Sottoscrivo quanto detto oggi dal Prof. Antonio Di Grado a proposito di antifascismo (fv):
ESSERE ANTIFASCISTI OGGI
L’ antifascismo, dunque: un
pregiudizio da liquidare o piuttosto una discriminante da mantenere? Ed è in
crisi, quel patrimonio di memorie e di valori? Pare di sì, a dar retta a chi
predica una sorta di pacificazione, a chi vorrebbe una memoria edulcorata e
così, finalmente, “condivisa”. E invece un paese maturo può, forse deve, fare i
conti con una memoria divisa.
Non c’è nazione moderna che non sia
nata da un cruento rivolgimento, politico o religioso, che l’ha spaccata in
due: la Riforma protestante, la guerra civile inglese, la Rivoluzione francese,
la guerra di secessione americana; per noi le due grandi occasioni mancate
della nostra breve storia: il Risorgimento democratico e la Resistenza
antifascista. E non c’è democrazia autentica (ma ce ne sono ancora?) che non si
fondi sopra nette scelte di campo, o appassionate professioni di fede. È a
questo prezzo che la bandiera abolizionista di Abramo Lincoln, insanguinata da
una guerra civile, passò nelle mani inermi di Martin Luther King. Disse un
protagonista di quella guerra: «Non ci dev’essere chiesto di dire che non c’era
alcuna differenza fra coloro che combatterono per l’Unione e coloro che
combatterono contro»; e così dovremmo dire noi agli odierni affossatori della
memoria, giornalisti e politici, di destra e di sinistra.
E non ha senso nemmeno una visione
troppo lineare – e pacificatrice - del percorso che ha fatto dell’Italia
sabauda un’Italia repubblicana. Nella storia, invece, non tutto è positivo, la
storia non ha mai conosciuto “magnifiche sorti e progressive”, e tantomeno la
storia di un’Italia che già sul nascere aveva visto offuscarsi la sua prima
grande occasione, quell’agognata unità nella libertà. In quella storia la
Resistenza fu un elemento di rottura, non di continuità: segnò, anzi, una
discontinuità radicale nella storia d’Italia. Fu la seconda grande occasione di
rinnovamento: disattesa, rinnegata anch’essa sul nascere; e oggi tristemente
archiviata, confusa in una indistinta nebulosa assieme a Muzio Scevola e a
Pietro Micca. Basta guardarsi intorno, interrogare la gente, come basta a me
interrogare i miei allievi, quasi tutti salvo un’élite politicizzata
indifferenti o ignari, per accorgersi che nell’ultimo scorcio del secolo scorso
si è aperta una cesura, che ha allontanato e appiattito il passato e ha azzerato
la memoria.
Antifascismo, dunque, come
principio indispensabile. Come la memoria, dolorosamente ma necessariamente
“divisa”. È la ferma risposta del commissario partigiano Kim del "Sentiero
dei nidi di ragno" di Italo Calvino al compagno che insinuava: «Quindi, lo
spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa?...». C’era
purezza e ferocia, c’era pietà e cieca violenza da una parte e dall’altra, è
vero, ma Kim risponde: «la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è
nel giusto, là nello sbagliato». Quel «peso di male», quel «furore antico» che
i partigiani sfogano in battaglia, «è lo stesso che fa sparare i fascisti, che
li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto», ma…
«Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del
riscatto, loro dall’altra». E così la discriminante è tracciata, a futura
memoria. «Da noi – prosegue Kim –, niente va perduto», mentre l’altra «è la
parte dei gesti perduti, degli inutili furori», che «non fanno storia».
Calvino scrive nel ’47, appartiene
alla giovane generazione sbocciata col neorealismo, ma già alla fine degli anni
’30 Elio Vittorini, che apparteneva alla generazione precedente, quella del
“lungo viaggio attraverso il fascismo”, un viaggio tortuoso e drammatico che da
un generico e velleitario ribellismo giovanile, dall’illusione d’un fascismo
rivoluzionario e anticapitalista l’aveva condotta alla scoperta della vera
natura – dispotica, reazionaria, padronale, normalizzatrice, repressiva – del
regime, e a un’inquieta ricerca di nuovi approdi ideologici, nella sua
"Conversazione in Sicilia" scopriva che «forse non ogni uomo è uomo;
e non tutto il genere umano è genere umano. (…) Un uomo ride e un altro piange.
Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato; eppure
egli ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che
(…) lo vede che ride sui giornali, non va con lui che ride ma semmai piange,
nella quiete, con l’altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno
perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma
quello soltanto del perseguitato».
"Uomini e no" si chiamerà
infatti il suo successivo romanzo, quello del ’45 sulla Resistenza a Milano:
una antitesi che oggi può apparire manichea, oggi ragioneremmo in maniera più
complessa, meno astratta, cercheremmo di capire piuttosto che cosa fa
dell’umanità – per dirla con Eco – dell’Ur-fascismo, del fascismo eterno, di
quella nebulosa di odio e ignoranza che oggi ci sommerge, quello che è, che è
diventata o che forse già era, ma allora quella drastica antinomia, quella
discriminante così nettamente divisiva, si imponeva, e non furono certo gli
scrittori, gli intellettuali a edulcorarla, a conciliare, a ricomporre.
Semmai Cesare Pavese, nella
"Casa in collina", così scriveva: «ho visto i morti sconosciuti, i
morti repubblicani. […] Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa
simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto
il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare
una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. […] Per questo ogni
guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede
ragione. […] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra,
cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi:
“E dei caduti che facciamo? perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere.
Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno
unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».
Occorre “placare” il sangue, anche
quello nemico; occorre “perdonare”. Ma attenzione, lo scrive anche Eco,
«perdonare non significa dimenticare». La pietas, cristiana o laica che sia,
per chi è caduto, per chi ha creduto, per chi si è scommesso in buona fede in
una causa sbagliata, non esclude affatto il giudizio, etico e politico,
necessariamente inflessibile, non autorizza affatto l’impulso di dimenticare,
perché la guerra non è finita, dice anzi Pavese: «Io non credo che possa
finire», né la ferita può sanarsi con il balsamo dell’indifferenza, con il
lenitivo dell’indistinzione.
"Uomini e no" si chiamerà
infatti il suo successivo romanzo, quello del ’45 sulla Resistenza a Milano:
una antitesi che oggi può apparire manichea, oggi ragioneremmo in maniera più
complessa, meno astratta, cercheremmo di capire piuttosto che cosa fa
dell’umanità – per dirla con Eco – dell’Ur-fascismo, del fascismo eterno, di
quella nebulosa di odio e ignoranza che oggi ci sommerge, quello che è, che è
diventata o che forse già era, ma allora quella drastica antinomia, quella
discriminante così nettamente divisiva, si imponeva, e non furono certo gli
scrittori, gli intellettuali a edulcorarla, a conciliare, a ricomporre.
Semmai Cesare Pavese, nella
"Casa in collina", così scriveva: «ho visto i morti sconosciuti, i
morti repubblicani. […] Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa
simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto
il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare
una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. […] Per questo ogni
guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede
ragione. […] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra,
cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi:
“E dei caduti che facciamo? perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere.
Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno
unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».
Occorre “placare” il sangue, anche
quello nemico; occorre “perdonare”. Ma attenzione, lo scrive anche Eco,
«perdonare non significa dimenticare». La pietas, cristiana o laica che sia,
per chi è caduto, per chi ha creduto, per chi si è scommesso in buona fede in
una causa sbagliata, non esclude affatto il giudizio, etico e politico,
necessariamente inflessibile, non autorizza affatto l’impulso di dimenticare,
perché la guerra non è finita, dice anzi Pavese: «Io non credo che possa
finire», né la ferita può sanarsi con il balsamo dell’indifferenza, con il
lenitivo dell’indistinzione.
ANTONIO DI GRADO
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