[E’ uscito da poco per Carocci Professori di desiderio. Seduzione e rovina nel romanzo
del Novecento, di Valentina Sturli. Pubblichiamo un estratto del
primo capitolo].
SEDUZIONE E ROVINA NEL ROMANZO DEL 900
Valentina Sturli
Ai primi del Duecento si diffonde in Europa una leggenda, quella di
Aristotele cavalcato da Fillide, che avrà fortuna per tutto il Medioevo. Chi
sia Aristotele è ben noto, ed era noto a maggior ragione nel Medioevo: non è un
caso che Dante, senza neanche doverlo nominare, lo chiami «il maestro di color
che sanno» (Inferno iv, 131) e lo metta a guida degli Spiriti
Magni. Aristotele è per antonomasia il più sapiente di tutti. E Fillide chi è?
Qui le versioni divergono: amante, cortigiana, moglie – è una donna legata a un
principe, che in molta parte della tradizione viene identificato con Alessandro
Magno, di cui Aristotele è il maestro. Secondo la storia, Alessandro trascura i
doveri del regno perché innamorato di lei; Aristotele cerca allora di
convincere il discepolo a temperare i suoi ardori, che lo allontanano dalle incombenze
di governante. Alessandro cede, e accetta di diradare gli incontri con la
donna, che architetta una vendetta esemplare: seduce Aristotele, per mostrare
che anche l’anziano sapiente non è immune dalla forza dell’amore.
Nel Lai di Aristotele di Henri d’Andeli, composto verso la
metà del xiii secolo, la scena di seduzione è rappresentata icasticamente: di
prima mattina il dotto è chiuso dentro al suo studio, mentre Fillide è fuori
nel sole, circondata degli elementi riconducibili alla primavera e al più
classico di tutti i topoi, il locus amoenus. Prima
tramite la voce, e poi attraverso la vista, la ragazza riesce a farsi notare.
C’è una finestra che inquadra la scena e funziona da soglia tra spazio chiuso e
aperto, tra ombra e luce, tra sicurezza e ignoto […]. Nel momento in cui la
vista della bella colpisce gli occhi del dotto, come topica amorosa insegna,
non c’è più scampo: Aristotele si affaccia alla finestra, parla con lei. Dopo
un breve e goffo corteggiamento, infiammato di desiderio, le chiede di entrare.
Ma qui assistiamo a un ribaltamento, perché sarà Fillide a dettare le
condizioni. Appena acquisito, mediante la seduzione erotica, il potere di
dirigere i pensieri dell’amante, la donna fa infatti scattare la trappola; dice
al sapiente che accetterà di essere sua solo a patto che lui si lasci bardare e
cavalcare. […] Ma la ragazza ha già avvertito Alessandro di trovarsi a una
certa ora proprio lì: quando Aristotele, accecato di desiderio, accetta di
sottoporsi alla prova degradante per conquistare le grazie di Fillide, scopre
che il suo sovrano lo guarda. Alessandro coglie sul fatto la scena e, a seconda
delle diverse leggende, il tutto ha un esito più o meno comico, misogino o
moralistico: ad ogni modo il maestro, sorpreso con le mani nel sacco, dichiara
di aver fatto bene a mettere il discepolo in guardia contro l’amore e le donne.
Se pure un vecchio sapiente come lui cede alle lusinghe e si degrada a tal
punto, a quali disastri può condurre la potenza delle passioni in un giovane?
Siamo davanti all’ammissione dell’avvenuto rovesciamento delle parti: chi aveva
la presunzione di saper governare le proprie passioni tanto da poter
ammaestrare anche gli altri è caduto miseramente nella trappola delle medesime.
