11 aprile 2024

SI DISCUTE ANCORA SULL' OPERA DEL MACHIAVELLI

 


Organizzata da Mario De Caro, Sean Erwin, Yoannis Evrigenis, Gabriele Pedullà e Vickie Sullivan, dal 13 e al 16 dicembre 2023 si è tenuta a Roma la prima conferenza della INTERNATIONAL MACHIAVELLI SOCIETY, chiamata ad aprire i lavori del Congresso Mondiale di Filosofia che nel 2024 è previsto si svolga proprio a Roma. Per l’occasione sono si sono riuniti in Campidoglio e poi alla Università di Roma Tre oltre 120 specialisti del pensatore fiorentino provenienti da tutto il globo (Europa, Stati Uniti, Canada, Messico, Sud America, Cina, Giappone, Corea, Sud Africa, Israele, Australia) per discutere assieme delle ultime novità nella interpretazione di Machiavelli e lanciare la neonata associazione. Per quattro giorni si sono così alternati studiosi appartenenti alle più diverse discipline: italianisti, storici, politologi, giuristi, storici della filosofia, dell’arte e del teatro, teorici e filosofi politici, filologi, ecc. Scopo del convegno e, più in generale, della International Machiavelli Society, è infatti favorire lo scambio tra prospettive spesso anche molto diverse su quello che oggi è l’autore italiano più letto e studiato nel mondo (addirittura più di Dante). Sinonimo della politica (e, per qualcuno, della sua congenita immoralità), Machiavelli costituisce un punto di riferimento ineludibile e offre nutrimento intellettuale alle più svariate tradizioni di pensiero; proprio per questo, tuttavia, quanti traggono ispirazione dalla sua opera troppo spesso faticano a comunicare tra di loro a causa della eterogeneità delle prospettive sulla sua opera. Un ostacolo che, a partire dal convegno di Roma, proprio la International Machiavelli Society si ripromette di contribuire attivamente a rimuovere facilitando lo scambio di idee tra i tanti diversi Machiavelli oggi disponibili nel mondo.

Dopo quello di Francesco Erspamer, pubblichiamo l’intervento di Nadia Urbinati.

Nadia Urbinati

Machiavelli, il conflitto, la democrazia

La rinascita di studi su Machiavelli che anima questa prima conferenza della International Machiavelli Society ci invita a ripensare le divisioni canoniche tra pensatori e tradizioni politiche. Nel suo Machiavelli in Tumult, Gabriele Pedullà situa Machiavelli alle radici di una concezione moderna della politica — “nuova” rispetto sia alla tradizione antica e umanistica, sia alla “modernità” rappresentata da Thomas Hobbes, ovvero alla egemonia della politica come razionalità statuale-giuridica, slegata sia dalla virtù sia dalla costruzione del consenso. La novità generativa di Machiavelli sta nel fatto che egli non colloca il bene della società in una concezione del “bene comune” che esclude la discordia e il disordine.  La sua visione antiaristotelica della politica segna una svolta, nel senso che rende il conflitto costitutivo della politica, della libertà e dell’unità della città – ciò trasforma le idee stesse di libertà politica, di azione dei cittadini associati e di governo misto. All’apparenza, Machiavelli sembra allo stesso tempo simile a e diverso da Hobbes. Infatti, anche Hobbes respinge la concezione aristotelica sulla natura sociale degli esseri umani; tuttavia, mantiene l’idea che la concordia e la pace civile siano le caratteristiche fondamentali del commonwealth. Di importante e rivoluzionario rispetto alle concezioni classica, vi è il fatto che Hobbes edifica la concordia non su una concezione gregaria degli esseri umani, ma su individui dissociati e in radicale conflitto che possono superare (benché mai con assoluta certezza) la loro miserabile condizione stringendo un patto di unità, una soluzione artificiale sigillata da individui uguali nella paura della morte e nella razionalità strumentale. Il patto pone fine alla guerra di tutti contro tutti ponendo fine alla lotta per il potere politico; crea soggetti giuridici di uno Stato assoluto che espelle il conflitto (ma non la competizione economica, che anzi diventa un importante surrogato del conflitto per il potere). Nel leviatano, la politica non è più un affare dei cittadini (che sono dunque sudditi) ma diventa una questione di ingegneria istituzionale con lo scopo di rendere l’uso del potere coercitivo efficace. A questa tradizione si ispira oggi la concezione minimalista della democrazia, che sulla scia di Joseph A. Schumpeter considera l’apatia come un bene politico, un segno e una condizione di stabilità; infatti, i cittadini si mobilitano quando sono insoddisfatti, anche se la loro mobilitazione è spesso frutto di ignoranza, pregiudizio e scarsa informazione: sarebbe quindi bene farli sentire soddisfatti invece di stimolare in loro il bisogno di partecipare. Sappiamo come questo trucco sia molto facile da praticare nelle nostre democrazie consolidate. Machiavelli prese una strada molto diversa, come sappiamo; in sintonia con la tradizione classica, sostenne la funzione stabilizzante della costituzione mista, che però tradusse in un “ordine” istituzionale che sarebbe stato stabile e vincente in proporzione alla sua capacità di registrare gli “umori” antagonisti della società. Come Hobbes, dunque, Machiavelli considerava il rischio di guerra civile e la paura che ne derivava come motori della politica; ma a differenza di Hobbes, non cercò una soluzione definitiva a questi problemi e tanto meno una soluzione che imponesse l’espulsione degli “umori” dalla politica. La politica di Machiavelli conserva la dinamica della paura come caratteristica permanente della politica e non sente il bisogno di spogliare i cittadini della loro capacità di agire pubblico. Potremmo dire che il conflitto politico e la libertà vivono e muoiono insieme.

