La poesia si collega al campo energetico linguistico di cui parlavo prima. La società – ovvero i lettori – può scegliere di cercarla oppure no. Ma essa esiste come possibilità. Non penso che la poesia possa cambiare una società, ma forse può cambiare una persona alla volta. E se riesco a spostare il tuo sguardo di un millimetro o ad affinare la tua percezione per un secondo e poi tu porti con te quella percezione, allora la poesia ha avuto successo. È una conversazione che può svolgersi attraverso il tempo e lo spazio. La poesia permette a qualcosa di estraneo di prendere posto nel familiare che poi portiamo con noi e che quindi ci rende più resistenti di fronte a qualsiasi cosa possa accadere. In fondo si tratta innanzitutto di etica, di renderci aperti e ricettivi nei confronti di ciò che non è ancora conosciuto. Di aprirci e vedere il mondo in un modo del tutto nuovo attraverso lo sguardo arcaico della poesia. Perché il mondo va riformulato ogni giorno”.
D’altronde, il dire, per quello che si può o che si vuole, l’essere detti dal linguaggio (“Forse/sono le parole/a dire noi”, come sosteneva Heidegger), tradurre, svelare o sapere di avere un segreto e provare a scriverlo, o riscriverlo, rappresentano tutte azioni – perfino talvolta involontarie – che danno risalto all’essere in dialogo, all’essere dell’uomo in relazione con la sua umanità.
L’io e il paesaggio si inseguono, tentano un’impossibile immedesimazione, si distinguono come “scritture speculari”.
“Camminare fino in fondo al pensiero” è forse un modo di riunire il paesaggio al linguaggio e il linguaggio all’individuo.
Tra questi testi, lo sguardo visionario si manifesta per frammenti, si mischia ad altri stralci di verosimiglianza, il discorso diventa tutto mentale, una sorta di rielaborazione psicosomatica, un’evasione franca dalla pura oggettività con approdi veloci nella sensazione, nella titubanza, in quell’esitazione che conferisce credibilità (e giustizia) anche alla contraddizione nel e del discorso.
L’ambientazione domestica e quella esterna sembrano perdere i contorni, confondersi, contendersi le presenze umane che le popolano come se non ci fosse una reale differenza tra di esse, come se l’esperienza che gli esseri senzienti possono fare di entrambe fosse simultanea, profondamente straniante eppure insieme immersiva, totalizzante.
Il paesaggio è caratterizzato da lati, angoli, punti, anfratti, da tante e diverse parcellizzazioni dello spazio la cui nominazione sembra volta a suggerire la relativizzazione dell’insieme.
“Nella vera e propria folle realtà” (un ennesimo ossimoro?) continua a emergere la poesia dal paesaggio, forma strade, percorsi, sentieri, curve, e invita a una saggia e cauta percorrenza.
Le presenze degli altri appaiono oscure, inquietanti, sconosciute (anche quando hanno un nome), eppure partecipano della definizione dello spazio e dei confini dell’io dicente. Oggetti e situazioni realistiche sembrano diventare puri arcani, anch’essi simboli oscuri e plurivalenti, del tutto decontestualizzati così da poter diventare sempre qualcosa di diverso, di sfuggente, di non intellegibile, qualcosa di suggestivo ma non esplicativo. Quasi sempre, però, è la scena intera a non essere riconoscibile, fino a far dubitare della possibilità stessa di una interezza.
Personaggi e situazioni vengono sapientemente abbinati tra loro con fare provocatorio, ben oltre l’uso dell’allegoria e della mostruosa metafora orteghiana[6]: “Alla fine arrivò qualcuno e mi diede un calcio/fino in fondo alla lingua”.
Si percepisce un’”angoscia bloccata” che pervade i versi, un sottotesto che lascia intuire un presagio buio, qualcosa in arrivo (si può pensare, per fare un parallelismo, all’incombente profezia post-umana dei Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello[7]), ma è una impressione suggerita dall’autore senza commozioni o verticalismi linguistici. È la visione onirico-trasformativa delle cose, proposta con un linguaggio piano e succinto (“le minime parole”), che contiene poli opposti, verità contrastanti. A turbare è proprio il fascino sconvolgente di ogni cosa che sta lì, sul ciglio della propria possibile inesistenza.
Una forte tensione emotiva, linguistica, sociale, psicologica si sviluppa sull’atto della parola, come azione originativa, fondativa, liberatoria, ma di una libertà obliqua, in bilico, un’apertura a qualcosa di ignoto che non si può sapere, perché una volta detta una cosa acquisisce valori e pesi specifici autonomi, e può sparire dal nostro immaginario.
Forse in questa scrittura vivace e imprevedibile si può intravedere una vicinanza alla durezza ingegnosamente brusca di certa letteratura anglo-americana del Novecento, nonché alla sprezzatura intellettualistica immersa nel pop della vita che è appartenuta alla Beat Generation, ma è lo specifico contegno letterario-posturale del Nord Europa che esprime, tra questi versi, tutto il fascino di uno sguardo distaccato che, al contempo, è completamente calato nella realtà di cui si fa portavoce, soprattutto quando quella realtà è poco più che una parola “ammonitrice”.
La parola, d’altronde, è una terapia, un rimedio che allevia i dolori dell’esistere, narcotizza e anestetizza, illude e convince, è una porta socchiusa, l’impossibilità di essere l’oggetto che nomina. Accostare il linguaggio medico a quello grammaticale, così come sperimentato dall’autore ne La Farmacia delle parole, è ancora un altro tentativo di ibridazione di lingue, di aree semantiche, di necessità umane.
Abbiamo ancora bisogno di “entrare/nella tintinnante euforia/ della poesia” e dire fino in fondo questo dire che ci mantiene in vita.
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[1] M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, a cura di Alberto Caracciolo, Mursia 2019.
[2] M. Blanchot, La scrittura del disastro, Il Saggiatore, 2021.
[3] https://www.raiplay.it/video/2024/03/Ritratti-di-Poesia-2024—Prima-parte—15032024-72791b72-1f13-4cc8-924a-e9c5981a7a5a.html
[4] https://www.raiplay.it/video/2024/03/Ritratti-di-Poesia-2024—Seconda-parte—15032024-71b3ba48-ded0-4e50-bfb2-03c70f838262.html
[5] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi.
[6] J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, SE, 2016.
[7] G. Ibello, Dialoghi con Amin, con prefazione di Milo De Angelis, Crocetti, 2022.
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