31 maggio 2024

IL TOUR MILITANTE DI FERDINANDO TRICARICO

 

Il grand tour militante di Ferdinando Tricarico

di Daniele Ventre

Usi ordinari di un linguaggio straordinario: il Grand Tour  militante di Ferdinando Tricarico

Nel quinquennio culmine delle neo-destre globali, delle sinistre “destreggianti” e delle ritornate pesti-guerre-carestie, in tempi di neo-strapaese, strapaesologie, consolazioni, orientamenti, orientazioni, consolamenti, di lockdown e di poeti e poetiche mobile-friendly, la  poesia militante di Ferdinando Tricarico è stata uno dei pochi autentici compagni di viaggio, una delle poche forme espressive del panorama nazionale in cui il lettore di versi meno hypocrite abbia potuto ascoltare un richiamo davvero fraterno, e godere di una vera e propria boccata d’aria fresca, nel quadro generale di malmostosa stagnazione, incastellato infeudamento e irrigidimento para-dogmatico delle troppe cittadelle sub-micenee in cui si parcellizzano le provincie critico-letterarie nostrane.

In uno dei frutti più vivaci della poetica di Tricarico, nella raccolta Grand Tour, uscita per i tipi di Zona, nel 2019, con postfazione di Guido Caserza, l’evoluzione di un poeta militante che di fatto si configura come un vero e proprio caposcuola, per l’ambito non solo campano, ha segnato un momento cruciale. A ormai cinque anni di distanza dalla nascita di questo sorprendente libretto, la cui lettura abbiamo dovuto metabolizzare nel tempo, l’idea di tappa e di viaggio, con tanto di esergo necessario tratto dalle calviniane Città invisibili, la cui aura narrativa si mescola con la tradizione del grand tour italiano di goethiana e sterniana memoria, assume oggi un sapore ambivalente e straniante, se consideriamo che è bastato all’epoca forse meno di un anno perché la civiltà globale dei viaggiatori interconnessi, dell’etica del viandante fraintesa e violata, dell’informazione e della disinformazione, delle città aperte per alcuni pochi e per troppi altri chiuse, si trasformasse nel mondo distopico della quarantena pandemica, fatta di silenzi, di serrate, di serrande, di occhi chiusi sui centri urbani muti, di occhi aperti su panorami cittadini la cui vita è divenuta latente, clandestina, sgusciante, contaminata dalla viralità infestante delle fake news e da un’infezione virale, big one biologico annunciato, con cui l’umanità è rientata in un’epoca di riemerse e frustranti precarietà sanitarie, un triste risveglio a cui è seguito quello ancor più amaro della Broad War centrata sulla guerra russo-ucraina, con le sue minacce incombenti di escalation globale.

Anima Grand Tour soprattutto la contemplazione, sul bordo dell’apocalisse, dello spappolamento dello spazio politico (nel senso originario di “cittadino”). Le parole dell’esergo calviniano illuminano la dimensione più intima di questo Einblick, che inquadra storicamente la realtà urbana come centrale della civiltà (per ovvia ragione etimologica, ma non solo), ma al tempo stesso la rappresenta, sul piano della forma poetica come entità discontinua al suo interno e disseminata nello spazio e nel tempo. Di qui la ripresa della tecnica dell’altergiunzione, combinata con uno stile cumulativo polimorfo e ircocervico, che ricorda in parte la forma della Passeggiata del Palazzeschi in odore di futurismo. Nell’andamento ondulatorio e sussultorio della descrittione del gran Paese, che viene così dipanandosi, ogni città è evocata a partire dai nomi della sua periferia in degrado o del suo centro nevralgico o di entrambi. Ma si tratta di una struttura esteriore, in cui si viene progressivamente definendo una sorta di mappatura-referto dei frammenti disseminati di polis che le diverse città italiote compongono, senza vera e sostanziale unificazione pur nel rispetto della bio-diversità antropologica e storica. Non è un caso che le diverse lasse urbane di quello che va considerato a tutti gli effetti un unico poema, siano spesso incentrate sulla giustapposizione caotica dei non-luoghi (intesi alla Marc Augé) di cui le città contemporanee sono crivellate, per quanto antica possa esserne la data di fondazione: non-luoghi, a-topie, in cui si è nei decenni celebrata e sanrtificata la morte, per non salvifica crocefissione, delle utopie e delle idee, bandite dal civile divorzio come capri espiatori del fallimento del concreto.