 

L’idea che vorrei sostenere in mia breve presentazione è che tale concezione così specifica di Machiavelli si riverbera in una parte importante della tradizione liberale e democratica. Gli studiosi di Machiavelli tendono ad accusare il liberalismo di aver avuto un effetto dissolvente sulla teoria del conflitto di Machiavelli, in quanto, nella tradizione di Hobbes, avrebbe trasformato il conflitto politico in una competizione regolata da procedure. Scrive Pedullà che “i liberali hanno tratto da lui [Machiavelli] solo argomenti per promuovere una forma di conflitto regolata dalla legge”.   Potremmo essere d’accordo – ma non è forse vero che perché il conflitto politico svolga un ruolo costruttivo e la libertà politica sia sicura, sono necessari un buon ordine costituzionale e buone procedure? Come ci ha insegnato Norberto Bobbio, le procedure sono sostanza, non semplici linee guida formali, perché creano buone pratiche politiche e attivano l’azione pubblica in maniera coerente. Libertà politica e un buon sistema costituzionale sono in simbiosi.  Proporrò tre esempi di pensatori liberali e democratici che ritengo siano più vicini all’idea di libertà attraverso il conflitto politico di quanto non credano gli studiosi di Machiavelli: Alexis de Tocqueville, John Stuart Mill e Hans Kelsen — il primo per la sua idea di potenza dell’associazione tra cittadini liberi e uguali; il secondo per l’idea di politica come volano di emancipazione; il terzo per aver associato la stabilità della libertà alla regolare espressione del conflitto politico attraverso i partiti.

 

Machiavelli pensava che se i tumulti si presentano in forma di “urla” e “grida” (diremmo oggi libertà di parola e di espressione) da parte del popolo contro i potenti, “tutte le leggi che promuovono la libertà” nascono dalla loro “disunione” e dalla paura (delle élite nei confronti della popolazione larga). Piuttosto che uno Stato centralizzato che induce l’ordine reprimendo l’associazionismo politico e la libera espressione, Machiavelli prevedeva un intervento indiretto, facendo sì che le passioni limitassero le passioni così da trasformare l’inimicizia in un’occasione di auto-disciplina e stabilità. Le buone istituzioni sono come gli argini di un fiume, abbastanza capienti da fermare le piene ma non ostruenti al punto da dissipare l’energia dell’acqua.

 

Gli individui raffigurati da Machiavelli sono abbastanza moderni da capire che i loro interessi e quelli del bene della città sono intrecciati e in tensione permanente, un’idea che qualche secolo dopo Alexis de Tocqueville (il cui incontro con le Storie fiorentine di Machiavelli è stato ricostruito da Melvin Richter qualche tempo fa) ha reso in Democrazia in America come “egoismo ben compreso” e ne ha fatto il motore della moderna società democratica. Come sappiamo, Tocqueville estese e adattò la strategia di moderazione politica di Montesquieu alla democrazia, ma con alcune variazioni rispetto al pluralismo anti-egalitario di Montesquieu che sono importanti. La teoria di Montesquieu secondo cui i corpi intermedi sono essenziali sia per articolare il potere (divisione e pluralismo) sia per ostacolare la sua tendenza a concentrarsi ha acquisito con Tocqueville un tono democratico.