È interessante notare come più di sette secoli dopo, tra fine Ottocento e
Novecento, una serie di narrazioni riprenderà con una certa insistenza questo
stesso tema, ovvero quello di un intellettuale che viene soggiogato suo
malgrado dalla potenza seduttiva di un oggetto del desiderio che lo conduce su
una strada pericolosa e inquietante. Il ventennio che va tra la fine del xix
secolo e l’inizio della Prima guerra mondiale costituisce per la storia europea
un punto di svolta cruciale: in quel giro di anni la fisionomia del mondo
occidentale cambia radicalmente, e non soltanto a livello geo-politico, con il
crollo degli imperi ottomano, russo e austro-ungarico, e la serie di eventi che
innescheranno il primo conflitto mondiale. Tra fine dell’Ottocento e inizio del
Novecento Freud inventa la psicoanalisi, Nietzsche decreta che Dio è morto, la
fisica apre nuove dimensioni della materia. La crisi epistemologica che ne
deriva è foriera di conseguenze epocali, soprattutto per una classe – quella
degli intellettuali – tanto coinvolta in prima linea nella definizione di
questa medesima crisi, quanto incapace di scongiurarne le conseguenze per gli
altri e per sé stessa. E proprio nel primo ventennio del secolo si manifesta
con insistenza nella letteratura europea una costellazione di narrazioni che
rappresentano esponenti della ragione (o supposti tali) che subiscono l’onda
d’urto di un desiderio amoroso che li spinge bruscamente fuori dai consueti
binari della loro vita ordinaria. Sulle tracce di desideri inaspettati e inquietanti,
questi personaggi si trovano all’improvviso, e quasi senza avvedersene, a dover
fare i conti con una realtà che sfugge, si rivela imprendibile e oscura. Ma
soprattutto che resiste ai loro sforzi ermeneutici, li confonde e non si fa più
decifrare.
Il tema non sarà più trattato in modo così leggero e giocoso, non avrà
sempre per protagonisti un uomo anziano e una donna, potrà variare, e
soprattutto potrà avere esiti di volta in volta più o meno tragici, ma nella
storia di Aristotele e Fillide c’è un nucleo semantico che potremmo riassumere
così: un sapiente, incarnazione di un’autorità morale e intellettuale,
investito di una funzione didattica o pedagogica riconosciuta dalla società,
cede al potere attrattivo di un oggetto del desiderio posto più in basso di
lui; questo cedimento innesca un processo di incontro/scontro con l’alterità
che lo conduce alla rovina e al degrado. Nel finale della leggenda medievale,
Aristotele si limita a dare la colpa della sua brutta figura ai guasti che può
produrre l’amore, e contro l’etica stoica, che predica il dominio di sé e
l’esercizio razionale della virtù, è anche troppo evidente la morale cristiana:
è meglio non fidarsi mai troppo della propria presunzione di autocontrollo,
perché il disastro è sempre in agguato quando si tratta dello scatenamento
delle passioni. Solo una vigilanza costante può mettere al riparo da cadute
vertiginose dovute ai sensi, anche quando per età, sapienza, dottrina si
potrebbe avere la tentazione di ritenersi al sicuro.
A voler definire un prototipo del nostro tema, niente funziona meglio di un
romanzo che si imporrà nell’immaginario soprattutto grazie a un fortunatissimo
adattamento cinematografico: Il professor Unrat (1905) di
Heinrich Mann, che costituirà la base per L’Angelo Azzurro (1930)
di Josef von Sternberg. Il titolo del romanzo contiene un gioco di parole, che
anticipa una polarità fondamentale per tutti i nostri testi: da un lato il
professore, che rimanda a una valenza semantica di prestigio; dall’altro Unrat che
significa “rifiuto”. Il senso è qualcosa di simile a “Professor Spazzatura”,
perché il protagonista si chiama Raat, ma è talmente odiato dai suoi allievi da
meritarsi questo nomignolo. Siamo nel Nord della Germania guglielmina, a fine
Ottocento, in una ricca e bigotta cittadina anseatica. Il protagonista è un
arcigno docente di Greco del liceo locale, invecchiato tra le sue scartoffie e
inviso agli allievi per via dell’arbitraria tirannide che esercita. Ben più che
come trasmissione del sapere, intende la sua missione come una lotta per
cogliere in fallo i ragazzi; la sua idea di cultura è quanto di più
nozionistico e ottuso si possa immaginare.
