12 aprile 2024

UMBERTO ECO E LO SPUTTANAMENTO DELLA SINISTRA




Umberto Eco e lo sputtanamento della sinistra cinquant’anni fa 

Giuseppe Leuzzi 

Una raccolta, la prima di molte altre, di interventi sparsi su settimanali e quotidiani, operata da Eco cinquant’anni fa, nel 1973, “che hanno come tema comune aspetti del costume italiano”, culturale e non – “con qualche sguardo su aspetti del costume internazionale”. In realtà il primo di una serie di testi agguerriti contro la pratica (italiana) del giornalismo, la deriva del giornalismo. Anche di quello allora più titolato, Piero Ottone, che aveva spostato il “Corriere della sera” verso il Pci e insieme, mirabile dictu, verso la “rivoluzione”, appellandosi alla “obiettività”.

 L’obiettività è un tema che Eco riprenderà spesso, da studioso, dei segni e della comunicazione. Ma la ripetitività mostra il suo sincero disagio verso l’Italia della “doppia” verità”, anche se non confessato, non a se stesso - mai una critica a sinistra (alla sinistra politica, per il resto no, ce n’è anche per “i reazionari di sinistra”, quelli che poi diventeranno in Usa i radical chic).
Con conclusioni anche contestabili, se non per la polemica implicita, non detta, contro Ottone, vecchio liberale finto comunista, dovendo fare del “Corriere della sera” il giornale del “compromesso storico” (sostituendo “Paese Sera” come giornale fiancheggiatore, a nessun costo per il Pci): “Il giornalista non ha un dovere di obiettività, ha un dovere di testimonianza”. La critica sui vezzi della sinistra in Italia è però implacabile.  “I modi della moda culturale”, uno dei primi elzeviri della raccolta, apre un filone interminabile. Un po’ gli tiene testa la curiosità, sempre forte in Eco, per il sottobosco della letteratura, le riviste come “Il pungolo verde” di Campobasso o “La disfida” di Corato, per le poetesse che hanno sempre cognomi doppi – mentre i poeti maschi vanno spesso col “De”- De Robertis, De Romanis.
L’informazione sarà stata la passione dominante di Eco, la comunicazione, e il suo principale tema di riflessione e di svago. La prima e più lunga sezione del volume, un terzo delle pagine, “Italia nostra”, gira anch’essa, più che sui “costumi”, sull’informazione, Dall’“Aralado di sant’Antonio” a McLuhan. La stampa agiografica lo alluzza molto, specie la disamina della messaggistica “per grazia ricevuta”, i differenti formulari.
Il tono è contro, ma con juicio salottiero. “Il gioco dell’occupazione” è un editoriale anonimo scritto per “Quindici”, n.11, nel 1968, contro la mania delle “occupazioni”, dopo l’occupazione della Triennale di Milano. Nel numero successivo Sanguineti e Davico Bonino gli rispondono “Vietato vietare”. Eco risponde a sua volta alla contestazione con tredici pagine, “Vietando s’impara” - in cui molto si argomenta con un  avvocato Dominuco, “vecchio anarchico inquieto”, difensore di Cavallero, un gangster pluriassassino, artefice della tecnica che Eco chiama dello “Sputtanamento Globale” – della sinistra, cioè, ma senza dirlo, sempre girandoci intorno.
Il tono prevalente si direbbe semiserio. Mentre “il povero pescasserolese (Coce. N.d.r.) proprio non ne aveva azzeccata una”. O “la ‘Renovatio Diaboli’” operata da Paolo VI, “quel diavolo di un uomo”. Valpreda è il Franci del “Cuore”: anche se non lancia palle di neve, sicuramente “lo metteranno all’Ergastolo”. E “chi sono i grandi reazionari dei nostri giorni? L’ultimo Joyce per esempio”, per via del tempo (della storia) circolare - “con l’altro grande reazionario, Nietzsche, quello che “curvo è il sentiero dell’eternità” e “il Centro è dappertutto”. E analogamente Borges. Ma anche Hegel. “un grande pensatore reazionario”, maestro di tutti i sovversivi. Per non dire di Dante, “grandissimo reazionario se mai ve ne furono”. Insomma, i reazionari in libertà, per parafrasare lo stesso Eco, quando ancora non era filosofo. La noterella “Il pettegolezzo come virtù politica” rivaluta paradossalmente le donne in politica, da cui sono tenute in soggezione per il vetero motivo che la donna è pettegola, e quindi non ha la necessaria riservatezza. C’è già anche, in un lampo, la tecnica dello “Sfruttamento Globale”, quando ancora la globalizzazione era di tipo dichiaratamente imperialista, con le multinazionali angloamericane.
