10 aprile 2024

LA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINI



L' intervista che segue fu concessa da Pasolini ad Achille Millo  nel 1967. Tranne qualche frammento trasmesso dalla terza rete radiofonica, essa è rimasta inedita  per lungo tempo.

LA POESIA SECONDO PIER PAOLO PASOLINI

Intervista al poeta a cura di Achille Millo
 
" In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza / il più colpevole son io, inaridito dall' amarezza."

 MILLO. La voce che avete ascoltato è di Pier Paolo Pasolini, uno dei più significativi personaggi della cultura militante di oggi. Ma è soprattutto come poeta che lo abbiamo invitato a partecipare alla nostra trasmissione.

 PASOLINI. Come poeta. E' difficile fare una distinzione di questo genere, perché non soltanto si lavora in poesia, ma si vive in poesia. Se per poesia s' intende un lavoro specifico, allora va bene, accetto questa qualifica. Il mio primo lavoro è stato proprio di poeta. Avevo sette anni e mezzo e mia madre, non so per quale ragione, aveva scritto un sonetto dedicato a me. Attraverso quel sonetto ho capito improvvisamente che cosa era la poesia. Ho capito che non era soltanto qualcosa da leggere, ma anche qualcosa che si poteva scrivere. Due giorni dopo ho scritto anch' io una poesia. Era rivolta a un usignolo non identificato. C' era della rugiada e l' usignolo, che era chiamato rosignolo. Questo è stato il mio primo lavoro di poeta.

MILLO. C' è una poesia di un altro poeta che le ricordi l' infanzia?

PASOLINI. Non è una poesia. E' un frammento dell' Iliade. L' episodio di Ettore e Andromaca. Ha riempito, con la sua suggestione, tutta la mia infanzia. E' uno dei brani più belli della letteratura italiana. Mi riferisco, naturalmente, alla traduzione del Monti. MILLO. Lei ricorda i primi versi?

PASOLINI. Come deserta e torbida è la stanza/ arrestossi alla soglia ed all' ancelle/ volto il parlar. Porgete il vero ei disse; / Andromaca dov' è?. Andromaca è una povera donna, mite, fine, che non ha quasi il coraggio di essere. Una povera donna che sa amare soltanto eroicamente, ed essere madre è per lei tutto ciò che può dare. La casa è piena delle sue magre membra di bambina, della sua fatica. Anche di notte, nel sonno, asciutte lacrime coprono ogni cosa. Una pietà così antica, così tremenda mi stringe il cuore, tanto che urlerei, mi toglierei la vita.

MILLO. Lei ha scritto romanzi ambientati nelle borgate romane, ha scritto poesie in friulano; è nato a Bologna. Nelle sue poesie qual è il paesaggio più presente?

 PASOLINI. Ci sono almeno tre categorie di paesaggi: uno del passato; uno del presente che sta ingiallendo; e uno del sogno. Il primo è quello friulano. Quando dico paesaggio friulano, però, non intendo riferirmi soltanto al paesaggio tipico del Friuli, ma a quello di tutta l' Italia del Nord. E' un paesaggio che torna in tutti i miei libri di poesia. E' una specie di rimpianto, di nostalgia: le piazzette, le chiese romaniche, i prati verdi, da una parte i salici e dall' altra i pioppi. Il paesaggio del presente che sta ingiallendo è quello delle borgate romane: un paesaggio violento, meridionale, appartenente idealmente all' area del terzo mondo. E' un paesaggio che ho amato molto venendo a Roma perché, non essendo romano ma settentrionale, sono venuto a Roma un po' come un turista inglese o tedesco che scende al Sud. Il paesaggio del sogno, invece, è il paesaggio che ho scoperto viaggiando: direi l' India, ma soprattutto l' Africa. Ed è il paesaggio che in questo momento amo di più.

 MILLO. Lei ha curato una bellissima antologia della poesia dialettale italiana. Io sono napoletano e mi piacerebbe sapere qual è il poeta napoletano che le piace di più.