 

Tocqueville pensa all’intermediazione come strategia sia di moderazione che partecipazione, elencando tre tipi di corpi intermedi – la stampa, le associazioni civili e i partiti politici. In relazione alla stampa, Tocqueville sottolineò nella Democrazia in America tre funzioni principali: la dispersione dell’opinione; la sorveglianza; la tendenza del pluralismo delle opinioni a stabilizzare la società non perché esse danno ai cittadini certezza che le loro opinioni siano vere, ma perché le sentono come un loro prodotto, oggetto del loto giudizio. Queste funzioni presuppongono una società articolata in associazioni civili e politiche. Per quanto riguarda le associazioni politiche, Tocqueville le definisce in contrappunto alle associazioni civili. Le associazioni civili uniscono (e dividono) gli individui in base ai loro interessi specifici (il più delle volte, interessi unidimensionali o monotematici); producono una frammentazione “ad infinitum su questioni di dettaglio” che difficilmente possono avere un’applicazione generale. Al contrario, i partiti politici sono associazioni che uniscono (e dividono) i cittadini sulla base delle loro interpretazioni valutative di questioni che sono generali, o di “uguale importanza per tutte le parti del Paese”. I partiti politici interrompono la frammentazione (tendono a unificare) non però imponendo omogeneità o nascondendo le differenze (rendendo l’intera società a immagine e somiglianza di un partito), ma creando nuove forme di disunione che sollevano e interpretano rivendicazioni, attraggono cittadini e conducono campagne elettorali.

 

C’è un aspetto nell’analisi tocquevilliana delle associazioni che ci interessa soprattutto: queste associazioni sono funzionali a una società democratica, cioè fondata sulla volontarietà dell’impegno civile dei singoli cittadini e sulla libertà civile e politica. È quindi l’individualismo che rende le associazioni utili e necessarie: esse danno potere ai cittadini e li preparano a far sentire la loro voce e a condividere il potere politico; in effetti, l’intermediazione ripara alla debolezza che deriva dall’essere individui uguali. In questo scenario, il problema del deficit di potere della democrazia si pone quando i cittadini rimangono isolati o perdono il potere che deriva dall’associarsi.  L’individualismo politico, pur essendo una condizione di base della legittimità democratica, puó deperire il potere politico e generare apatia, mentre l’associazione è una condizione di potere perché una condizione di forza per la contestazione e il potere attraverso la voce.

 

Il secondo autore è Mill.  Ora, tra i critici repubblicani del liberalismo, questo autore è stato forse il più criticato in quanto liberale nella tradizione della libertà negativa berliniana e del costituzionalismo hayekiano, cioè di quella “giuridicizzazione” della politica che espande la dimensione della scelta privata e limita il ruolo della volontà popolare all’atto elettorale, che legge la libertà civile in opposizione alla libertà politica.  Si tratta di un’interpretazione semplicistica ed errata di Mill, non solo perché egli aveva una visione politica della politica, cioè riteneva cruciale il ruolo delle forme extra-istituzionali di partecipazione e conflitto nell’espansione della libertà istituzionale.  Mill pose il conflitto/disaccordo al centro dell’ordine sociale e politico; ad esempio, difese il principio della sindacalizzazione dei lavoratori, il diritto di sciopero e il diritto al lavoro; ed era sinceramente preoccupato delle implicazioni negative che sarebbe venute al valore della libertà dell’etica del cittadino privato o consumatore. Si preoccupava del declino della politica a favore delle agenzie di regolamentazione (burocratizzazione o pedantocrazia, come chiamava quel che oggi descriviamo come tecnocrazia) e confidava nel ruolo del dissenso e dell’associazionismo nella sfera pubblica dell’opinione.

 

Mill aveva una comprensione molto chiara delle forme di partecipazione e di conflitto extra-istituzionali.  Si pensi al suo atteggiamento cauto nei confronti dell’emancipazione femminile.  Aveva finito di scrivere il suo Subjection of Women nel 1861, ma decise di pubblicarlo solo nel 1869. Giustifica questo ritardo con un’argomentazione prudenziale che rivela un approccio effettuale alle idee politiche: secondo lui, nell’Inghilterra del 1861, l’opinione pubblica era ancora troppo ostile all’emancipazione femminile per accogliere le argomentazioni del suo pamphlet la cui pubblicazione avrebbe potuto avere effetti dannosi per la causa emancipazionista. Le cose cambiarono negli anni successivi al 1861, non solo perché Mill stesso fu eletto in Parlamento e portò in aula una proposta sull’estensione del suffragio alle donne (che ottenne un’enorme attenzione da parte della stampa), ma anche perché stava nascendo un movimento suffragista internazionale, con importanti convegni tenuti negli Stati Uniti e petizioni firmate in diversi Paesi. Così, Mill perse la causa in Parlamento, ma la questione del suffragio divenne una componente essenziale del dibattito pubblico che non poteva più essere ignorata. Scegliere il “modo” e il “momento” giusto per l’azione pubblica era un metodo squisitamente machiavelliano.

