Umberto Eco e lo sputtanamento della sinistra
cinquant’anni fa
Giuseppe Leuzzi
Una raccolta, la prima di molte
altre, di interventi sparsi su settimanali e quotidiani, operata da Eco
cinquant’anni fa, nel 1973, “che hanno come tema comune aspetti del costume
italiano”, culturale e non – “con qualche sguardo su aspetti del costume
internazionale”. In realtà il primo di una serie di testi agguerriti contro la
pratica (italiana) del giornalismo, la deriva del giornalismo. Anche di quello
allora più titolato, Piero Ottone, che aveva spostato il “Corriere della sera”
verso il Pci e insieme, mirabile dictu, verso la “rivoluzione”,
appellandosi alla “obiettività”.
L’obiettività è un tema che Eco riprenderà
spesso, da studioso, dei segni e della comunicazione. Ma la ripetitività mostra
il suo sincero disagio verso l’Italia della “doppia” verità”, anche se non
confessato, non a se stesso - mai una critica a sinistra (alla sinistra
politica, per il resto no, ce n’è anche per “i reazionari di sinistra”, quelli
che poi diventeranno in Usa i radical chic).
Con conclusioni anche contestabili, se non per la polemica implicita, non
detta, contro Ottone, vecchio liberale finto comunista, dovendo fare del
“Corriere della sera” il giornale del “compromesso storico” (sostituendo “Paese
Sera” come giornale fiancheggiatore, a nessun costo per il Pci): “Il
giornalista non ha un dovere di obiettività, ha un dovere di testimonianza”. La
critica sui vezzi della sinistra in Italia è però implacabile. “I modi
della moda culturale”, uno dei primi elzeviri della raccolta, apre un filone
interminabile. Un po’ gli tiene testa la curiosità, sempre forte in Eco, per il
sottobosco della letteratura, le riviste come “Il pungolo verde” di Campobasso
o “La disfida” di Corato, per le poetesse che hanno sempre cognomi doppi –
mentre i poeti maschi vanno spesso col “De”- De Robertis, De Romanis.
L’informazione sarà stata la passione dominante di Eco, la comunicazione, e
il suo principale tema di riflessione e di svago. La prima e più lunga sezione
del volume, un terzo delle pagine, “Italia nostra”, gira anch’essa, più che sui
“costumi”, sull’informazione, Dall’“Aralado di sant’Antonio” a McLuhan. La
stampa agiografica lo alluzza molto, specie la disamina della messaggistica
“per grazia ricevuta”, i differenti formulari.
Il tono è contro, ma con juicio salottiero. “Il gioco
dell’occupazione” è un editoriale anonimo scritto per “Quindici”, n.11, nel
1968, contro la mania delle “occupazioni”, dopo l’occupazione della Triennale
di Milano. Nel numero successivo Sanguineti e Davico Bonino gli rispondono
“Vietato vietare”. Eco risponde a sua volta alla contestazione con tredici
pagine, “Vietando s’impara” - in cui molto si argomenta con un avvocato
Dominuco, “vecchio anarchico inquieto”, difensore di Cavallero, un gangster
pluriassassino, artefice della tecnica che Eco chiama dello “Sputtanamento
Globale” – della sinistra, cioè, ma senza dirlo, sempre girandoci intorno.
Il tono prevalente si direbbe semiserio. Mentre “il povero pescasserolese
(Coce. N.d.r.) proprio non ne aveva azzeccata una”. O “la ‘Renovatio Diaboli’”
operata da Paolo VI, “quel diavolo di un uomo”. Valpreda è il Franci del
“Cuore”: anche se non lancia palle di neve, sicuramente “lo metteranno
all’Ergastolo”. E “chi sono i grandi reazionari dei nostri giorni? L’ultimo
Joyce per esempio”, per via del tempo (della storia) circolare - “con l’altro
grande reazionario, Nietzsche, quello che “curvo è il sentiero dell’eternità” e
“il Centro è dappertutto”. E analogamente Borges. Ma anche Hegel. “un grande
pensatore reazionario”, maestro di tutti i sovversivi. Per non dire di Dante,
“grandissimo reazionario se mai ve ne furono”. Insomma, i reazionari in
libertà, per parafrasare lo stesso Eco, quando ancora non era filosofo. La
noterella “Il pettegolezzo come virtù politica” rivaluta paradossalmente le
donne in politica, da cui sono tenute in soggezione per il vetero motivo che la
donna è pettegola, e quindi non ha la necessaria riservatezza. C’è già anche,
in un lampo, la tecnica dello “Sfruttamento Globale”, quando ancora la
globalizzazione era di tipo dichiaratamente imperialista, con le multinazionali
angloamericane.