A costellare le città invivibili di Tricarico non sono pertanto solo i non-luoghi architettonicamente e fisicamente identificabili come tali, ma soprattutto i non-luoghi del linguaggio che si dissemina nello spazio urbano, sui muri calcinati, in una sorta di inopinato e volgare erlebte Rede, o si realizza in una parodia del vivere associato che si trasforma in gesto di follia stereotipica auto-parodiante. Così per esempio Napoli, la città d’origine dell’autore, città-universo disgregata che si inizia con la frattura di un atomo primordiale: “Spaccanapoli”. Segue, come da big bang di cosmicomica, l’eruzione esistenziale dei Realien malamente agglomerati dalla caoslandia urbana e sapidamente caratterizzati dalle risorse inesauste di un plurilinguismo funambolico, in cui si intersecano registro ordinario, aulico, plebeo, tecnico, dialetto, italiano regionale creolizzato dal basso, anglismi da scemenzaio tecnologico per selvaggi con al collo le sveglie non regolate dell’èra della dis-informazione. In mezzo a questo caos emergono, come pointes di coralità degradata, scritte che si possono immaginare depositate sui muri (“Genny ti amo”, “Lota!” “Davide vive”) o su insegne (“pizzeria tal dei tali, unica sede”), citazioni dalla cultura e dal cinema pop (“Maradona e San Gennaro squagliano il sangue nelle vene”), o dalla saggistica riecheggiata per assonanza (“Piedigrotta casatiello e sorca” il cui ipogramma, suggerito per rima e parisosi, è ovviamente “festa farina e forca”), o dal gergo para-politichese dell’associazionismo ritualizzato al calor vuoto (“assemblea sulla sanità… assemblea sull’arte… assemble di assemblee”). Così Roma, l’inesorabile capitale “scolorita”, si popola di bandiere logorate dall’abuso ideologico, marcisce nel verminaio di aggregazioni e consorterie di ogni tipo (“Opere congregazioni ordini deputazioni benemerite istituti case di cura…” “un’associazione culturale per ogni abitante ignorante”), con i loro fascismi allusi e annidati ma mai troppo scoperti, benché non meno inesorabili e inevitabili (“la dolce vita in bianco e nero ha una macchia di pomodoro sul dolcevita nero”), si voltola in un quotidiano asfittico tormentato da prezzi fuori mercato per beni di prima necessità che al mercato non dovrebbero consegnarsi (l’acqua: “animali antropomorfi sputano acqua marmorea, puttini la pisciano santa, fedeli la intingono sulla fronte calda, chioschi la vendono a prezzi di deserto”), con il fantasma di Trilussa che affiora a retro del palcoscenico urbano largamente post-imperiale (“Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri Poeta …”), con i rigurgiti inconsulti di un nazionalismo spiccio in salsa di nullismo mediatico (“Liberiamo i nostri marò è il massimo dell’italianità”), strenua inerzia e incomunicabilità-omertà (il tombale explicit, fra Luciano e Orazio: “tra una scena e l’altra ci si affanna di lentezza/ nel frastuono del magna magna tutto il resto è silenzio!). Così la Milano tossica da non bere, e da tenere rigorosamente lontana dalla portata degli esseri ancora umani, la capitale amorale, si presenta a sua volta come struttura proliferativa di corruzione ammantata di iper-normatività, fatta di indicazioni sovrabbondanti, pleonastiche, chiassose, creatrici di disorientamento, in una cumulazione di cartelli a metà fra le villule gaddiane e l’antifrasi dei monti “sorgenti dall’acque ed elevati al cielo” (Frecce freccette semafori strisce cartelli info/ segnali stradali verticali orizzontali obliqui propinqui lontani/ proni a pecorina carponi/ lei sopra lui sotto/ spiaccicati al suolo/ e ad un certo punto c’è sempre un point/ la pelle meneghina è un pannello disciplinativo). L’inganno finale del miracolo new-economico milanese superato da mille catastrofi, fra 2009 e 2024, è simboleggiato dalla descrizione ilaro-triste (e tristica) del “quartiere rosso dove non si scopa”; è una città di normative barriere, di cui la cifra identitaria è l’estraneo (“il milanese milanese è pugliese”): la Milano che ne emerge è una città che non può fare a meno dell’altro ma ne nega l’esistenza e i diritti in nome di una presunta precedenza da accordare agli autoctoni nazionali, in specie di stirpe lombarda (“almeno i taxi regolari sono bianchi/prima gli itagliani cazzo!”); sullo sfondo un pianeta para-umano di relazioni posticce, mercato truffato e taroccato, pseudo-sesso da commedia pecoreccia all’italiana anni ’70-’80, pseudo-cultura degradata a commercio (“la cultura milanese è una multinazionale travestita da Mecenate”). Così i versi di Palermo evocano immagini candite in una sorta di lentezza meridiana, in cui le componenti eterogenee della storia siciliana convivono in modo paradossale (di questa molteplice stratigrafia è emblema la natura stessa del palermitano palermitano: “una sbriciolata di stili/ porti e regni sono contro le nazioni e i campanili”) in una vertigine del sensorio che invade ciascuno dei momenti percettivi stordendo l’intelletto (“gli occhi naufragano nelle volte celestiali, le orecchie nella musica sacra la bocca nei paradismi naturali…”).

