Com’è noto, Italo Calvino ha pubblicato articoli sull’Unità negli anni
tra il 1947 e il 1956. Alcuni di questi sono stati riveduti e corretti
dall’autore e ristampati in Ultimo viene il corvo (1949) e
in Racconti (1956). Qui vengono presentati in versione
originale quelli presenti già nelle due raccolte, ma usciti in un primo tempo
sull’Unità di Torino.
Si tratta di racconti che hanno alcune caratteristiche comuni. I
protagonisti sono in genere dei marginali; lo stile della scrittura mescola un
realismo minuto alla fantasia; una grande attenzione è riservata alla natura e
agli animali; il paesaggio sullo sfondo in molti casi appartiene alla riviera
ligure di Ponente ed è ritratto con estrema precisione naturalistica. Sono
stati aggiunti altri articoli di vario genere: un pezzo sul biologo Lysenko
permette di mostrare quanto fosse profonda l’adesione dello scrittore al
comunismo staliniano del suo tempo; altri articoli sono stati ripresi come
pezzi di bravura letteraria ancor prima che giornalistica: due recensioni (una
per Sartre. L’altra per Primo Levi), il resoconto di una partita di calcio
vista dalla parte della città, il reportage sul set di Riso amaro e La
gran bonaccia delle Antille, uscito nel 1957 su Città aperta; quest’ultimo
è un racconto di tipo allegorico. Ha per oggetto la politica del partito
comunista italiano nel dopoguerra e segna il distacco dello scrittore da quella
esperienza.
La collaborazione di Calvino con l’Unità inizia nel 1946. L’anno dopo lo
scrittore è assunto dalla casa editrice Einaudi dove si occupa dell’ufficio
stampa e pubblicità. Alla fine di aprile 1948 diventa invece redattore
dell’Unità con l’incarico di curare la terza pagina. Nel settembre 1949 c’è il
ritorno all’Einaudi. Si chiude allora una fase della sua attività letteraria.
Stando a ciò che afferma Domenico Scarpa, il 1948, il 1949, il 1950, il 1951
segnano per l’autore una “rarefazione della produzione narrativa”.
Ancora qualche parola sul
rapporto con il paesaggio nei racconti di quel momento aurorale merita di
essere spesa. Quello che nell’opera compiuta appare come un elemento di
contorno è invece primordiale nel processo creativo. Si veda per questo la
prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno (1947): “Il
mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio. (…) Io ero della Riviera di
Ponente; dal paesaggio della mia città – Sanremo – cancellavo polemicamente
tutto il litorale turistico – lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville –
quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per
i torrenti, scansavo i geometrici campi dei garofani, preferivo le ‘fasce’ di
vigna e d’oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m’inoltravo per le
mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi
i castagni, e così ero passato dal mare – sempre visto dall’alto, una striscia
tra due quinte di verde – alle valli tortuose delle Prealpi liguri. – Avevo un
paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse
secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone, a delle storie “.
Infine, bisogna rendere conto della grazia che informa i racconti in
particolare. Italo Calvino è uno scrittore che cambia periodicamente il suo
stile. Due elementi permangono come dati immutabili: il linguaggio e la
motivazione ultima della scrittura. Il linguaggio è limpido e preciso, assai
leggibile. La motivazione ultima della scrittura è il bisogno inesausto di
comprendere e di conoscere il mondo. Altre cose mutano da una fase all’altra
della produzione letteraria. All’inizio prevale un realismo associato a una
modalità fiabesca dell’invenzione. Già questo instaura una atmosfera di incanto
che si perde tra le righe. Il lettore è coinvolto senza sapere bene perché. E
poi c’è il lato rivelatore di un procedimento che serve a superare una
difficoltà nascosta. Calvino in un primo tempo non riesce a rappresentare la
realtà in modo frontale. Anche il riferimento alla sua biografia gli appare
involuto e artificioso. Presto individua una via d’uscita nell’approccio
indiretto al mondo e alle cose. Ed ecco lo scrittore da giovane, o prima
maniera se si preferisce. Una naturalezza leggera, segnata dal distacco e al
tempo stesso da una vicinanza in seconda battuta al senso della vita. Tutto
questo viene chiarito e spiegato dall’autore nella già citata prefazione del
1964 al Sentiero dei nidi di ragno: “ogni volta che si è stati
attori o testimoni d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità
speciale… A me questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come
troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora proprio per non
lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di
petto ma di scorcio. (…) Il Sentiero dei nidi di ragno è nato
da questo senso di nullatenenza assoluta, per metà patita fino allo strazio,
per metà supposta e ostentata. Se un valore riconosco a questo libro è lì:
l’immagine di una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del
“troppo giovane” e l’indigenza degli esclusi e dei reietti”. Ecco il segreto di
una scrittura che lascia intravedere una segreta armonia. Segreta e nascosta.
In questo momento aurorale della sua carriera lo scrittore ritrova l’impulso
epico di altri tempi. In fasi e momenti successivi dell’opera calviniana la
storia e il progresso lasceranno il posto a qualche filo residuo di speranza,
come nelle Città invisibili (1972). Alla fine del
percorso le Lezioni americane, uscite postume (1972), recheranno
un’eco che rimanda a un bilancio dell’intero percorso compiuto dall’opera dello
scrittore. Il primo capitolo del libro avrà per titolo la leggerezza. L’ultimo
ragiona della molteplicità. Su Calvino autore molteplice convergono le analisi
di Domenico Scarpa e Marco Belpoliti, per non parlare delle conclusioni
raggiunte dalla figlia Giovanna.
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