LA POSTURA E L'IMPOSTURA,
LA SCUOLA CHE SI POSTA
di Roberto Contu
La scuola nella rete
Negli anni Novanta, come un Carlino Altoviti qualunque, mi sono trovato già cresciuto difronte al mare, ma il mare non previsto della rete. Ho provato a svuotarlo con il secchiello a 56k dei primi tempi, ho iniziato a bagnarmici i piedi all’epoca dei forum, ho finito per galleggiarci dentro aggrappato alla ciambella che già perdeva di Myspace. Circa dieci anni dopo ho aperto un profilo Facebook. Vinto il trauma della consegna del nome e del cognome al posto del nickname, della foto al posto dell’avatar, ricordo poco dei primi tempi, so per certo che a partire dal 2010, come il resto del mondo, ho iniziato a starci dentro continuamente, non più un’evasione opalescente ma un posto localizzato e abitato. Il web diventava partecipativo, mi sentivo avanti, un early adopter che già pensava 2.0 quando in molti viaggiavano ancora a ipertesti e ppt. Soggetto di comunicazione, mi scoprivo essere media, a distanza di una quarantina d’anni Erving Goffman c’aveva preso, la vita quotidiana mutava davvero in rappresentazione. Ricordo lo stupore da iniziato, ma iniziati lo eravamo tutti, nel sentire il rimbombo nelle prime camere d’eco: questa è l’infosfera, questo è il modello del grafo, questa è la condivisione, sì queste sono le bolle, quella era la bolla che mi si gonfiava tutta intorno, e la mia bolla, beati gli altri, era tutta scolastica. La scuola, la scuola tutta, tutte le insegnanti e gli insegnanti d’Italia, ma pure tutta la folla attorno alla scuola d’Italia me la ritrovavo a un certo punto lì dentro, perché la scuola aveva iniziato a incontrarsi nell’onlife, la scuola aveva iniziato a spostarsi, la scuola già dai primi anni Dieci aveva iniziato tutta a postarsi.
Nella rete
Per quanto mi riguarda, già la scuola nella rete statica era stata una svolta, una bellezza, una piena dopo le secche dei primi anni analogici di carriera, in cui raccattavo notizie e dibattiti unicamente tra libri, riviste di ogni tipo, quotidiani, qualche opuscolo sindacale dimenticato sul tavolo docenti accanto ai registri blu vergati a mano. Ma alla fine degli anni Zero, i muri dell’aula insegnanti iniziavano letteralmente a venire giù, il collegio docenti si moltiplicava enne volte e ben presto sarebbe diventato il collegio docenti d’Italia, d’Europa e del mondo, i corridoi si srotolavano infiniti e si riempivano di incontri uno più bello dell’altro, amicizie nuove, idee, scambio febbrile e vitale come solo la candida rosa dei beati credevo avesse visto prima della comparsa di quella cosa meravigliosa che mi si svelava essere il web 2.0. Se risalgo indietro ai miei primi post di oramai quindici anni fa (passando il pomeriggio a scrollare è possibile farlo, al rischio e pericolo emotivo del ripescare in soffitta lo scatolone del tempo che fu), colgo la timidezza del neofita, qualche piccolo scambio, tanta circospezione, nessun flame. Posso registrare invece una curva crescente di confidenza che sale, spinta da condivisioni sempre più libere di esperienze, spigolature, pensieri sulle mie mattinate a scuola. Insomma, complice anche l’ingresso nella redazione di un blog importante (laletteraturaenoi), nel primo lustro degli anni Dieci, come molti, diventavo di fatto un insegnante che aveva iniziato a postarsi.