 PASOLINI. Non si può non dire Salvatore Di Giacomo, ed io lo dico. Però con la possibilità di nominare anche Ferdinando Russo.

 MILLO. Lei considera il cinema come una continuazione del suo lavoro di poeta? PASOLINI. Non so. Potrei chiederle chi ci sta ascoltando in questo momento? MILLO. Il pubblico normale degli ascoltatori della radio.

PASOLINI. Ecco, mettiamo che in questo momento ci stia ascoltando una donna di casa sola, che sfaccendando ha acceso la radio. La voce della radio risuona per casa, fuori ci sarà del traffico, forse sente i rosignoli, quelli della mia prima poesia, che cantano... Voglio dire che, secondo me, la poesia è nella vita. Io penso che la vita stessa sia un linguaggio, che a volte si esprime in prosa e a volte in poesia. Ci sono dei momenti della vita che di per sé sono poetici. Per testimoniarli, noi possediamo una lingua scritta o parlata. Questa lingua è fatta di simboli. Se io dico donna per indicare quella signora che ci sta ascoltando, la parola donna è un simbolo. Il cinema, invece, non ha bisogno di simboli. Se io voglio rappresentare la poesia della donna che ci sta ascoltando sola a casa sua mentre prepara la cena al marito e ai figli, non ho bisogno di adoperare la parola donna. Mi basta andare là con la macchina da presa e riprendere la donna nel suo momento fisico, naturale, quotidiano, vissuto. Ecco perché ho scelto il cinema. Il cinema mi consente di rappresentare la realtà con la realtà. Non ho bisogno di mediazioni linguistiche. Trovo la realtà nella sua bellezza, nella sua poesia così com' è. In questo senso, quindi, il cinema è un po' la continuazione del mio lavoro di poeta. Ma la trasformazione tecnica è talmente profonda che non so poi dirle se è una trasformazione o una rivoluzione.

 MILLO. Mi piacerebbe che la nostra ipotetica massaia, ascoltando questa trasmissione, non si stupisse di fronte alle cose che stiamo dicendo, ma le trovasse normali e le potesse ascoltare con lo stesso interesse con il quale può ascoltare una canzone o un romanzo sceneggiato. PASOLINI. Beh, di questo io dubito. MILLO. Anche io, ma speriamo di riuscirci.

 PASOLINI. Ne dubito molto, e mi fa piacere dubitarne. Perché, nel momento in cui quella donna sola nella sua casa avesse un minimo di coscienza e cominciasse ad apprezzare quello che noi le offriamo come prodotto, già sarebbe meno poetica. Più innocente è quella donna, più perduta nella sua vita quotidiana nella sua piazzetta nel centro della città, oppure in mezzo alle campagne in un casolare più è perduta lì in mezzo, più è poetica. Nel momento in cui apprezza una poesia o una canzonetta di Rita Pavone, già la poesia comincia a sfumare. Lasciamo quella donna alla sua innocenza. La gente del popolo accetta la poesia se gli arriva come poesia vivente. Se lei, Millo, va lì, lei in carne ed ossa, con il suo nome e il suo cognome, e fa un' azione, fa un sorriso, commette un atto, un' azione che sia poetica, il popolo la percepisce immediatamente. Se, invece, lei porta la poesia mediata, letteraria, allora il popolo si rinchiude nella sua innocenza. La poesia è un fatto di alta cultura, e quindi può arrivare, in quanto poesia scritta, soltanto a chi non è più popolo, a chi appartiene ad élite, diciamo così, aristocratiche, dirigenti. Io non sono di quelli che pensano che occorra portare la poesia al popolo. Semmai penso che il popolo debba arrivare alla poesia attraverso una serie di operazioni che non sono letterarie, ma sociali.

MILLO. E la poesia popolare? A Napoli, per esempio, ho sentito dei ragazzini citare versi di Di Giacomo. PASOLINI. Perché Di Giacomo ha scritto delle canzonette bellissime, alla francese. Se un poeta si pone come destinatario degli ascoltatori di canzonette e scrive versi per canzonette, allora il popolo lo accetta. Perché la poesia popolare è un fenomeno endogeno al popolo.