La lettura di questa prima collettanea del poligrafo in fieri Eco si rifà tutto sommato con profitto dopo cinquant’anni. Da profeta nel deserto? Debole? Superficiale? Sbagliato? A volte no. “I mezzi di massa non trasportano ideologia, sono essi stessi ideologia”. Un’arma sensibile. Eco la critica, ma riconosce che “ciò che conta è il bombardamento graduale e uniforme dell’informazione, dove i contenuti diversi si livellano e perdono le loro differenze”. Virtù e vizi non si pareggiano, se non altro perché hanno diversa durata: le virtù possono morire all’improvviso, i vizi si riproducono, infestanti – si direbbero immortali, per la nostra concezione del tempo vivibile.
Un Eco anche eretico, a volta. Nella sezione “L’uomo nero”, sulle destre politiche in Italia, si evoca “il gran reazionario Spinoza”. Spinoza, l’uomo prima che il filosofo della libertà di pensiero? Ma poi per chiarire che, “buono, dolce e perseguitato che fu”, si batteva sì per la libertà, ma “non perché dalla discussione dovesse nascere un mondo diverso”, la rivoluzione. Teorico e pratico del Gruppo 63, l’avanguardia letteraria, mette anche in berlina “l’accademismo del Gruppo 63”. Uno dei pochi a capire all’epoca, 1967, il semiologo canadese Marshall McLuhan, che aveva capito i media, i mezzi d’informazione, prima di internet e dei social: “Come ha suggerito il Professor McLuhan l’informazione non è più uno strumento per produrre beni economici, ma è diventato esso stesso il principale dei beni. La Comunicazione si è trasformata in industria pesante”. Mentre in precedenza, in una satira feroce scritta per “Quindici”, n. 5, 15 ottobre-15 novembre 1967, in forma di recensione di Sedlmayr, “Perdita del centro” (1948) e di McLuhan, “Gli strumenti del comunicare” (qui omessa, ma che riprenderà nella raccolta successiva, “Dalla periferia dell’impero”, lo stronca, come uno che “offre brani da citare per un marxista cinese che voglia mettere sotto accusa la nostra società, e argomenti dimostrativi per un teorico dell’ottimismo neocapitalista” – o è ambigua la semiotica? Poi molto sull’attualità. Il “televisionaro”. Il pettegolezzo come virtù politica… Svaghi intelligenti – sul solco scalfariano all’“Espresso” delle “vacanze intelligenti”.
Evidenze e misteri della ideologia italiana, il sottotitolo della riedizione, non aiuta - ideologia italiana? - l’impianto ironico, scherzoso, dell’Eco minisaggista, diverte ma non aiuta. C’era già una “letteratura” polemica, di interventi brevi e minimi, portata ai fasti, se non inventata da Malaparte con i “Battibecchi”. Eco la pratica con naturalezza. Adattandola al modello avviato da Roland Barthes nel 1957 con le “Mitologie”, la raccolta di divagazioni pubblicate negli anni 1964-1966 sul settimanale “Les Lettres Nouvelles”, il settimanale di Maurice Nadeau. Malaparte e Barthes di cui Eco non fa menzione.
Testi per lo più scritti per “L’Espresso”. Alcuni per “Quindici”, il quindicinale della cosiddetta neo-avanguardia, il Gruppo 63. Con incursioni sul “Giorno”, “Il Manifesto” “Paese Sera”. Testi riuniti per capitoli contenutistici: il Gruppo 63, l’Italia (“Italia Nostra”), la destra, compresi “I reazionari di sinistra”, il kitsch, allora concetto e termine di moda, l’avanguardia letteraria, di cui Eco è stato aedo e becchino – poi. figurarsi, col dumasiano “Il nome della rosa” - e un gruppo più marcatamente rolandbarthesiano, “I segni e i miti”.  


Umberto Eco, Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana,  La Nave di Teseo, pp. 448 € 18


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