Estimità
Nel 2001, Serge Tisseron, passando da Lacan a Bauman, aveva riniziato a parlare di estimità, riportando alla luce l’extimus perduto dei latini al quale era sopravvissuto fino a noi solo l’opposto, ovvero l’intimus, ovvero l’intimità. Vero è che Tisseron in quel caso non poteva riferirsi a ciò che sarebbe avvenuto dieci anni dopo sui social, ma a quanto capitato negli Ottanta, per cui il rendere pubblica la propria intimità, al netto di psicosi e con il solo fine del costruire la «propria faccia» che sempre Goffman aveva predetto, si imponeva come opzione identitaria. Sebbene Tisseron avesse riesumato il termine estimità in riferimento al giorno in cui una donna aveva bellamente rivelato in una trasmissione tv di non avere mai avuto un orgasmo con il marito, è relativamente facile intuire cosa potrebbero avere a che fare Tisseron e l’estimità con il nostro discorso. Fin dai primi tempi nei quali anche io ho iniziato a postarmi come insegnante, e quindi non tanto a condividere le foto dei gatti che non ho o gli spritz d’estate a Montalto di Castro, ho percepito come l’aprire alla rete la porta della mia classe, del tavolo dove studio, delle verifiche dei miei studenti, fosse comunque un transito inedito dall’intimità della funzione educativa a un qualcosa di nuovo e di mai visto: a partire dagli anni Dieci gran parte degli insegnanti, e io con loro, non solo avevamo iniziato a postarci, ma a condividere la propria intimità professionale, che era diventata appunto estimità professionale. Quanto tale snodo sia stato importante, quanto abbia determinato ciò che è avvenuto negli ultimi tre lustri, credo siano domande da non eludere, anche perché ha finito per riguardare non solo gli insegnanti, ma l’intero discorso pubblico sulla scuola.
Nella piazza dell’altrove
Per quanto riguarda l’esperienza personale, mi pare di potere mettere a bilancio pro e contro piuttosto chiari. Anzitutto riconosco le infinite opportunità che tale espansione del mio io-insegnante nella rete ha portato in dote. Ho aumentato a dismisura le occasioni di confronto, ho conosciuto persone che sono finite per diventare tra le più importanti per me, ho avuto modo di frequentare gruppi splendidi (sì, ci sono, sono fatti di insegnanti e si impara molto, si pensa molto), comunità, esperienze che rappresentano una chiave di volta per il mio lavoro di insegnante. La rete ci ha messo nella piazza del mondo e da insegnante non ho potuto che voltarmi ovunque, a volte fino a saturarmi, tra le interazioni che mi si apparecchiavano di continuo. Insomma, un gran bene. Ho colto però presto anche le criticità, del resto inevitabili in ogni frequentazione di nuovi territori. Anzitutto mi è parso chiaro come il gestire l’estimità della proiezione in rete ponesse un problema decisivo sulla possibile deriva narcisistica/vittimistica con la quale anche l’insegnante, così come il mondo tutto che ha allargato il proprio io in rete, dovrebbe fare i conti. Come tutti ho avuto quotidiana esperienza di quanto il mettere in rete una buona prassi, un bel momento scolastico, intervenire in un dibattito o proporlo, o al contrario, il denunciare un problema, un disagio personale, entrare a gamba tesa in una discussione, fossero espressioni di sé perennemente in bilico tra la condivisione utile e democratica e la rincorsa individuale a un proprio posto nel mondo, per ansia di legittimazione e riconoscimento se non di posizionamento. Oltre ciò, in realtà più tardi, ho iniziato a valutare un’altra questione collaterale, altrettanto significativa. Il modo semplice per dirla è l’immagine di un docente che durante un’ora buca è intento sul proprio pc a discutere, postare, commentare, fosse anche la polemica più importante del momento, ma che per farlo soprassiede al fatto che di quella importante polemica non trova il tempo di parlare con il collega che ha difronte sul tavolo, magari dello stesso consiglio di classe, e con il quale potrebbe prendere un caffè per discuterne e poi portare una mozione in collegio docenti. L’eterno altrove della rete, insomma, nel caso della scuola, mi è parso a un certo punto celare il rischio (anzitutto personale) di mettere in crisi la natura politica e collettiva del lavoro dell’insegnante, che si sostanzia nei luoghi fisici della sua presenza: la classe, il consiglio, il dipartimento, il collegio docenti. Di questo ho già scritto, ma mi limito a ridire come, per l’effetto modellizzante progressivo delle bolle che ognuno abita e che a un certo punto vanno configurandosi come il parco ideale dei migliori interlocutori possibili (ma anche dei migliori antagonisti), il rischio che la propria rete digitale di rapporti si configuri non solo come un naturale arricchimento e una verifica continua e circolare dei corridoi reali, dell’aula insegnanti reale, della scuola reale, ma come un mondo preferibile e di certo più corrispondente, sia non proprio peregrino: perché invece la scuola è collettiva e la prima forma della collettività è quella sul posto di lavoro. Riguardo ciò, ricordo la battuta di una collega caustica e piuttosto rigida, che durante un intervallo, mentre io gli raccontavo del post del tale, mi rispondeva, irritandomi ma in realtà interrogandomi: «si va bene, ma io i post sulla scuola scritti durante la mattinata nemmeno li leggo, perché significa che chi scrive non sta in classe o sui corridoi o al limite in aula docenti a studiare. Si scrive di pomeriggio, non di mattina, e solo se hai finito di preparare la lezione per il giorno dopo».
