25 aprile 2024

UOMINI E NO

 


Sottoscrivo quanto detto oggi dal Prof. Antonio Di Grado a proposito di antifascismo (fv):


ESSERE  ANTIFASCISTI  OGGI

L’ antifascismo, dunque: un pregiudizio da liquidare o piuttosto una discriminante da mantenere? Ed è in crisi, quel patrimonio di memorie e di valori? Pare di sì, a dar retta a chi predica una sorta di pacificazione, a chi vorrebbe una memoria edulcorata e così, finalmente, “condivisa”. E invece un paese maturo può, forse deve, fare i conti con una memoria divisa.

Non c’è nazione moderna che non sia nata da un cruento rivolgimento, politico o religioso, che l’ha spaccata in due: la Riforma protestante, la guerra civile inglese, la Rivoluzione francese, la guerra di secessione americana; per noi le due grandi occasioni mancate della nostra breve storia: il Risorgimento democratico e la Resistenza antifascista. E non c’è democrazia autentica (ma ce ne sono ancora?) che non si fondi sopra nette scelte di campo, o appassionate professioni di fede. È a questo prezzo che la bandiera abolizionista di Abramo Lincoln, insanguinata da una guerra civile, passò nelle mani inermi di Martin Luther King. Disse un protagonista di quella guerra: «Non ci dev’essere chiesto di dire che non c’era alcuna differenza fra coloro che combatterono per l’Unione e coloro che combatterono contro»; e così dovremmo dire noi agli odierni affossatori della memoria, giornalisti e politici, di destra e di sinistra.

E non ha senso nemmeno una visione troppo lineare – e pacificatrice - del percorso che ha fatto dell’Italia sabauda un’Italia repubblicana. Nella storia, invece, non tutto è positivo, la storia non ha mai conosciuto “magnifiche sorti e progressive”, e tantomeno la storia di un’Italia che già sul nascere aveva visto offuscarsi la sua prima grande occasione, quell’agognata unità nella libertà. In quella storia la Resistenza fu un elemento di rottura, non di continuità: segnò, anzi, una discontinuità radicale nella storia d’Italia. Fu la seconda grande occasione di rinnovamento: disattesa, rinnegata anch’essa sul nascere; e oggi tristemente archiviata, confusa in una indistinta nebulosa assieme a Muzio Scevola e a Pietro Micca. Basta guardarsi intorno, interrogare la gente, come basta a me interrogare i miei allievi, quasi tutti salvo un’élite politicizzata indifferenti o ignari, per accorgersi che nell’ultimo scorcio del secolo scorso si è aperta una cesura, che ha allontanato e appiattito il passato e ha azzerato la memoria.

Antifascismo, dunque, come principio indispensabile. Come la memoria, dolorosamente ma necessariamente “divisa”. È la ferma risposta del commissario partigiano Kim del "Sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino al compagno che insinuava: «Quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa?...». C’era purezza e ferocia, c’era pietà e cieca violenza da una parte e dall’altra, è vero, ma Kim risponde: «la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato». Quel «peso di male», quel «furore antico» che i partigiani sfogano in battaglia, «è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto», ma… «Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra». E così la discriminante è tracciata, a futura memoria. «Da noi – prosegue Kim –, niente va perduto», mentre l’altra «è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori», che «non fanno storia».

Calvino scrive nel ’47, appartiene alla giovane generazione sbocciata col neorealismo, ma già alla fine degli anni ’30 Elio Vittorini, che apparteneva alla generazione precedente, quella del “lungo viaggio attraverso il fascismo”, un viaggio tortuoso e drammatico che da un generico e velleitario ribellismo giovanile, dall’illusione d’un fascismo rivoluzionario e anticapitalista l’aveva condotta alla scoperta della vera natura – dispotica, reazionaria, padronale, normalizzatrice, repressiva – del regime, e a un’inquieta ricerca di nuovi approdi ideologici, nella sua "Conversazione in Sicilia" scopriva che «forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. (…) Un uomo ride e un altro piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato; eppure egli ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che (…) lo vede che ride sui giornali, non va con lui che ride ma semmai piange, nella quiete, con l’altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato».

"Uomini e no" si chiamerà infatti il suo successivo romanzo, quello del ’45 sulla Resistenza a Milano: una antitesi che oggi può apparire manichea, oggi ragioneremmo in maniera più complessa, meno astratta, cercheremmo di capire piuttosto che cosa fa dell’umanità – per dirla con Eco – dell’Ur-fascismo, del fascismo eterno, di quella nebulosa di odio e ignoranza che oggi ci sommerge, quello che è, che è diventata o che forse già era, ma allora quella drastica antinomia, quella discriminante così nettamente divisiva, si imponeva, e non furono certo gli scrittori, gli intellettuali a edulcorarla, a conciliare, a ricomporre.

Semmai Cesare Pavese, nella "Casa in collina", così scriveva: «ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. […] Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. […] Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. […] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».

Occorre “placare” il sangue, anche quello nemico; occorre “perdonare”. Ma attenzione, lo scrive anche Eco, «perdonare non significa dimenticare». La pietas, cristiana o laica che sia, per chi è caduto, per chi ha creduto, per chi si è scommesso in buona fede in una causa sbagliata, non esclude affatto il giudizio, etico e politico, necessariamente inflessibile, non autorizza affatto l’impulso di dimenticare, perché la guerra non è finita, dice anzi Pavese: «Io non credo che possa finire», né la ferita può sanarsi con il balsamo dell’indifferenza, con il lenitivo dell’indistinzione.

"Uomini e no" si chiamerà infatti il suo successivo romanzo, quello del ’45 sulla Resistenza a Milano: una antitesi che oggi può apparire manichea, oggi ragioneremmo in maniera più complessa, meno astratta, cercheremmo di capire piuttosto che cosa fa dell’umanità – per dirla con Eco – dell’Ur-fascismo, del fascismo eterno, di quella nebulosa di odio e ignoranza che oggi ci sommerge, quello che è, che è diventata o che forse già era, ma allora quella drastica antinomia, quella discriminante così nettamente divisiva, si imponeva, e non furono certo gli scrittori, gli intellettuali a edulcorarla, a conciliare, a ricomporre.

Semmai Cesare Pavese, nella "Casa in collina", così scriveva: «ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. […] Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. […] Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. […] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».

Occorre “placare” il sangue, anche quello nemico; occorre “perdonare”. Ma attenzione, lo scrive anche Eco, «perdonare non significa dimenticare». La pietas, cristiana o laica che sia, per chi è caduto, per chi ha creduto, per chi si è scommesso in buona fede in una causa sbagliata, non esclude affatto il giudizio, etico e politico, necessariamente inflessibile, non autorizza affatto l’impulso di dimenticare, perché la guerra non è finita, dice anzi Pavese: «Io non credo che possa finire», né la ferita può sanarsi con il balsamo dell’indifferenza, con il lenitivo dell’indistinzione.

 

ANTONIO  DI  GRADO


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