Danilo Dolci, la forza non è violenza
Centenario della nascita
Goffredo Fofi
Devo troppo della mia formazione sociale e politica a Danilo Dolci (1924-1997) per
riuscire forse a parlarne con la necessaria obiettività. Ma è stato certamente uno dei
personaggi italiani – e non solo – più significativi dell’azione sociale, culturale e
pedagogica del secolo scorso per non considerarne con la dovuta serietà le sue
esperienze e le sue idee.
In breve. Figlio di un ferroviere di provincia e nato per caso in Istria, attraversò
fuggendo i due anni della guerra civile e trovò rifugio nella comunità di don Zeno
Saltini, nell’esperienza che possiamo ben dire utopistica di Nomadelfia, da cui si
distaccò per vivere a Trappeto e Partinico, nel Golfo di Castellammare, nella
provincia e nella città di Palermo, nei luoghi più poveri che avesse conosciuto
grazie agli spostamenti di suo padre che a Trappeto era stato capostazione. Fu la
morte per fame di un bambino a decidere della sua vocazione, a ispirare le sue
prime azioni. E i suoi primi scritti, Fare presto e bene perché si muore, vennero
pubblicati – come Non posso tacere di don Zeno, Se questo è un uomo di Primo
Levi, Gli intellettuali e la guerra di Spagna di Aldo Garosci e una raccolta di scritti
di e su i preti operai – dalla piccola iniziativa editoriale De Silva a Firenze. Tra i
primi scritti di Dolci vanno ricordate le poesie raccolte in una antologia di poesia
religiosa italiana contemporanea da Valerio Volpini che, se ben ricordo,
comprendeva anche poesie di Pasolini, che Danilo invitò a seguirlo in Sicilia ma
che gli scrisse che, se l’avesse fatto, gli avrebbe creato problemi per via della sua
omosessualità (lessi questa lettera sincerissima quando Danilo mi chiese di bruciare
tutta la sua vecchia corrispondenza, e di quella e di altre avrei forse dovuto
impossessarmi…).
Dal mondo cattolico Dolci si staccò ben presto, nella difficile situazione siciliana
dove regnava il cardinale Ruffini a Palermo e dove si diceva che il vescovo di
Monreale accogliesse mafiosi ricercati dalla polizia. La banda di Salvatore Giuliano
era stata sconfitta da poco e ricordo con qualche emozione che uno dei primi
compiti che Danilo mi affidò – mi ero diplomato da pochi mesi come maestro
elementare – fu di insegnare a leggere e scrivere a degli ex banditi di Giuliano man
mano che uscivano dal carcere e di fare il doposcuola (ma tanti a scuola non ci
andavano) ai bambini del quartiere miserrimo di Spine Sante a Partinico, dove
Dolci aveva potuto affittare a bassissimo costo in un vicolo una casa a due piani,
vuota da tempo perché la si diceva abitata dagli spiriti. E peraltro in un pozzo alle
nostre spalle vennero ritrovati, rivelati dalla gran puzza, uno o due cadaveri di
vittime di faide mafiose.
Pochissimo tempo dopo il mio arrivò, Dolci organizzò un collettivo sciopero della
fame di centinaia di contadini e pastori sulla spiaggia vicina a Trappeto, per
preparare lo “sciopero a rovescio” di tanti disoccupati che aggiustasse una vecchia
“trazzera”, strada di campagna, alle porte di Partinico. Vi furono decine e decine di
arresti, e poco tempo dopo un processo che suscitò molto clamore. Danilo e i
disoccupati vi vennero difesi da Calamandrei, Battaglia, Comandini, Sorgi e altri
eminenti avvocati di sinistra, alcuni dei quali, palermitani, provenivano dalla storia
del separatismo. Tra i testimoni della difesa vi furono, tra gli altri, Carlo Levi,
Bobbio, Vittorini. Quest’ultimo, ricordo, sosteneva che i metodi di lotta nonviolenti
avrebbero potuto agire efficacemente tra i contadini siciliani, mentre il giovane
Sciascia li giudicava fuori tempo e fuori luogo…
Nel frattempo Dolci era entrato in contatto col nonviolento Capitini, che io conobbi
per suo tramite. Dolci organizzò successivamente alcuni digiuni di una settimana,
suoi e di suoi amici, e lentamente, man mano che il “miracolo economico”
avanzava e che tanti contadini si spostavano al Nord (e io li seguii) reagì ai nuovi
tempi con progetti meno “religiosi” e più concreti, anche con qualche idealizzazione
dei piani di riforma che andò studiando e che man mano, con forte spinta dal basso,
per esempio dopo il disastroso terremoto del Belice, vennero acquisiti dall’alto. La
costruzione della diga di Roccamena, pensava, avrebbe cambiato il volto di molti
Comuni. Alcuni dei vecchi collaboratori se ne distaccarono, a più riprese,
accusandolo di essere un accentratore. Ed egli, senza affatto abbandonare le sue
ostinate speranze, si fece piuttosto educatore che agitatore – e dopo le grandi
inchieste e la raccolta di “storie di vita”, come egli diceva, che venissero “dal
basso” (esemplari quelle di Inchiesta a Palermo, Einaudi 1957, e la bellissima
raccolta dei Racconti siciliani, Einaudi 1971), si dedicò a imprese e pensieri di
pedagogia sociale, e tornò più assiduamente a scrivere versi. Furono autori di
inchieste diverse tra loro nel metodo ma non nello spirito suoi collaboratori come
Franco Alasia (Milano Corea, con Danilo Montaldi; Lorenzo Barbera, I ministri dal
cielo, e io stesso occupandomi degli immigrati meridionali a Torino).
Il “miracolo economico” aveva trasformato il Paese, al Sud con molta lentezza
rispetto al Nord e al Centro, e la mia impressione fu che Danilo – come tanti, per
esempio Pasolini o Bianciardi... – ne fosse in parte travolto, spingendolo verso
riflessioni e pratiche più pedagogiche e morali che di lotta sociale politica. Eppure,
fino all’ultimo, egli organizzò discussioni di base che voleva maieutiche all’interno
di più situazioni comunitarie (Conversazioni, Einaudi 1962) e “marce della pace”
nonviolente, perfino in Sardegna, e continuò, o riprese, a scrivere poesie (si veda
Poesie 1949-1978, Feltrinelli 1969). Personaggio chiave per la storia degli anni 50,
Dolci è stato un ostinato cercatore di strade nuove e rigorosamente “dal basso”, per
la politica e per la pedagogia più sociale, in un Paese che non sempre ha amato
come avrebbe dovuto le novità più profonde e più autenticamente democratiche.
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Il Sole 24 Ore https://www.quotidiano.ilsole24ore.com/sfoglio/aviator.php?newspape...
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