22 aprile 2024

OATES A PEZZI

 


OATES A PEZZI

Dopo aver letto per molti anni Joyce Carol Oates, averla studiata e amata, non si è ancora stanchi, perché offre sempre qualche nuovo spunto, e nuovi elementi di riflessione circa le potenzialità della sua scrittura e della scrittura in generale. Il talento dell’autrice americana è pressoché sconfinato ed è rinnovabile come le fonti di energia di cui avremmo bisogno; si rinnova perché non esaurisce mai il suo impulso, né porta a termine il compito, perché questo quando appare concluso s’apre con nuova spinta propulsiva verso un altro tipo di racconto, se vogliamo, verso il futuro.

Oates da sempre converge su di sé tutto il carico – la rappresentazione, le sfaccettature – della società nordamericana, partendo dalla famiglia, dalle condizioni di quel nucleo intimo – che sia borghese, popolare, ricco o povero – e allargando lo sguardo sullo sfascio, sulla sua inevitabilità, sul dolore, sul declino, rallentato da forme di tenerezza, da qualche tipo d’amore, dal ghiaccio che di colpo si scioglie e muove i personaggi verso la commozione, le lacrime, perfino alla gioia.

Leggendo una raccolta molto ampia di racconti di recente pubblicata da La Tartaruga – Circostanze attenuanti (traduttori Pezzotta, La Peccerella e Spaziani), testi scritti tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta – si può osservare una differente Oates, andando all’indietro. Scoprirla armeggiare con la tecnica narrativa, già densa di talento fin dai primi racconti, di capacità di sguardo che raccoglie tutto e che poi, piano piano, col tempo, con la penna che va sul foglio più pulita, più decisa, diventa sempre più capace di scegliere, di togliere. E non parliamo dell’aggettivo (non soltanto di quello), non parliamo di snellire le descrizioni, migliorare i dialoghi; parliamo innanzitutto di capire, Oates, a un certo punto, lo capisce che eliminare il colpo a sorpresa è una buona idea, e fa a meno del finale a effetto. Perché lei stessa non si sorprende, e le sue lettrici e i suoi lettori sono già sorpresi dalle prime parole.

Lo stupore – o l’incanto, o il miracolo, o il click (quello di cui parla Foster Wallace rimandando alle storie di Barthelme) – esiste già negli incipit, nel modo in cui la prosa si scioglie, nella maniera in cui i personaggi passano dall’essere figure non a fuoco a persone nitide, centrali, e così sono i loro gesti, e così succede agli oggetti. Ciò che ho provato a riassumere qui, lo fa dire Oates stessa a una delle sue protagoniste, nel racconto che si intitola La vendetta del piede, una breve storia che tiene insieme il romanticismo, la gioventù e un pochino di horror. Il personaggio principale, si allontana da una festa, a piedi, è circa mezzanotte, e attraversa gran parte della città, per arrivare a casa del suo amante, un docente più grande di lei, mentre cammina è attraversata da molti pensieri, angosce, la leggiamo così descritta:

Erano passati 48 minuti dopo la mezzanotte quando Elinor girò in Sullivan Street. Fino ad allora era stata invisibile, ma adesso, avvicinandosi alla casa del suo amante – un edificio in arenaria degli anni Venti, approssimativamente restaurato, in una fila di edifici analoghi, in parte restaurati e in parte cadenti – si sentì prendere forma come una Polaroid che si stesse materializzando.

Ecco, così come l’autrice stessa scrive, si materializzano i suoi personaggi, o le case, le macchine e gli oggetti, come Polaroid che si vanno a comporre. Qualcosa è lasciato al nostro intuito, poi tutto emerge, si costituisce, deflagra. I racconti di Circostazte attenuanti hanno questa caratteristica: si svelano a poco a poco. Il nucleo della storia pare essere tenuto inizialmente a margine, bisogna andare avanti, entrare nell’ottica degli attori, sentire come suonano le frasi, e a quel punto – in piena luce – la Polaroid è perfetta, senza sfocature, tra le nostre mani, davanti ai nostri occhi.

Se pensiamo all’evoluzione di una scrittrice, al modo di fare letteratura come un percorso in divenire, pieno si snodi e scelte, un percorso poliedrico – Oates non credo abbia passato più di qualche ora senza scrivere, tra racconti, saggi, romanzi, articoli e poesie -, un campo prima poco più grande di un giardino e poi vasto come una prateria; se pensiamo a tutto questo, allora leggiamo questi racconti come una continua scoperta.

Nei primi testi, Oates è di uno splendore che non ci aspettiamo, quasi grezzo, con finali – soprattutto – che non paiono appartenerle, finali da scuola di racconti, finali con il punto di domanda, finali a sorpresa (come dicevamo all’inizio). Lo splendore però c’è, quello che viene più avanti, nei racconti degli anni Settanta, Ottanta o Novanta, sono la pulizia, e la lucidità e precisione che l’hanno resa una delle più grandi scrittrici americane di tutti i tempi.

La scrittura è cambiata, dunque, i temi, le ossessioni, gli incubi, sono però rimasti gli stessi, e di questo, cara, carissima, Oates, noi ti ringraziamo. È sempre partita dall’oscurità, da un posto buio che è l’infanzia, l’adolescenza, i piccoli sobborghi americani – non ha mai avuto bisogno di New York per dirci come stavano le cose -, le piccole città dove ogni famiglia e ogni casa sono concentrati di fantasmi, di angosce, di paure ancestrali, di delitti del cuore, di squarci e suture. Le famiglie sono l’America, gli adolescenti sono le tracce per indicarne il futuro, e i personaggi più riusciti che ci aiutano a capire meglio il disegno di Oates sono le donne.

Arrivando agli ultimi racconti ci accorgiamo che abbiamo visto – e ne siamo felici – ogni cambiamento della scrittrice che passo dopo passo è diventata pressoché perfetta, sicura come non mai, ma grazie al cielo (o a chi ci pare) non ha mai perso il coraggio della giovinezza, lo spunto rude e fresco delle storie giovanili.

Articolo ripreso da:  https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/oates-a-pezzi/

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