Un giorno Unrat scopre che tre dei suoi allievi più odiati vanno ogni sera
nel camerino di una cantante da avanspettacolo, Rosa Fröhlich, che si esibisce
in un locale del porto, l’Angelo Azzurro, e decide di sorprenderli in
flagrante. La sera stabilita si mette in cammino per le strade della città,
addentrandosi in luoghi che non conosce. Una volta messosi sulle tracce del
vizio, il professore comincia un percorso di smarrimento nello spazio che
prelude a uno morale, con un’associazione semantica che si rivelerà pervasiva
in tutti i testi che analizzeremo. […] L’effetto di Rosa, ancora sconosciuta, è
già quello di trarre Unrat fuori dal binario della sua esistenza; il cronotopo
di un notturno tra vicoli stretti, male illuminati e malfamati, in questo senso
parla chiarissimo. Nel suo peregrinare il professore è sospeso tra sentimenti
contrastanti: si sente perduto e smarrito, ma è anche stranamente eccitato, e
dopo un po’ prende gusto alla caccia. Il momento in cui entra a capofitto nella
bettola, proprio là dove incontrerà Rosa e il suo destino, viene descritto come
il gettarsi dentro un abisso; lo stesso avverrà nel finale del romanzo, quando
la polizia lo va a catturare. Davanti all’Angelo Azzurro Unrat decide di
entrare, e come nel più classico dei contrappassi, chi è andato per
intrappolare sarà intrappolato. […]
Già in questo primo esempio sono evidenti elementi che delimiteranno la
nostra serie e torneranno sistematicamente: la presenza di un intellettuale
(che può essere già più o meno degradato in partenza) che alle prese con
l’alterità radicale di un oggetto del desiderio posto più in basso di lui (che
sia di sesso femminile o maschile poco importa) entra in crisi, dando il via ad
un processo di erranza che spesso ha le caratteristiche di un vero e proprio
vagabondaggio nello spazio, ma che presto si traduce in un percorso di
smarrimento mentale e morale. Ciò conduce a una crisi che può tradursi in
un’evoluzione o nella morte. Naturalmente non sono solo i vecchi filosofi e i
professori bigotti a deragliare per colpa del desiderio amoroso, poiché
l’intera letteratura occidentale si regge sulla rappresentazione dei danni cui
può condurre la perdita di controllo su di sé, in particolar modo quella
dettata dall’istinto amoroso con il suo corollario di possessività e gelosia.
Ma ciò che indagheremo sarà l’ultima declinazione di un tema che viene da
lontano, e che affonda le sue radici nella critica alla presunzione della
razionalità di governare il mondo e le passioni; nei testi novecenteschi gli
esiti saranno quasi sempre infausti, ma al di là del disastro potranno portare
a un faticoso processo di conoscenza di sé da parte di chi credeva,
erroneamente, di avere già tutte le coordinate per orientarsi nel mondo. […] Se
nell’antichità a impedire la caduta erano i valori relativi al codice eroico, e
per l’epoca cristiana la fede in un dio trascendente, tra la fine del
Settecento e l’inizio del secolo successivo, portate a compimento le premesse
della rivoluzione dei Lumi, l’eroe – diventato nel frattempo eroe della ragione
– non potrà più contare che sul suo intelletto per far fronte alle tentazioni
di un’alterità seduttiva e minacciosa. Affrontare il tema che possiamo definire
dell’intellettuale che si degrada per amore significa, dunque, prima di tutto
interessarsi a casi in cui la ragione di matrice kantiana, quella che si fonda
solo su sé stessa e sulla forza morale di chi la possiede, viene messa in
pericolo da tentazioni di tipo erotico-sentimentale. Se si ammette che la
letteratura funzioni come sede di un ritorno del represso di tutte quelle
istanze che in una certa epoca storica sono malviste, ignorate, negate, non
sarà un caso che il nostro tema cominci a manifestarsi con insistenza proprio
tra fine Ottocento e inizio Novecento, in quel particolare momento della storia
culturale occidentale in cui l’ideologia dominante è permeata dal trionfo della
ragione intellettuale, ma anche dai presupposti della sua inesorabile crisi.
Se Kant ha scritto che l’Illuminismo è l’età dell’autonomia di uno spirito
che si è emancipato da una condizione di minorità e sudditanza, di cessione
all’altro della propria autonomia, possiamo ipotizzare che il tema di cui ci
occuperemo racconti il rovescio di questa autonomia, che dovrebbe essere
incarnata per antonomasia dalla figura dell’intellettuale. L’antitesi non sarà
più quella tra fedeltà a oggetti metafisici e tentazione di adorarne altri
terreni e degradati, ma piuttosto tra fedeltà alla ragione critica e alla
propria disciplina di vita, e sottomissione a oggetti che richiedono, almeno in
qualche grado, un’abiura di esse. In questa prospettiva si può affermare che un
certo tipo di polarizzazione semantica, attiva da lunghissima data nella narrativa
occidentale, si è declinata in modi diversi a seconda dei momenti e dei testi.