La lettura di questa prima collettanea del poligrafo in fieri Eco
si rifà tutto sommato con profitto dopo cinquant’anni. Da profeta nel deserto?
Debole? Superficiale? Sbagliato? A volte no. “I mezzi di massa non trasportano
ideologia, sono essi stessi ideologia”. Un’arma sensibile. Eco la critica, ma
riconosce che “ciò che conta è il bombardamento graduale e uniforme
dell’informazione, dove i contenuti diversi si livellano e perdono le loro
differenze”. Virtù e vizi non si pareggiano, se non altro perché hanno diversa
durata: le virtù possono morire all’improvviso, i vizi si riproducono,
infestanti – si direbbero immortali, per la nostra concezione del tempo
vivibile.
Un Eco anche eretico, a volta. Nella sezione “L’uomo nero”, sulle destre
politiche in Italia, si evoca “il gran reazionario Spinoza”. Spinoza, l’uomo
prima che il filosofo della libertà di pensiero? Ma poi per chiarire che,
“buono, dolce e perseguitato che fu”, si batteva sì per la libertà, ma “non
perché dalla discussione dovesse nascere un mondo diverso”, la rivoluzione.
Teorico e pratico del Gruppo 63, l’avanguardia letteraria, mette anche in
berlina “l’accademismo del Gruppo 63”. Uno dei pochi a capire all’epoca, 1967,
il semiologo canadese Marshall McLuhan, che aveva capito i media, i
mezzi d’informazione, prima di internet e dei social: “Come ha
suggerito il Professor McLuhan l’informazione non è più uno strumento per
produrre beni economici, ma è diventato esso stesso il principale dei beni. La
Comunicazione si è trasformata in industria pesante”. Mentre in precedenza, in
una satira feroce scritta per “Quindici”, n. 5, 15 ottobre-15 novembre 1967, in
forma di recensione di Sedlmayr, “Perdita del centro” (1948) e di McLuhan, “Gli
strumenti del comunicare” (qui omessa, ma che riprenderà nella raccolta
successiva, “Dalla periferia dell’impero”, lo stronca, come uno che “offre
brani da citare per un marxista cinese che voglia mettere sotto accusa la
nostra società, e argomenti dimostrativi per un teorico dell’ottimismo
neocapitalista” – o è ambigua la semiotica? Poi molto sull’attualità. Il
“televisionaro”. Il pettegolezzo come virtù politica… Svaghi intelligenti – sul
solco scalfariano all’“Espresso” delle “vacanze intelligenti”.
Evidenze e misteri della ideologia italiana, il sottotitolo della
riedizione, non aiuta - ideologia italiana? - l’impianto ironico, scherzoso,
dell’Eco minisaggista, diverte ma non aiuta. C’era già una “letteratura”
polemica, di interventi brevi e minimi, portata ai fasti, se non inventata da
Malaparte con i “Battibecchi”. Eco la pratica con naturalezza. Adattandola al
modello avviato da Roland Barthes nel 1957 con le “Mitologie”, la raccolta di
divagazioni pubblicate negli anni 1964-1966 sul settimanale “Les Lettres
Nouvelles”, il settimanale di Maurice Nadeau. Malaparte e Barthes di cui Eco
non fa menzione.
Testi per lo più scritti per “L’Espresso”. Alcuni per “Quindici”, il
quindicinale della cosiddetta neo-avanguardia, il Gruppo 63. Con incursioni sul
“Giorno”, “Il Manifesto” “Paese Sera”. Testi riuniti per capitoli
contenutistici: il Gruppo 63, l’Italia (“Italia Nostra”), la destra, compresi
“I reazionari di sinistra”, il kitsch, allora concetto e termine di
moda, l’avanguardia letteraria, di cui Eco è stato aedo e becchino – poi.
figurarsi, col dumasiano “Il nome della rosa” - e un gruppo più marcatamente
rolandbarthesiano, “I segni e i miti”.
Umberto Eco, Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana, La Nave di Teseo, pp. 448 € 18
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