LA POESIA SECONDO PIER PAOLO
PASOLINI
Intervista al
poeta a cura di Achille Millo
" In questo mondo colpevole,
che solo compra e disprezza / il più colpevole son io, inaridito dall'
amarezza."
MILLO. La voce che avete ascoltato è di
Pier Paolo Pasolini, uno dei più significativi personaggi della cultura
militante di oggi. Ma è soprattutto come poeta che lo abbiamo invitato a
partecipare alla nostra trasmissione.
PASOLINI. Come poeta. E' difficile
fare una distinzione di questo genere, perché non soltanto si lavora in poesia,
ma si vive in poesia. Se per poesia s' intende un lavoro specifico, allora va
bene, accetto questa qualifica. Il mio primo lavoro è stato proprio di poeta.
Avevo sette anni e mezzo e mia madre, non so per quale ragione, aveva scritto
un sonetto dedicato a me. Attraverso quel sonetto ho capito improvvisamente che
cosa era la poesia. Ho capito che non era soltanto qualcosa da leggere, ma
anche qualcosa che si poteva scrivere. Due giorni dopo ho scritto anch' io una
poesia. Era rivolta a un usignolo non identificato. C' era della rugiada e l'
usignolo, che era chiamato rosignolo. Questo è stato il mio primo lavoro di
poeta.
MILLO. C' è una poesia di un altro poeta che le ricordi l' infanzia?
PASOLINI. Non è una poesia. E' un frammento dell' Iliade. L' episodio di
Ettore e Andromaca. Ha riempito, con la sua suggestione, tutta la mia infanzia.
E' uno dei brani più belli della letteratura italiana. Mi riferisco,
naturalmente, alla traduzione del Monti. MILLO. Lei ricorda i primi versi?
PASOLINI. Come deserta e torbida è la stanza/ arrestossi alla soglia ed
all' ancelle/ volto il parlar. Porgete il vero ei disse; / Andromaca dov' è?.
Andromaca è una povera donna, mite, fine, che non ha quasi il coraggio di
essere. Una povera donna che sa amare soltanto eroicamente, ed essere madre è
per lei tutto ciò che può dare. La casa è piena delle sue magre membra di
bambina, della sua fatica. Anche di notte, nel sonno, asciutte lacrime coprono
ogni cosa. Una pietà così antica, così tremenda mi stringe il cuore, tanto che
urlerei, mi toglierei la vita.
MILLO. Lei ha scritto romanzi ambientati nelle borgate romane, ha scritto
poesie in friulano; è nato a Bologna. Nelle sue poesie qual è il paesaggio più
presente?
PASOLINI. Ci sono almeno tre
categorie di paesaggi: uno del passato; uno del presente che sta ingiallendo; e
uno del sogno. Il primo è quello friulano. Quando dico paesaggio friulano,
però, non intendo riferirmi soltanto al paesaggio tipico del Friuli, ma a
quello di tutta l' Italia del Nord. E' un paesaggio che torna in tutti i miei
libri di poesia. E' una specie di rimpianto, di nostalgia: le piazzette, le
chiese romaniche, i prati verdi, da una parte i salici e dall' altra i pioppi.
Il paesaggio del presente che sta ingiallendo è quello delle borgate romane: un
paesaggio violento, meridionale, appartenente idealmente all' area del terzo
mondo. E' un paesaggio che ho amato molto venendo a Roma perché, non essendo
romano ma settentrionale, sono venuto a Roma un po' come un turista inglese o
tedesco che scende al Sud. Il paesaggio del sogno, invece, è il paesaggio che
ho scoperto viaggiando: direi l' India, ma soprattutto l' Africa. Ed è il
paesaggio che in questo momento amo di più.
MILLO. Lei ha curato una bellissima
antologia della poesia dialettale italiana. Io sono napoletano e mi piacerebbe
sapere qual è il poeta napoletano che le piace di più.
PASOLINI. Non si può non dire
Salvatore Di Giacomo, ed io lo dico. Però con la possibilità di nominare anche
Ferdinando Russo.
