Cambiare il
mondo
14 Aprile 2024
Non c’è molto spazio in questo tempo per ragionare di
cambiare il mondo. Eppure quel desiderio non smette mai di essere alimentato in
tanti modi diversi. Oggi sembrano prevalere tre approcci: è velleitario pensare
di cambiare il mondo, pensa a sopravvivere; il cambiamento è nella lotta dei
subalterni; costruiamo piccole realtà alternative più o meno autosufficienti,
basate sulla condivisione. Nessuno di questi approcci è soddisfacente dentro
l’ordine delle cose contemporaneo, scrive Massimo De Angelis, forse occorra
meticciare il secondo e il terzo, ma è possibile farlo solo se i luoghi “altri”
non sono separati dal mondo ma sono dentro il mondo – nei quartieri, nelle
fabbriche, nelle campagne, negli ospedali, nelle scuole… – e se la creazione di
questi luoghi “altri” (commons) è anche inevitabilmente conflitto
Vi sono oggi tre approcci generali alla questione
“cambiare il mondo”. Il primo: pensa a
sopravvivere, non c’è speranza, il mondo non si può cambiare ed è velleitario
pensarlo. Il secondo: la speranza del cambiamento è nella lotta dei subalterni,
mobilita e fatti mobilitare. Il terzo: la speranza è nella costruzione di
piccole realtà alternative più o meno autosufficienti, basate sulla
condivisione, sulle buone maniere e sui buoni rapporti di vicinato…. se solo
tutti facessero così. Nessuno di questi approcci è soddisfacente dentro
l’ordine delle cose contemporaneo, eppure ognuno ha un suo nocciolo razionale,
comprensibile e condivisibile.
Approccio numero 1. Pensare alla propria sopravvivenza a fronte di guerre competitive economiche o
armate che siano, di fronte ai disastri climatici, di fronte alla persistenza
del razzismo e del patriarcato è imperativo comprensibile nel qui e ora. Ognuno
tenta di sopravvivere come può. Tuttavia se si lascia correre il mondo la sua
corsa così come è, cioè dentro i meccanismi che lo riproducono, le tendenze in
atto rendono la sopravvivenza dei corpi, della salute mentale e del pianeta
come abitabile sempre più difficile, e quasi impossibile da immaginare, e ciò
ci conduce alla proiezione distopica di un futuro immanente alla mad max, cioè
della guerra di tutti contro tutti, o di una società di controllo totale come
quella di Orwelliana memoria (o della coesistenza di entrambi). L’estinzione
della specie umana, a parte i pochi miliardari scappati nello spazio, sta poi
sullo sfondo di queste tendenze. Pensare alla propria sopravvivenza allora va
bene, ma non basta.
Foto di Luca
PerinoFoto di Desinformémonos
Approccio numero 2. La lotta collettiva è la grande
fonte di cambiamento, la lotta che al minimo punta alla
riforma, e al limite punta al rivoluzionamento del modo di operare del mondo.
In effetti, senza lotta dei subalterni, non c’è alcuna possibilità di
cambiamento. Il dominio non affranca i subalterni di sua volontà, senza che
questi ultimi abbiano innalzato sostanzialmente, attraverso la lotta, i costi
dell’inazione per i dominanti. Ma la storia ci ha insegnato non solo che in
questo mondo le lotte si reprimono con la galera e con il sangue, e che prima
di cambiare qualcosa di sostanziale il sangue da versare non è poco. È la
storia di tutte le rivoluzioni. Ci ha anche insegnato che i cambiamenti
concessi dentro l’ordine delle cose di questo mondo, non ne modificano
sostanzialmente il suo operare, al massimo ne ridistribuiscono i costi dentro
la gerarchia salariale dei subalterni che popolano il mondo. Cos’è una
delocalizzazione produttiva, se non un sottrarre ai diritti conquistati di chi
ha una storia industriale di lotta, per dare lavoro (più intenso) e reddito
(inferiore) a chi, da un’altra parte del mondo, ha lottato per gli stessi
diritti ma in condizioni diverse? Cos’è la politica ambientale perseguita al
fine della crescita economica, se non il tentativo di una parte del mondo di
rispondere alle lotte ambientali, a discapito di quella parte del mondo che
vedrà aumentare l’estrattivismo distruttivo di ecologie e di modi di vita
necessari a produrre sempre più materiali necessari alla rivoluzione verde e
alla fine aumentare i gas climalteranti per tutti? Inoltre, la storia del
capitalismo in generale ci mostra come questo ordine delle cose sia stato allo
stesso tempo sempre in cambiamento (anche a fronte dei numerosi movimenti che
lo hanno attraversato) ma senza cambiare nulla di sostanziale, cioè un ordine
delle cose basato sulla crescita infinita in un pianeta limitato, e sulla
riproduzione allargata di gerarchie di condizioni di vita, reddito e potere. La
lotta allora va bene, ma non basta.