 

La formazione di Mill era quella di un umanista, basata su una ricca e sofisticata conoscenza della cultura e delle istituzioni greco-romane e della storia politica delle repubbliche umaniste (che conosceva sia attraverso fonti dirette sia, tra le altre, l’opera cardine di Sismonde de Sismondi).  Mill sviluppa un’argomentazione che ci riporta alla teoria di Machiavelli sulla libertà nelle società tumultuose, quando scrive che la grandezza di Firenze non è da attribuire all’acquiescenza dispotica ai Medici, ma alla precedente età repubblicana, quando i conflitti sociali erano incessanti e ancora in grado di fare della politica il terreno della sperimentazione istituzionale e della libertà politica.  Mill condivideva inoltre la denuncia di Machiavelli dell’erosione delle virtù “dei pagani” e capiva che l’espansione di una società di mercato avrebbe generato un aumento del potere giuridico che avrebbe minato la politica, una “pedantocrazia” appunto, che avrebbe sfidato il governo rappresentativo. Come Machiavelli, la sua proposta di cura di buon governo era collegata all’incoraggiamento di atteggiamenti conflittuali e dissenzienti.

 

Per quanto riguarda la teoria della libertà di Mill, dunque, è un peccato che la sua interpretazione sia stata quasi completamente monopolizzata dal paradigma del filone antipolitico del liberalismo.  Né la teoria di Mill può essere concepita senza conflitti, anche se pochi studiosi hanno prestato attenzione alle sue fonti repubblicane (una delle traduzioni italiane di On Liberty uscì nel 1925 per l’editore Piero Gobetti, con l’introduzione di Luigi Einaudi, come documento anti-tirannico contro il fascismo).

Vengo infine a Hans Kelsen, forse l’autore più controverso dei tre “liberali” che propongo di includere sotto l’ombrello della concezione della libertà attraverso il conflitto. A Kelsen dobbiamo l’inclusione dei partiti politici nella teoria del governo; una mossa che ai suoi tempi rivelò una radicale spaccatura tra gli studiosi a seconda che valutassero i partiti dal punto di vista dell’autorità statale o della libertà politica dei cittadini, cioè come mezzo per un fine superiore o invece come mezzo e fine insieme. Questa scissione, che segna drammaticamente la storia del XX secolo, si è sovrapposta al dualismo tra autocrazia e democrazia, che Kelsen ha posto al centro del suo pensiero politico e ha considerato in termini di impatto sui partiti.

 

L’ostilità nei confronti dei partiti non è mai cessata dal XVIII secolo, quando è iniziata l’istituzionalizzazione del governo costituzionale rappresentativo; rivisitare le idee di Kelsen è particolarmente significativo oggi, quando la critica ai partiti si scontra con la rinascita del mito autoritario del Popolo-Uno, a contestare il quale Kelsen ha dedicato gran parte della sua opera.  Per lui, che era un “formalista”, l’ordine costituzionale non doveva avere altro obiettivo che la riproduzione stessa delle condizioni istituzionali della libertà politica. Pertanto, riteneva che il pluralismo, l’uguaglianza giuridica e le libertà individuali fossero norme non negoziabili della democrazia.

Così, Kelsen fa dei partiti l’espressione della libertà e del conflitto politico la condizione della stabilità.  I partiti sono una forma di disunione che impegna i cittadini a definire la direzione politica che vogliono imprimere al governo del paese (“volontà comune”) e, così facendo, stabilizzano lo Stato e rendono sicura la loro libertà politica. Il legame tra democrazia e libertà che i partiti suggellano può essere dimostrato dall’azione delle reazioni dittatoriali, la cui prima mossa è la soppressione del pluralismo dei partiti e della libertà di associazione e di espressione insieme alla “netta separazione, caratteristica della democrazia, tra l’organizzazione dei partiti e l’organizzazione dello Stato”.  Su questo punto cruciale, può essere utile soffermarsi sulla sua distanza da Carl Schmitt.