 MILLO. Lei ha mai scritto, parole per canzoni? PASOLINI. Ho scritto per Laura Betti due canzoni che si intitolano Il valzer della toppa (Toppa in gergo vuol dire ubriachezza) e Macrì Teresa. Sembrano due brevi capitoli di Ragazzi di vita, o di Una vita violenta.

MILLO. Lei ha riproposto nel romanzo l' uso del dialetto: l' opera del Belli deve esserle familiare.

 PASOLINI. Sì, molto. E in questa familiarità è il fondamento di una valutazione critica del Belli. Con la Roma del Belli mi sono imbattuto ogni giorno durante tutti gli anni Cinquanta. Da qualche anno le cose stanno cambiando. Per esempio sulla Tiburtina ci sono una serie di fabbriche. L' uscita degli operai da quelle fabbriche è un episodio non belliano. A questo punto la familiarità con il Belli è cessata. Fino a quel punto lì, però, era totale e completa. La psicologia della gente che lavora a Trastevere o nelle borgate romane o al mattatoio è rimasta quasi tale e quale. Il Belli mi interessa anche per un fatto stilistico, per il suo uso del dialetto. Ma mi interessa ancora di più per la meravigliosa capacità di esprimere la psicologia di un mondo che è assolutamente fuori dalla storia. Quel suo mondo non appartiene, infatti, né all' area, diciamo così, operaistica, e neppure al mondo dei poveri visti dalla borghesia, il sottoproletariato urbano e agricolo, il mondo che noi chiamiamo, con un linguaggio un po' schizoide sottosviluppato. E' qui che il Belli è più rivoluzionario del Porta. La gente del popolo che parla in milanese nelle poesie del Porta, prefigura già la piccola, infima borghesia milanese, mentre i popolani del Belli sono rimasti tutti d' un pezzo, non sono mutati in niente. Dio sa, per esempio, quanto ami Leopardi. Eppure devo dire che, secondo me, il Belli è più grande anche di Leopardi.

MILLO. Ma, Pasolini, quanta gente legge la poesia? I libri di poesia costano anche molto. Cosa pensa di questo fenomeno? E del fenomeno inverso: abbiamo visto che nelle edicole dei giornali sono usciti dei libri di poesia a 350 lire, e mi hanno detto che sono arrivati a vendere fino a 200 mila copie. Questo vuol dire che c' è gente che a 350 lire compra la poesia e la legge.

 PASOLINI. Io ho parlato di popolo perché Lei prima ha usato questa parola, ma è chiaro che in Italia c' è anche una vastissima piccola borghesia. Credo che i consumatori dei libri di cui lei mi dice siano dei piccoli borghesi e non degli operai. E poi voglio precisare questo: nel momento in cui un libro di poesia non esce più in 3mila o in 10mila esemplari al massimo, ma esce in 200mila copie (come dice lei) diventa un altro fenomeno: non è più un libro di poesia, ma un libro di poesia appartenente al fenomeno della comunicazione di massa, che lo trasforma. Tanto che non è più lo stesso libro, è un' altra cosa.

MILLO. A me è capitato spesso di leggere poesie, soprattutto di Prevert o di Lorca, in piazza, di fronte a duemila persone. Ho anche tenuto dei recital nelle fabbriche, per esempio alla Olivetti di Ivrea. E c' è stato un certo entusiasmo. Come spiega lei questo entusiasmo degli operai per la poesia detta?

 PASOLINI. La cosa che più odio a questo mondo è il moralismo. Però ora devo risponderLe da moralista: lei, recitando la poesia di fronte agli operai, ha fatto opera di influenza piccolo borghese sul popolo. Gli operai della Olivetti di Ivrea si sono imborghesiti, è per questo che hanno applaudito quelle poesie. Hanno perduto ciò che io chiamo innocenza, ed hanno cominciato a fare propria una cultura che non è la loro: la cultura del piccolo borghese italiano. Naturalmente mitizzo un po' . Mi prenda così, come un moralista un po' pazzo.