Appare evidente, da questi pochi esempi tratti dalle prime lasse dell’opera, fino a che segno questa poesia si faccia portavoce della condition postmoderne intesa iuxta propria principia, vale a dire secondo i principi di denuncia del degrado che erano propri dell’ottica, tutta marxiana, del suo primo indagatore, Lyotard. Questo connotato è a nostro avviso il primum movens di una poetica “forte” (nel senso filosofico del termine), che si distingue in modo peculiare nel panorama delle poetiche “liquide”, in cui il processo dissipativo e disgregativo del tardo-moderno, visto come radice storica di pensiero (e poetare) “debole”, che si presumerebbe liberatorio, è invece a vario titolo, in modo più o meno consapevole, benedetto. Ed è questa in definitiva la linea di demarcazione fra il nucleo della poetica di Tricarico e una vasta area delle linee di tendenza attuali che con la condizione postmoderna (come che la si intenda) convivono, ma senza davvero comprenderla.

Dei troppi germi di crisi sotterranea, che il nuovo scenario pandemico e pre-bellico ha esacerbato, trasformandoli talvolta in pantomima, talvolta in dramma, talvolta in piccola epopea quotidiana di eroismi stereotipi rivitalizzati, il libro di Tricarico costituisce, sin dal primo momento del suo nascere, una scanzonata e corrosiva diagnosi. Strumento di tale diagnosi è anzitutto il linguaggio ironizzante a cui il poeta ha da lunga stagione resi avvezzi i suoi ascoltatori; tale articolata persona loquens ha senz’altro dietro di sé una tradizione composita, radicata nel Novecento profondo, dalla passeggiata palazzeschiana di cui si è già detto, alle neoavanguardie, e in particolare a un Balestrini, alle poetiche del non-sense, alle invenzioni ircocerviche di un Villa, al gruppo ’93. La trama di tali referenti, e del fil rouge che li connette, è di assoluta trasparenza, né mette conto di farne menzione se non per atto dovuto di completezza informativa. Dietro questo linguaggio della performance estrema, in tempo di contenzioso ozioso e para-logico fra momenti installativi e performativi dell’ars verbalis, Tricarico ripropone con virulenza al suo interlocutore un’antropologia estrema della dimensione poetica come strategia di espressione-ascolto: il lettore-ascoltatore-spettatore della performance non può essere freddo recettore di messaggi, ma è chiamato a essere co-autore dell’opera, mimo compartecipe di ogni tic esistenziale che l’inventio perlocutoria (e persecutoria) di Ferdinando Tricarico evoca, in base a un’onnipervasiva magheía e goezia dei fantasmi quotidiani. Così le definizioni identitarie, che abbiamo in precedenza richiamate, si trasformano in apodissi frammentarie del paradosso geografico o sociale; il Volkgeist si degrada a espressione emotiva murale da maceria del post-cataclisma anticipato (per quanto ovviamente il poeta non ne divini l’occasione storica evenemenziale, ma solo il processo latente); l’intero tessuto urbano si trasforma in idolum theatri del modo di produzione, come percezione esoetnica ed endoetnica; il naufragio dell’ente locale si manifesta in gliommeri neo-gaddiani di slogan, insegne, descrizioni e discorsi rivissuti, foreste di simboli delle città mercato, visibilità dell’indifferente differenza.