MILLO. Lei considera il cinema come
una continuazione del suo lavoro di poeta? PASOLINI. Non so. Potrei chiederle
chi ci sta ascoltando in questo momento? MILLO. Il pubblico normale degli
ascoltatori della radio.
PASOLINI. Ecco, mettiamo che in questo momento ci stia ascoltando una donna
di casa sola, che sfaccendando ha acceso la radio. La voce della radio risuona
per casa, fuori ci sarà del traffico, forse sente i rosignoli, quelli della mia
prima poesia, che cantano... Voglio dire che, secondo me, la poesia è nella
vita. Io penso che la vita stessa sia un linguaggio, che a volte si esprime in
prosa e a volte in poesia. Ci sono dei momenti della vita che di per sé sono
poetici. Per testimoniarli, noi possediamo una lingua scritta o parlata. Questa
lingua è fatta di simboli. Se io dico donna per indicare quella signora che ci
sta ascoltando, la parola donna è un simbolo. Il cinema, invece, non ha bisogno
di simboli. Se io voglio rappresentare la poesia della donna che ci sta
ascoltando sola a casa sua mentre prepara la cena al marito e ai figli, non ho
bisogno di adoperare la parola donna. Mi basta andare là con la macchina da
presa e riprendere la donna nel suo momento fisico, naturale, quotidiano,
vissuto. Ecco perché ho scelto il cinema. Il cinema mi consente di
rappresentare la realtà con la realtà. Non ho bisogno di mediazioni
linguistiche. Trovo la realtà nella sua bellezza, nella sua poesia così com' è.
In questo senso, quindi, il cinema è un po' la continuazione del mio lavoro di
poeta. Ma la trasformazione tecnica è talmente profonda che non so poi dirle se
è una trasformazione o una rivoluzione.
MILLO. Mi piacerebbe che la nostra
ipotetica massaia, ascoltando questa trasmissione, non si stupisse di fronte
alle cose che stiamo dicendo, ma le trovasse normali e le potesse ascoltare con
lo stesso interesse con il quale può ascoltare una canzone o un romanzo
sceneggiato. PASOLINI. Beh, di questo io dubito. MILLO. Anche io, ma speriamo
di riuscirci.
PASOLINI. Ne dubito molto, e mi fa
piacere dubitarne. Perché, nel momento in cui quella donna sola nella sua casa
avesse un minimo di coscienza e cominciasse ad apprezzare quello che noi le
offriamo come prodotto, già sarebbe meno poetica. Più innocente è quella donna,
più perduta nella sua vita quotidiana nella sua piazzetta nel centro della
città, oppure in mezzo alle campagne in un casolare più è perduta lì in mezzo,
più è poetica. Nel momento in cui apprezza una poesia o una canzonetta di Rita
Pavone, già la poesia comincia a sfumare. Lasciamo quella donna alla sua
innocenza. La gente del popolo accetta la poesia se gli arriva come poesia
vivente. Se lei, Millo, va lì, lei in carne ed ossa, con il suo nome e il suo
cognome, e fa un' azione, fa un sorriso, commette un atto, un' azione che sia
poetica, il popolo la percepisce immediatamente. Se, invece, lei porta la
poesia mediata, letteraria, allora il popolo si rinchiude nella sua innocenza.
La poesia è un fatto di alta cultura, e quindi può arrivare, in quanto poesia
scritta, soltanto a chi non è più popolo, a chi appartiene ad élite, diciamo
così, aristocratiche, dirigenti. Io non sono di quelli che pensano che occorra
portare la poesia al popolo. Semmai penso che il popolo debba arrivare alla
poesia attraverso una serie di operazioni che non sono letterarie, ma sociali.
MILLO. E la poesia popolare? A Napoli, per esempio, ho sentito dei
ragazzini citare versi di Di Giacomo. PASOLINI. Perché Di Giacomo ha scritto
delle canzonette bellissime, alla francese. Se un poeta si pone come
destinatario degli ascoltatori di canzonette e scrive versi per canzonette,
allora il popolo lo accetta. Perché la poesia popolare è un fenomeno endogeno
al popolo.