MILLO. Insomma, la mia idea che quando una poesia è pura può arrivare a chiunque, non è valida?

PASOLINI. E' valida a patto che non ci siano classi sociali; perché ci sono culture di classe, ancora. Andiamo verso un periodo in cui questo abisso tra le classi sociali si sta riempiendo, quindi verrà il momento in cui si parlerà di comunicazione di massa e basta. Ma la comunicazione di massa trasformerà la cultura. Può darsi che nella cultura di massa non sia più necessaria la poesia.

MILLO. Lei auspica che questo vuoto venga colmato?

PASOLINI. No, no. Io sono un passatista, un tradizionalista. Non amo affatto la cultura di massa, non amo il neocapitalismo, e non amo il futuro dell' umanità di oggi.

MILLO. Dopo quello che ha detto, forse non dovrei più chiederglielo lei vuole che io legga una Sua poesia per i nostri ascoltatori?

PASOLINI. Lei pensa che io lo consideri inutile, date le argomentazioni precedenti? MILLO. Sì, direi di sì. PASOLINI. Volendo essere rigoroso con me stesso, con il mio moralismo, dovrei dirle che è inutile. Accettando che si legga una mia poesia in questa sede, accetto un compromesso, cioè faccio una cosa immorale. Ma abbiamo cominciato la trasmissione con delle parole, che sono queste: In questo mondo colpevole che solo compra e disprezza/ il più colpevole sono io, inaridito dall' amarezza. Quindi rinuncio ad essere moralista, accetto di essere colpevole; e lei sa che l' inaridimento dà il senso dell' inutilità delle cose umane, per cui si accetta tutto.

 MILLO. Qual è la poesia che lei pensa che possa arrivare più immediatamente agli ascoltatori, la più chiara, quella che lei ama di più?

PASOLINI. Le consiglierei di leggere una poesia che s' intitola Ragazzo Codignola. Appartiene al volume Poesia in forma di rosa. E' una lettera che io rivolgo, in versi, a un giovane che mi aveva mandato delle poesie, uno dei rari giovani che scrivono delle buone poesie, che si interessano di poesia.

MILLO. Tra questi rari poeti giovani lei conosce qualcuno che sia per lei veramente una promessa? PASOLINI. Sì. Potrei fare il primo nome che mi viene in mente in questo momento, anche perché è amico del Codignola cui è rivolta la poesia, si chiama Giorgio Manacorda.

 MILLO. Mi userebbe la cortesia di leggere lei stesso la poesia Frammento epistolare, al ragazzo Codignola?

PASOLINI. Volentieri. Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci, ma non aspettarti nulla da questo incontro. Se mai, una nuova delusione, un nuovo vuoto: di quelli che fanno bene alla dignità narcissica, come un dolore. A quarant' anni io sono come a diciassette. Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne si possono, certo incontrare, balbettando idee convergenti, su problemi tra cui si aprono due decenni, un' intera vita, e che pure apparentemente sono gli stessi. Finché una parola, uscita dalle gole incerte, inaridita di pianto e voglia d' esser soli ne rivela l' immedicabile disparità. E, insieme, dovrò pure fare il poeta padre, e allora ripiegherò sull' ironia che t' imbarazzerà: essendo il quarantenne più allegro e giovane del diciassettenne, lui, ormai padrone della vita. Oltre a questa apparenza, a questa parvenza, non ho niente altro da dirti. Sono avaro, quel poco che possiedo me lo tengo stretto al cuore diabolico. E i due palmi di pelle tra zigomo e mento, sotto la bocca distorta a furia di sorrisi di timidezza, e l' occhio che ha perso il suo dolce, come un fico inacidito, ti apparirebbero il ritratto proprio di quella maturità che ti fa male, maturità non fraterna. A che può servirti un coetaneo semplicemente intristito nella magrezza che gli divora la carne? Ciò ch' egli ha dato ha dato, il resto è arida pietà.


 


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