In questo work in regress del reale, dove a regredire è non il work inteso come operare poetico in quanto tale, quanto piuttosto il reale stesso, in senso di slittamento di prospettive come in senso storico-sociale, la trama ontologica dilaccata ed esplosa si ricondensa in catene cumulative abnormi e grumose. La cumulazione si squaderna in Tricarico senza latenti gerarchie fra gli enti intramondani che si presentano alla passionale neutralità di visione della voce poetante, tesa fra la liturgia della parola laica e la poesia catalogica arcaica. Ogni singolo oggetto depositato dalla fluviale deriva delle cose porta con sé un’infrastoria debordante, atteggiata secondo due tipici snodi stilistici: anzitutto la gemmazione lessicale di paronomasie, assonanze, allitterazioni, rime, paretimologie, figurae etymologicae, (“saponi e saponari”, in Napoli; “Cicche salsicce e grattachecche” in Roma; “guglie e capitelli/capezzoli e cappelle” in Milano –con gioco sotteso di allusione fra capitello e capezzolo, espressione di un sostrato dialettale partenopeo fuori sede); in secondo luogo l’antitesi, l’ossimoro, la strutturale contradictio in adiecto, per cui ogni frantume di realtà catalogato e archiviato, tolto e conservato, diventa modus tollens di sé stesso nel momento in cui se ne afferma la presenza (ancora in Milano: “Si va piano di fretta/ tutto fila tutto fibra/ … semafori volubili/ automobili implacabili/ pedoni centometristi o inabili”). Dietro l’esplosione verbale palese dei giochi linguistici e degli idioms destrutturati si cela il tesoro aberrante dei sovrasensi, delle connotazioni, delle accezioni, in un rimpallo di richiami fra il gingle pubblicitario d’antan e gli usi straordinari del linguaggio ordinario (et vice versa): così in Milano “fila e fibra” evoca il “tutto fila liscio” e il “filano e fondono” del discorso di consumo dei consumi alimentari e comunicativi; in Palermo l’intreccio di sublime e degrado, piano regolatore e sregolatezza, si traduce in una contorsione evocativa viaria, sociale e monumentale (“l’isola pedonale è il check point/ per l’ascensore sociale che al Monte Pellegrino sale/ tra palazzine liberty perinde ac cadaver”). La trama dell’alter-giunzione travolge cose persone memorie scrittori glorie cittadine dimensione culturale incultura insegne scritte di tifosi rutti eruzioni vulcaniche e cutanee e rumori di tubi di scarico in un gorgo di crescendo e minuendo, climax e anticlimax in cui progressivamente la voce dell’autore si materializza nella sostanza grafica delle parole, fra gli spazi bianchi, e fora il silenzio assordante della corolla di tenebre in cui ora la mediocrazia dilagante, ora la pandemia dilagata, ora il frastuono della grancassa militare, ora le incerte linee di confinamento e controllo, hanno ormai gettato l’uomo non immune del gregge postmoderno senza comunità.