Approccio numero 3. A fronte del caos del mondo,
costruiamo commons, cioè luoghi di cooperazione pacifica e non competitiva, conviviali, di condivisione, di ricerca di nuove
relazioni sociali e produttive tra i membri della comunità che li abitano, e di
nuova sensibilità verso la natura non-umana. Luoghi dove si cerca di elevare
sempre più il livello di autosufficienza dal grande mercato, dove le comunità
che li abitano elaborano insieme le regole a seconda di un etica in contrasto
con quella dell’ordine delle cose dominanti. E in effetti, per costruire un
nuovo mondo è proprio necessario mettere delle teste e dei corpi insieme a
cooperare dove si può organizzare la propria sopravvivenza in comune con altri
su altri valori. Se tutti facessero così… Il problema nasce dal fatto che non
tutti possono fare così: mancano l’accesso alla terra, agli edifici, al denaro,
non per carenza di queste ma per la distribuzione iniqua della ricchezza
sociale e per le svariate forme di esclusione. Ma anche quando la possibilità
di mettere insieme le risorse ci sarebbe, mancano spesso forme di immaginario e
di coscienza che riescano a intravedere la plasticità del reale e
l’allargamento degli orizzonti delle possibilità dei soggetti: d’altra parte
cresce la disperazione nel mondo, e il senso di impotenza ad esso collegato.
Inoltre, la prospettiva del piccolo luogo di pace e di comunità si scontra col
fatto che parte dei suoi bisogni – a meno di una completa regressione
tecnologica e di un totale isolamento dal resto del mondo – è espletato dal suo
collegamento col mondo e i suoi prodotti (infrastrutture comunicative,
medicine, materiali, macchine, prodotti culturali) e alle corrispondenti reti
di sfruttamento umano e naturale. Anche il piccolo enclave virtuoso dunque
partecipa alla riproduzione dei vizi del mondo, e se tutti seguissero il suo
esempio, non vi sarebbero più infrastrutture comuni: niente sanità e ospedali,
strade e internet, penne a sfera e libri. Ora, c’è chi desidera un mondo così,
ma non sono tra quelli. Infine, tale approccio dimentica che nel mondo opera
una forza espansiva che si chiama capitale, e che la sua “civiltà” , ha raggiunto
anche le ultime popolazioni sconosciute dell’Amazzonia, e non esiterà, datagli
l’occasione e la motivazione, a depredare delle sue risorse anche l’ultima
enclave comunitaria dei virtuosi.
Allora che dire, ha forse ragione il primo approccio
che non c’è speranza? No, credo invece che occorra meticciare i due ultimi
approcci. Per esempio i commons
dell’approccio 3 non possono sopravvivere senza esercitare nel mondo la propria
influenza e cercare di espandersi e viceversa, senza che le soggettività
moltitudinarie del mondo esercitino la loro influenza sui commons. Questi ultimi
dunque non si possono considerare come enclavi, ma sistemi sociali dai confini
porosi, aperti sul mondo per favorire la nascita di nuove congiunzioni con
altri soggetti, che permette l’espansione, l’evoluzione e la crescita dei
commons stessi. Considerati in questo modo, i commons non sono
più solo luoghi-altri separati dal mondo, ma luoghi-altri che
da dentro il mondo operano nel mondo trasformandolo attraverso la loro
espansione. Dentro il mondo significa dentro le fabbriche, dentro gli ospedali
e i sistemi sanitari, dentro le scuole e le università, i quartieri e le città, e
trasversalmente a tutto ciò. Ma la crescita dei commons si basa sul fatto che
sempre più soggetti partecipino nei commons e sempre più commons si relazionino
tra loro per dar forma a ecologie di commons con cui sostenere sempre i bisogni
collettivi della riproduzione sociale, riducendo così la dipendenza materiale e
dell’immaginario dall’ordine delle cose dominante. Per far questo, in
un mondo dove la ricchezza sociale è accentrata in poche mani, e le regole
degli stati sono sempre più orientate a dare mano libera ai processi
competitivi e di accentramento della ricchezza prodotta ad essa collegata,
nonché a fagocitare la guerra e la distruzione ambientale, i commons non
possono neanche sopravvivere senza la lotta, così come le ragioni
della lotta non troveranno mai attuazione senza commons. Cos’è la lotta
infatti, se non una forma di fare e agire in comune? E i fautori del primo
approccio si mettano il cuore in pace: non ci sarà sopravvivenza di nessuno,
senza sopravvivenza collettiva.
Pezzo ripreso da https://comune-info.net/cambiare-il-mondo/
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