[…] Nella nostra serie di testi il rapporto con l’alterità si renderà figura di
un rapporto mutato col mondo, e di nuove sfide ermeneutiche a cui gli esponenti
della razionalità e della morale saranno sempre meno in grado di far fronte in
un’età di profondissima crisi. Il problema non sarà costituito tanto dal fatto
che l’oggetto d’amore si rifiuta di riamare chi lo ama, quanto piuttosto che
chi è amato sfugge all’amante sul piano conoscitivo, è opaco, mette in crisi le
facoltà interpretative di chi dovrebbe essere chiamato a esercitarle per
guidare gli altri.
Il campione di romanzi che esamineremo in questa luce non sarà esaustivo,
ma vuole essere in qualche grado emblematico; sono tutti testi molto noti del
canone, e appartengono a un sottoinsieme che potremmo definire
dell’intellettuale che si rovina per amore, che a sua volta fa parte
dell’insieme molto più ampio di testi che parlano del degrado per amore puro e
semplice. Dovendo decidere come trattarli, in un primo tempo si è pensato al
semplice ordine cronologico, che rende bene l’idea dell’arco temporale – quasi
un secolo esatto – in cui si iscrive la nostra indagine: il primo è Senilità di
Italo Svevo, pubblicato nel 1898, l’ultimo è Il contagio di
Walter Siti, del 2008. Ma via via che la stesura del volume procedeva, si è
fatta avanti in chi scrive la convinzione che, pur mantenendo un certo ordine
cronologico che fa sì che testi primo-novecenteschi siano trattati prima di
quelli secondo-novecenteschi, bisognasse almeno in parte sparigliare le carte:
pur rispondendo tutti a un impianto comune, alcuni romanzi rivelavano
particolari affinità con altri. In certi casi l’affinità era scontata, sia per
contiguità cronologica sia per rapporti intercorsi tra gli autori, attivi negli
stessi anni (è il caso paradigmatico di André Gide e di Thomas Mann); altre
volte l’accostamento è favorito dall’appartenenza a una comune tradizione
letteraria, che prevede una filiazione diretta (si veda uno per tutti il rapporto
che sia Un amore di Dino Buzzati sia La noia di
Alberto Moravia, usciti in un brevissimo giro di anni, intrattengono con Senilità).
Ma ci sono anche testi per cui un rapporto di parentela o di influenza diretta
è altamente improbabile: si pensi a coppie come L’odore del
sangue di Goffredo Parise e Follia di Patrick McGrath
che, per quanto distanti, pure presentano delle sorprendenti affinità. Si è
dunque deciso (tranne nel caso di Lolita di Vladimir Nabokov,
snodo talmente centrale e paradigmatico per la nostra costellazione da meritare
una trattazione a sé stante) di procedere analizzando i testi a coppie sulla
base di affinità che saranno di volta in volta discusse, e che possono risultare
illuminanti ben al di là degli steccati tra letterature nazionali e tradizioni
letterarie diverse. Questo nella convinzione che i testi letterari possano a
volte non solo essere i migliori interpreti di sé stessi, ma anche di altri cui
li legano curiose e inaspettate parentele.
René Girard (2009, p. 43) ha scritto che «i romanzi si chiariscono gli uni
per mezzo degli altri e la critica dovrebbe attingere ai romanzi stessi i
propri metodi e persino il senso del suo sforzo»; nell’accostare testi scritti
da autori diversi in epoche non sempre contigue, nel provare a leggerli in
parallelo e in una serie che da fine Ottocento arriva fino ai giorni nostri,
abbiamo provato a far parlare i testi tra di loro, sperando che ci rivelino
qualcosa della trama delicata e complessa che costruiscono del mondo e nel
mondo. Una trama sempre a rovescio, che va disciolta e ricomposta ogni volta
cercando di non fare troppa violenza all’armonia del suo insieme.
[Immagine: Edvard Munch, La separazione].
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