Nella liquida fuga dei tempi di dizione, nell’arte della fuga delle cumulazioni, le cose parlate e le parole cose (le scritte le insegne le pubblicità i  destini manifesti le derive destinali le manifestazioni dell’essere alla deriva i tic verbali gli stereotipi motorii immobilizzati nello snapshot) sfuggono e afferrano istanti di attenzione catturati per un attimo e l’attimo dopo perduti. In tale processo affabulativo, la poesia militante di Ferdinando Tricarico restituisce la presenza-assenza, lutto rielaborato, delle cose e delle persone svanenti, agli abitatori forzati della distanza in cui ci siamo da tempo trasformati, anche se a metterci davanti alla rivelazione-apokálypsis di questo stato di perdita permanente è dovuto intervenire, a suo tempo, uno stato di eccezione di natura biologica, minaccia esistenziale diretta a cui solo la fuga immobile delle quarantene ci ha per alcun tempo sottratti, prima che fossimo consegnati all’impossibilità di fuggire dalla dimensione totalizzante di un conflitto definitivo che può ormai scatenarsi dovunque, in qualunque momento.

Viene così a verificarsi nell’opera un ulteriore effetto paradosso: l’ironizzazione, il comico e l’umorismo, il teatro dell’assurdo delle cose rappresentate e dei luoghi deformi evocati guarisce, in questo tempo, tramite una buona vecchia immedesimazione empatica da sciamanesimo ritrovato, l’isolamento cieco e idiota in cui l’età della disattenzione e della disinformazione ci ha depositati, giunti al capolinea della storia: ed è forse questo il senso più profondo, terapeutico non per l’autore, che da questa somministrazione di cura d’urto esce generosamente stremato (come sa e constata chi ha avuto modo di assistere in diretta all’esecuzione verbo-motoria dei testi da parte del poeta), quanto per l’ascoltatore, che da quel capolinea storico riparte, rigenerato, pronto, se ha ascoltato davvero, a riappropriarsi di un’esistenza autentica e di una storia che per inerzia e vizio di mercimonio gli si è fatta aliena. Anche perché in questa rappresentazione genuina della condizione postmoderna come degrado sociale, le diverse città e i loro non-luoghi finiscono poco a poco per delinearsi come tappe costitutive di una fenomenologia impropria del soggetto strorico, e del suo spirito assente da ricostruire, tessera dopo tessera, frantume per frantume: una delle vie più originali, e a nostro giudizio più feconde, dell’abbandono o del depotenziamento dell’egoitas lirica tradizionale. Una cura dell’uomo è il fine e il punto d’arrivo più essenziale e compiuto del Grand tour militante di Ferdinando Tricarico.

Pezzo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/

 


LEOPARDI LETTO DA CARMELO BENE

 




Carmelo Bene:«“togliere” Leopardi dalla sua poesia.»

di Andrea Balietti

 

«L’unica promessa che posso fare è di tentare, questa sera, di
“togliere” Leopardi dalla sua poesia.»
C.B

12 Settembre 1987: Invitato dal comune di Recanati a recitare i Canti di Giacomo Leopardi in piena piazza, Carmelo Bene accetta di buon grado tuttavia col “rifiuto del portar la voce”, declinando cioè la recita, il recital, l’asciutta parte di “cantor vago”, con la premessa di dare corpo piuttosto che voce e vocalizzo ai versi del poeta.
Questa netta posizione, espressa chiaramente dal critico Maurizio Grande in un fondante preludio che ebbe luogo nel salone di Casa Leopardi, volse e valse a «scagionare l’equivoco di un evento della cosiddetta ‘poesia civile’», quella poesia sempre ‘al servizio’ che può essere soltanto rappresentata (mai incorporata) da una voce serva, cantante, da un attore impegnato a «riferire» e capace solo di recitare.
La ricerca in senso archeologico che ha portato alla riscoperta del materiale esposto in mostra nasce proprio dall’esigenza, basata su questa premessa o promessa, di recuperare le immagini dell’evento, prima ancora che la sua ‘voce’.