MILLO. Lei ha mai scritto, parole
per canzoni? PASOLINI. Ho scritto per Laura Betti due canzoni che si intitolano
Il valzer della toppa (Toppa in gergo vuol dire ubriachezza) e Macrì Teresa.
Sembrano due brevi capitoli di Ragazzi di vita, o di Una vita violenta.
MILLO. Lei ha riproposto nel romanzo l' uso del dialetto: l' opera del
Belli deve esserle familiare.
PASOLINI. Sì, molto. E in questa
familiarità è il fondamento di una valutazione critica del Belli. Con la Roma
del Belli mi sono imbattuto ogni giorno durante tutti gli anni Cinquanta. Da
qualche anno le cose stanno cambiando. Per esempio sulla Tiburtina ci sono una
serie di fabbriche. L' uscita degli operai da quelle fabbriche è un episodio
non belliano. A questo punto la familiarità con il Belli è cessata. Fino a quel
punto lì, però, era totale e completa. La psicologia della gente che lavora a
Trastevere o nelle borgate romane o al mattatoio è rimasta quasi tale e quale.
Il Belli mi interessa anche per un fatto stilistico, per il suo uso del
dialetto. Ma mi interessa ancora di più per la meravigliosa capacità di
esprimere la psicologia di un mondo che è assolutamente fuori dalla storia.
Quel suo mondo non appartiene, infatti, né all' area, diciamo così,
operaistica, e neppure al mondo dei poveri visti dalla borghesia, il
sottoproletariato urbano e agricolo, il mondo che noi chiamiamo, con un
linguaggio un po' schizoide sottosviluppato. E' qui che il Belli è più
rivoluzionario del Porta. La gente del popolo che parla in milanese nelle
poesie del Porta, prefigura già la piccola, infima borghesia milanese, mentre i
popolani del Belli sono rimasti tutti d' un pezzo, non sono mutati in niente.
Dio sa, per esempio, quanto ami Leopardi. Eppure devo dire che, secondo me, il
Belli è più grande anche di Leopardi.
MILLO. Ma, Pasolini, quanta gente legge la poesia? I libri di poesia
costano anche molto. Cosa pensa di questo fenomeno? E del fenomeno inverso:
abbiamo visto che nelle edicole dei giornali sono usciti dei libri di poesia a
350 lire, e mi hanno detto che sono arrivati a vendere fino a 200 mila copie.
Questo vuol dire che c' è gente che a 350 lire compra la poesia e la legge.
PASOLINI. Io ho parlato di popolo
perché Lei prima ha usato questa parola, ma è chiaro che in Italia c' è anche
una vastissima piccola borghesia. Credo che i consumatori dei libri di cui lei
mi dice siano dei piccoli borghesi e non degli operai. E poi voglio precisare
questo: nel momento in cui un libro di poesia non esce più in 3mila o in 10mila
esemplari al massimo, ma esce in 200mila copie (come dice lei) diventa un altro
fenomeno: non è più un libro di poesia, ma un libro di poesia appartenente al
fenomeno della comunicazione di massa, che lo trasforma. Tanto che non è più lo
stesso libro, è un' altra cosa.
MILLO. A me è capitato spesso di leggere poesie, soprattutto di Prevert o
di Lorca, in piazza, di fronte a duemila persone. Ho anche tenuto dei recital
nelle fabbriche, per esempio alla Olivetti di Ivrea. E c' è stato un certo
entusiasmo. Come spiega lei questo entusiasmo degli operai per la poesia detta?
PASOLINI. La cosa che più odio a
questo mondo è il moralismo. Però ora devo risponderLe da moralista: lei,
recitando la poesia di fronte agli operai, ha fatto opera di influenza piccolo
borghese sul popolo. Gli operai della Olivetti di Ivrea si sono imborghesiti, è
per questo che hanno applaudito quelle poesie. Hanno perduto ciò che io chiamo
innocenza, ed hanno cominciato a fare propria una cultura che non è la loro: la
cultura del piccolo borghese italiano. Naturalmente mitizzo un po' . Mi prenda
così, come un moralista un po' pazzo.
