19 aprile 2024

UN RICORDO DI EDUARDO GALEANO





Una milonga per Eduardo Galeano

di Fabio Stassi

Montevideo è un balcone triste, un pianoforte di ciliegio nero, una città di doppi fondi segreti e di segrete lacerazioni. Così l’ho sempre immaginata attraverso i racconti di mia nonna, e quelli di Felisberto Hernandez o di Mario Benedetti. Così la immagino ora, alla notizia della morte di Eduardo Galeano, mentre mi risale alla coscienza il verso di una canzone di Vinicius de Moraes: “Lascia la lampada accesa, se un giorno la tristezza vorrà entrare”.
Stasera Montevideo è la lampada accesa della stanza 503 del sanatorio 2 del Casmu, il Centro de Asistencia del Sindicato Médico del Uruguay, dove Eduardo Galeano era ricoverato da una settimana, nel barrio della Blanqueada in Avenida 8 de octobru. L’ospedale non è distante dall’Avenida General Garibaldi e dal Gran Parque Central, lo stadio della squadra di cui Galeano era tifoso sin da ragazzo, il Club Nacional de Footbal.
Era nato in quella città nel 1940 e aveva avuto una geografia del sangue mista e desterrada: gallese, tedesca, spagnola e italiana. Ma per scrivere aveva scelto il nome della madre. Il cancro lo aveva colpito ai polmoni. Un primo intervento nel febbraio del 2007, e dopo il consueto e feroce tariffario della malattia: gli esami, le terapie, le altre operazioni.
Diceva di avere appreso l’arte di narrare nei vecchi caffè di Montevideo, e che la sua università erano stati quei posti allagati da una luce così forte da ingiallire i sorrisi alle donne e da ombre tanto estese e nette da tracciare la mappa e i contorni della nostra locura. Per uno come lui, la memoria era una bettola straripante di voci, di amici e di musica. Una lanterna degli affogati, dove ogni ricordo è il soffio di una diceria. La sua adolescenza e giovinezza di operaio e portalettere, cassiere di banca e pittore di insegne, dattilografo e imbianchino. Un fumetto politico venduto a 14 anni all’organo del Partito Socialista uruguayano. E poi le prime avventure di cronista, i giornali fondati e diretti, le collaborazioni. L’idea di tentare una grande angiografia letteraria di un continente e di chiamarla Le vene aperte dell’America Latina. E subito dopo la censura, il carcere, le fughe. Da una dittatura all’altra. La condanna degli ” escuadrón de la muerte” di Videla e il riparo in Spagna. E il tiro di dadi di un’altra impresa, ancora più spericolata e gigantesca: racchiudere in tre libri La memoria del fuoco e comporre così gli annali del Nuovo Mondo, dalla creazione e la scoperta fino al secolo del vento e al suo definitivo ritorno a Montevideo nel 1985. Senza nessuna pretesa di neutralità. Perché la storia non è neutrale, e Galeano lo ha sempre saputo e sempre ha preso partito, e raccontato ogni cosa a modo suo, dal massacro di Tlatelolco del 1521 a quello degli studenti di Città del Messico nel 1968, consumatosi nello stesso posto. Sacrilegi, profezie, colonie e rivoluzioni, guerre di corsa e colpi di tacco, perdite e riconquiste. La spoliazione e lo scialo. Il fiato e la dignità.
Da allora, ogni libro fu per lui la fine di un esilio. Si consacrò alla brevità come Borges, lo scrittore dell’altro lato del mar del Plata, ma dilatandola a dismisura fino a gareggiare in estensione e fiato con il romanzo, la storiografia, la saggistica e le opere degli antichi. La sua scrittura, senza mai smettere di essere denuncia e affrancamento, divenne almanacco, diario, cronaca, scatto fotografico e aneddoto, paradosso e capriola, libro degli abbracci e labbra del tempo, specchio, splendori e miserie di un gioco e di un’intera epoca e inesausto esercizio di speranza e di lucidità.
Aveva lo sguardo oceanico puntato sempre contro l’orizzonte dell’utopia.
Per tutto questo, stasera, terrò una lampada accesa sul tavolo, a migliaia di chilometri dalla luce della sua stanza in un sanatorio di Montevideo, lasciando entrare la tristezza e respirando a pieni polmoni le tante parole che ha scritto e che ora sono l’ultima rimessa della sua voce. Tenendo bene a mente, come diceva lui, che il verbo ricordare viene dal latino re-cordis, e significa ripassare dalle parti del cuore.

da  http://www.minimaetmoralia.it/

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