Le fotografie del tutto inedite qui presentate, provengono dall’archivio privato dei fratelli Buschi e sono state stampate partendo dai provini e dai negativi originali di cui i due fotografi sono stati autori, su committenza del Comune, nel 1987 e custodi fino ad oggi.

Luogo eletto ad ospitare l’esposizione, la Torre civica di Recanati, immota testimone e protagonista assoluta tra i centinaia di spettatori che allora invasero la piazza; specchio prossemico, prossimo al Carmelo Bene della Divina Commedia, che nel 1981 diffondeva Dante a Bologna, dall’alto della Torre degli Asinelli.
Se l’intento di Bene fu quello di “deteatralizzare” la lettura dei Canti, quello dei curatori è invece quello di evidenziare il potere cinematografico della mostra e delle immagini viventi che in essa muovono, come uscite dal film-evento della serata che andò trasmesso in diretta Rai da Recanati alla televisione di tutto il Paese.

«Che sia stasera, proprio Recanati, il luogo giusto per la rivelazione». C.B.

A distanza di trentacinque anni da quella che riconosciamo come una tra le più eclatanti apparizioni pubbliche di Carmelo Bene, va considerato che ogni traccia di tipo filmico, fotografico o comunque documentario, relativa all’evento, sembrava fino ad oggi essere andata perduta o quantomeno dimenticata.
Questo strano sviluppo intensifica precisamente l’idea di una “rivelazione” di Bene, della sua immagine, di quanto ebbe a comparire per poi scomparire.

Ecco così una mostra su quanto è ricomparso, su ciò che non si mostra, ma si rivela.

Andrea Balietti

 

Pezzo ripreso da:  https://www.nazioneindiana.com/


30 maggio 2024

GIACOMO LEOPARDI IN SPAGNA

 


IL GRANDE VALORE POETICO DEI SALMI BIBLICI

 



I Salmi mi hanno sempre affascinato. Sono, tra i testi poetici dell'Antico Testamento, i libri che hanno colpito maggiormente autori non credenti come Brecht e Freud. La cosa che ho maggiormente apprezzato di loro è lo stile essenziale, privo di fronzoli. Chi li ha scritti non amava la retorica e andava subito al sodo.  Eccone un’ esempio:

 

Dal salmo 138

 

Sei tu che hai creato le mie viscere

e mi hai tessuto nel seno di mia madre.

Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;

sono stupende le tue opere

tu mi conosci fino in fondo.

Non ti erano nascoste le mie ossa

quando venivo formato nel segreto,

intessuto nelle profondità della terra.

Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi

e tutto era scritto nel tuo libro;

i miei giorni erano fissati

quando ancora non esisteva uno.

Quanto profondi per me i tuoi pensieri,

quanto grande il loro numero, o Dio!

Se li conto sono più della sabbia,

se li credo finiti, con te sono ancora.

Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,

provami e conosci i miei pensieri:

vedi se percorro una via di menzogna

e guidami sulla via della vita.