Un discorso inquinato?
Ma con buona pace della mia collega, le espansioni dei singoli io-insegnanti nella rete, sono diventate milioni di milioni, nei fatti una delle fette più grosse dell’intera infosfera, una delle bolle più giganti, il contenitore traboccante del discorso pubblico sulla scuola dove le voci risonanti e riconosciute annaspano nel profluvio infinito delle voci comuni. Veramente se c’è stato un mondo che negli ultimi anni è stato catalizzatore continuo di polemiche, proclami, sentenze, quello è stato la scuola. Assertività delle comunicazioni, polarizzazioni sistematiche, perdita delle posizioni intermedie: siamo oramai sufficientemente in là con l’esperienza per avere tutti bene in mente quali siano le insidie in un dibattito che è continuo, pervasivo e a ogni livello. Per mole credo non si possa dire altrettanto nemmeno di dibattiti della pari importanza come quello sul lavoro, la salute, tanto meno sulla questione ambientale. Forse solo il tema dei diritti ha avuto una esposizione simile a quello della scuola. Personalmente ho sempre ascritto tale foga del nostro tempo al fatto che una società intera che ha finito per perdere tutti i contenitori simbolici e ideologici dell’idea di futuro, abbia naturalmente e più o meno inconsciamente demandato la risposta definitiva sul domani all’unico luogo che, se non altro per il mero dato biologico, parrebbe contenerla, ovvero la scuola. Ma come ha recentemente e bene mostrato in questa rubrica Emanuela Bandini, lo ha fatto incappando nella fallacia più facile, ossia che se è vero che non c’è futuro se non c’è scuola, è anche vero che non c’è scuola se non c’è politica, se non c’è lavoro, se non c’è giustizia sociale. Fatto sta che della scuola hanno parlato e parlano tutti. Parla la politica, parla l’accademia, parlano i comici, parlano pure gli insegnanti che diventano influencer e che fanno veramente venire l’influenza alla scuola, eh sì che avevamo durato fatica a liberarci del morbo di Keating, a capire che la scuola non ha bisogno di eroi proprio perché non è una società autoritaria, bensì di maestri perché è una società democratica. Insomma, parlano davvero tutti, con buona pace dei docenti e delle docenti che qualche volta ammutoliscono e si guardano attorno un po’ spaesati. Tempo fa mi ha colpito il messaggio di una collega che stimo molto, che deponeva le armi in una discussione in rete con queste parole: «non so più che dire, oramai il dibattito sulla scuola è inquinato, ci sarebbe da abbandonare i social in massa, starsene zitti e basta».