 

Per Schmitt, la democrazia dei partiti era la conferma del fallimento del progetto di democratizzazione del governo parlamentare, perché se da un lato i partiti erano necessari per organizzare la massa di individui inclusi nel suffragio universale, dall’altro rendevano lo Stato dipendente dalla logica degli interessi e del compromesso; in breve, i partiti rendevano la democrazia pienamente liberale e quindi, secondo Schmitt, impolitica e procedurale.  Il riferimento a Kelsen ci permette di apprezzare la concezione del conflitto politico nella sua interezza e di superare la lettura pregiudiziale, a noi fin troppo familiare, che identifica Schmitt con il massimo teorico del conflitto.  Eppure è proprio in relazione al ruolo dei partiti e al pluralismo partitico che si apprezza quanto Schmitt sia distante dalla democrazia come teoria e pratica della libertà politica e del conflitto. Per riaffermare l’autorità dello Stato, era Schmitt necessario rendere superflui i partiti, separati da una rappresentanza istituzionale che incarnasse la società nel leader, piuttosto che dare voce alle sue parti. Era necessario interrompere ex ante le dinamiche del partitismo con la democrazia plebiscitaria.

 

L’interpretazione di Machiavelli offerta da Schmitt è forse una cartina di tornasole per cogliere il ruolo strumentale del conflitto nella sua teoria della politica. Come sostenuto da Carlo Galli, l’interpretazione di Schmitt di Machiavelli è rimasta esclusivamente quella di un teorico dell’assolutismo e del potere superiore dello Stato, non del conflitto.  Schmitt non aveva una teoria della politica come conflitto perché non aveva una teoria della libertà politica, anche se certamente aveva una teoria della politica come guerra con altri mezzi.

Tocqueville era scettico sull’idea che il voto dei rappresentanti fosse un indice sufficiente di potere politico da parte dei cittadini democratici; l’indirettezza nell’esercizio del potere politico rendeva importante l’intermediazione politica e sociale: sul potere che i cittadini hanno di associarsi e di far sentire le loro richieste si basa gran parte della loro libertà. Mill apprezzava il conflitto, sia extra-istituzionale sia all’interno del parlamento, anche a costo di rischiare la violenza, come scrive in On Liberty: il vero “male formidabile” non è “il conflitto violento tra parti della verità, ma la tranquilla soppressione di metà di essa”.  Il motto di Mill potrebbe essere reso come “meglio l’animosità che l’apatia”, meglio il dissenso che l’indifferenza, come scriveva Gobetti: “qualunque siano i mali della libertà, non possono essere peggiori dei mali della costrizione”. Infine, Kelsen definisce l’obbedienza alla legge in modo da non escludere mai la possibilità del dissenso e propose la democrazia come libertà politica che definisce lo spazio del conflitto.   Questa lotta tra libertà e dominio non si esaurisce mai, nemmeno con una costituzione scritta, eppure può persistere con buone costituzioni e procedure che mentre inibiscono le decisioni definitive, orientano la politica verso una pratica di conflitto e compromesso che mantiene sempre aperto il gioco politico. L’antagonismo tra i cittadini riguardo ai loro interessi e alle loro opinioni è interno alla democrazia, così come lo sono i partiti. Così, la forma della lotta politica segna il carattere di un regime: pluralismo persistente e conflitto tra partiti nel caso della democrazia e superamento del pluralismo e dell’integrismo nel caso dell’autocrazia.

 

Gli autori liberali e democratici che hanno interpretato le istituzioni e le dinamiche politiche dal punto di vista delle garanzie della libertà politica hanno allo stesso tempo inteso la politica come una dimensione eminentemente conflittuale, e in questo senso possono essere collocati a fianco di Machiavelli.  Sarebbe desiderabile emancipare la lettura di queste tradizioni liberali e democratiche dall’egemonia del manicheismo (neo-liberale o anti-liberale), una lettura teologica della politica che tra l’altro ha minato le sorti della democratizzazione nel XX secolo e che può compromettere la capacità dei cittadini di difendere i sistemi democratici.

Lo studio di Machiavelli potrebbe essere un’opportunità per liberare lo studio di queste tradizioni politiche da concrezioni solidificate, non allo scopo di coltivare il sincretismo e l’eclettismo o anche sfumare le differenze, bensì per sfidare concettualizzazioni dogmatiche, che oltretutto non servono al nostro tempo e alla nostra conoscenza storica; infine, non rendono giustizia al pensiero di autori che hanno sviluppato la loro visione della politica nel bel mezzo delle controversie e delle lotte per la libertà politica, delle cause di emancipazione e di democratizzazione, temi e obiettivi che sono oggi non meno importanti e urgenti.


Pezzo ripreso da: https://www.leparoleelecose.it/?p=49085

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