 


ANTONIO GRAMSCI SU GIACOMO MATTEOTTI

 



GRAMSCI SU MATTEOTTI


     Anche su questo punto sono circolate negli ultimi tempi solo menzogne su Gramsci. Vi riproduco di seguito l’articolo firmato da Antonio Gramsci e pubblicato da LO STATO OPERAIO il 28 agosto 1924, subito dopo la scoperta del corpo senza vita di Giacomo Matteotti. (fv)










29 maggio 2024

LUCIANO BIANCIARDI RICORDATO DA M. ONOFRI

 


LA DERIVA BELLICISTA CHE CI PORTA ALLA GUERRA

 


Il buon articolo di Domenico Quirico su LA STAMPA d'oggi. (fv)

LA SCUOLA DI LINGUA ITALIANA PER STRANIERI (ITASTRA) DI PALERMO

 


#domani 30 maggio a partire dalle 15.30, siete tutti #invitati
I ragazzi stranieri che 'falliscono' a scuola sono oggi il triplo dei loro coetanei italiani. Le cause sono tante ma fra le prime vi è il mancato sostegno nei compiti a casa. Da 15 anni ad #ItaStra, ogni anno, 100 studenti con genitori stranieri vengono seguiti da ottobre a maggio da 100 #tirocinanti di Unipa. Non è un progetto finanziato da nessuno. Ci crediamo e lo facciamo.
Domani ci fermiamo per festeggiare qualcosa che ogni anno rischia di non esserci più. Dalle 15.30 in poi si giocherà e si ascoltaranno le parole dei 'nuovi italiani' nel nostro video "Durante tutto il viaggio non ho detto una parola". Alle 17.30 saremo tutti insieme per ascoltare " #Parole su #Gaza" di adolescenti dell'Istituto #Capuana con la regia di Chiara Amoruso
Grazie a Luisa Amenta, Prorettrice all'innovazione didattica di Unipa che sarà con noi e che organizza con ItaStra questo pomeriggio

REGIONI E SCANDALI

 



Regioni e scandali, il perché di un fallimento

 di Filippo Veltri

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti (Italo Calvino).

Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno.

Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano gia’ venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria.

Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.

Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi.

Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica. Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno.

Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia.

Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza. Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo?

Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato l’esatto contrario però.

Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni.

Esse non potevano avere più le finalità proprie dell’impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato. Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare.

Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori.

Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!

da “il Quotidiano del Sud”.

BORGES E SCIASCIA

 


Da una testimonianza del Prof. Antonio Di Grado:

Due piccole perle dall'incontro romano (estate 1980) tra Borges e Sciascia (ora rievocato da Antonio Motta in "La lanterna dei maestri", Divergenze, 2024):
Borges: "Sa che gli studenti del Middle West americani, dove ho tenuto dei corsi, non avevano mai sentito parlare di Napoleone, né di Bernard Shaw? Erano studenti di Lettere del III anno, nel Michigan...".
Sciascia: "E' possibile che fra cinquant'anni anche l'Europa sia così?".
Borges: "Se si americanizza tutto, credo di sì".
E ancora:
Sciascia: "E Proust?".
Borges: "No. E' un mondo così meschino quello di Proust. Per me, un vero romanziere è Conrad".
Quanto alla prima, poco da dire: l'americanizzazione dell'università italiana ha dato ampiamente ragione ai timori di Borges. Altro che Bernard Shaw! Oggi è possibile che un nostro laureato in Lettere non abbia mai letto un intero canto della Divina Commedia o dell'Orlando Furioso, e che ignori l'esistenza di Poliziano, Pietro Aretino o Giovan Battista Marino.
Quanto alla seconda, difficile condividere il giudizio tranchant di Borges; ma sarà un caso se io stesso, che amo Proust, non riesco più a respirare nel salotto dei Guermantes e mi sono rifugiato negli interminati spazi evocati dai grandi narratori della frontiera americana?
Antonio Di Grado

28 maggio 2024

UN RICORDO DI UMBERTO SABA

 



Un ricordo
 
Non dormo. Vedo una strada, un boschetto,
che sul mio cuore come un’ansia preme;
dove si andava, per star soli e insieme,
io e un altro ragazzetto.

Era la Pasqua; i riti lunghi e strani
dei vecchi. E se non mi volesse bene
pensavo e non venisse più domani?
E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo verso la sera;
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore;

il primo; e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
storie di, credo, quindici anni fa?

UMBERTO  SABA
Da Il Canzoniere 1900-1954, Einaudi 2004