La tentazione del silenzio
Il fatto è che mai come oggi è palese come le parole della rete, e in modo particolare le parole della rete pronunciate in posizione risonante, possano insistere sulla realtà in modo talmente performativo da fare impallidire i filosofi del linguaggio e i pragmatici della linguistica di cinquanta anni fa. Penso ad esempio al vero e proprio ecosistema comunicativo del mondo Invalsi, che sedimenta da anni in portato politico (si veda quanto di abnorme sta accadendo in questi giorni, con l’inserimento delle rilevazioni Invalsi nei curricola degli studenti). Penso alle classifiche Eduscopio con le sue interfacce tonde e accattivanti, che al dogma del which is better esibito e strillato sulle prime pagine si fanno strumento di disgregazione sociale. Penso alle tirate unilaterali di esperti e presidenti di fondazioni – un vero e proprio genere letterario – sugli studenti un tanto al chilo sempre più somari, penso ai processi ricorrenti ai veteromodelli della lezione frontale e penso alle reprimenda sulle conoscenze noiose e paludate. Penso anche ai discorsi apodittici sul merito e la valutazione, a quelli sull’innovazione impacchettata nella neolingua e ai presunti luddismi metodologici di chi non si aprirebbe al nuovo. Ma penso anche all’ennesimo convegno sulla scuola dove non è presente un insegnante che sia una o uno nelle plenarie per avere voce e idee in capitolo, se non per «portare la propria esperienza», o «presentare il proprio laboratorio», vizio imbarazzante anche dell’accademia e, pur con qualche positiva eccezione, delle sue società. E chissà se arriverà un giorno in cui, all’ennesimo convegno sulla scuola senza insegnanti, ci ritroveremo a ridere di teacher gap, come avvenne per la locandina diventata virale della giornata nello Utah sulle donne nella matematica. Penso insomma a tutte le liquidazioni della funzione docente a furia di slogan, strilli, dixit, alla facilità in ogni ambito con cui si propongono ricette impacchettate, alla malafede di certe strategie alimentate dalle parole riverberate in rete, alle quali giustamente l’insegnante sfinito finisce con rispondere con la tanto vituperata espressione, ma che forse a molti livelli dovrebbe essere presa in carico più seriamente: «ma voi, cinque minuti, ci siete mai entrati in classe»? Ecco, difronte a tutto questo, veramente la tentazione di starsene zitti e basta è forte, in ultima analisi io credo proprio per la contezza naturale di chi per definizione e da insegnante ha invece a che fare giornalmente con il divenire, la prossimità al dubbio, l’interrogativo, ovvero l’intelligenza praticata che nasce dall’esperienza sul campo.
La piazza è vuota?
Abbiamo iniziato riflettendo sul portato epocale di un quindicennio, quello della presenza nell’infosfera del mondo della scuola, abbiamo insistito sulle opportunità, appena siamo passati dal piano individuale a quello collettivo del discorso pubblico sembrerebbe ritrovarci a un passo dal dire «chiudiamo la piazza dei social, disertiamola in massa». Per non farci mancare niente, ci sarebbe poi il lungo discorso sul convitato di pietra, i nuovi luoghi dove di fatto è stata traslocata gran parte della vita democratica della scuola, ossia contenitori come Meta e X che sono privati, in mano ai privati custodi dell’ultracapitalismo e che quindi ne dispongono nei modi a loro più congeniali (non sarebbe mai troppo ad esempio il riflettere su come la semplice diade mi piace/non mi piace, ideata da un pugno di uomini, abbia così tanto determinato l’identità culturale dell’occidente al livello più profondo della relazione e dei rapporti umani). Oppure reagire in senso opposto, provando a considerare come maturo il tempo in cui certe domande, superata la sbornia dell’apprendistato di questi primi tre lustri, possano essere poste, messe a sistema. Interrogarci per educarci su quanta consapevolezza si ha del mutato panorama, se esiste la possibilità di una nuova ecologia dei nuovi luoghi deputati alla discussione. Interrogarci per educarci su quanto si è disponibili a una comunicazione consapevole, che tenga conto delle inerzie naturali del linguaggio in rete, delle sue possibili degradazioni. Sì, interrogarci per educarci, e forse davvero per aprirci a un tempo nuovo. Continuo personalmente a ritenere che la vita della scuola nella rete, l’allargamento delle nostre identità sul mezzo digitale, come il radicarsi del discorso pubblico al suo interno, siano fenomeni tanto decisivi quanto di vita recente da imporre il dovere etico di respingere istanze apocalittiche da fine di un Eden che non c’è mai stato – e meno male – e di contro su quanto sia necessario essere scuola anche in questo caso, ossia ottimismo della volontà, speranza, tentativo di edificazione continua e quotidiana del migliore dei futuri possibili.
Articolo ripreso da: https://www.leparoleelecose.it/?p=49069
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