MILLO. Insomma, la mia idea che quando una poesia è pura può arrivare a
chiunque, non è valida?
PASOLINI. E' valida a patto che non ci siano classi sociali; perché ci sono
culture di classe, ancora. Andiamo verso un periodo in cui questo abisso tra le
classi sociali si sta riempiendo, quindi verrà il momento in cui si parlerà di
comunicazione di massa e basta. Ma la comunicazione di massa trasformerà la
cultura. Può darsi che nella cultura di massa non sia più necessaria la poesia.
MILLO. Lei auspica che questo vuoto venga colmato?
PASOLINI. No, no. Io sono un passatista, un tradizionalista. Non amo
affatto la cultura di massa, non amo il neocapitalismo, e non amo il futuro
dell' umanità di oggi.
MILLO. Dopo quello che ha detto, forse non dovrei più chiederglielo lei
vuole che io legga una Sua poesia per i nostri ascoltatori?
PASOLINI. Lei pensa che io lo consideri inutile, date le argomentazioni
precedenti? MILLO. Sì, direi di sì. PASOLINI. Volendo essere rigoroso con me
stesso, con il mio moralismo, dovrei dirle che è inutile. Accettando che si
legga una mia poesia in questa sede, accetto un compromesso, cioè faccio una
cosa immorale. Ma abbiamo cominciato la trasmissione con delle parole, che sono
queste: In questo mondo colpevole che solo compra e disprezza/ il più colpevole
sono io, inaridito dall' amarezza. Quindi rinuncio ad essere moralista, accetto
di essere colpevole; e lei sa che l' inaridimento dà il senso dell' inutilità
delle cose umane, per cui si accetta tutto.
MILLO. Qual è la poesia che lei
pensa che possa arrivare più immediatamente agli ascoltatori, la più chiara,
quella che lei ama di più?
PASOLINI. Le consiglierei di leggere una poesia che s' intitola Ragazzo
Codignola. Appartiene al volume Poesia in forma di rosa. E' una
lettera che io rivolgo, in versi, a un giovane che mi aveva mandato delle
poesie, uno dei rari giovani che scrivono delle buone poesie, che si
interessano di poesia.
MILLO. Tra questi rari poeti giovani lei conosce qualcuno che sia per lei
veramente una promessa? PASOLINI. Sì. Potrei fare il primo nome che mi viene in
mente in questo momento, anche perché è amico del Codignola cui è rivolta la
poesia, si chiama Giorgio Manacorda.
MILLO. Mi userebbe la cortesia di
leggere lei stesso la poesia Frammento epistolare, al ragazzo Codignola?
PASOLINI. Volentieri. Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci, ma non
aspettarti nulla da questo incontro. Se mai, una nuova delusione, un nuovo
vuoto: di quelli che fanno bene alla dignità narcissica, come un dolore. A
quarant' anni io sono come a diciassette. Frustrati, il quarantenne e il
diciassettenne si possono, certo incontrare, balbettando idee convergenti, su
problemi tra cui si aprono due decenni, un' intera vita, e che pure
apparentemente sono gli stessi. Finché una parola, uscita dalle gole incerte,
inaridita di pianto e voglia d' esser soli ne rivela l' immedicabile disparità.
E, insieme, dovrò pure fare il poeta padre, e allora ripiegherò sull' ironia
che t' imbarazzerà: essendo il quarantenne più allegro e giovane del
diciassettenne, lui, ormai padrone della vita. Oltre a questa apparenza, a
questa parvenza, non ho niente altro da dirti. Sono avaro, quel poco che
possiedo me lo tengo stretto al cuore diabolico. E i due palmi di pelle tra
zigomo e mento, sotto la bocca distorta a furia di sorrisi di timidezza, e l'
occhio che ha perso il suo dolce, come un fico inacidito, ti apparirebbero il
ritratto proprio di quella maturità che ti fa male, maturità non fraterna. A
che può servirti un coetaneo semplicemente intristito nella magrezza che gli divora
la carne? Ciò ch' egli ha dato ha dato, il resto è arida pietà.
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