Il grand tour militante di
Ferdinando Tricarico
di Daniele
Ventre
Usi ordinari di un linguaggio
straordinario: il Grand Tour militante di Ferdinando Tricarico
Nel quinquennio culmine delle
neo-destre globali, delle sinistre “destreggianti” e delle ritornate
pesti-guerre-carestie, in tempi di neo-strapaese, strapaesologie, consolazioni,
orientamenti, orientazioni, consolamenti, di lockdown e di poeti e
poetiche mobile-friendly,
la poesia militante di Ferdinando Tricarico è stata uno dei pochi
autentici compagni di viaggio, una delle poche forme espressive del panorama
nazionale in cui il lettore di versi meno hypocrite abbia
potuto ascoltare un richiamo davvero fraterno, e godere di una vera e propria
boccata d’aria fresca, nel quadro generale di malmostosa stagnazione,
incastellato infeudamento e irrigidimento para-dogmatico delle troppe
cittadelle sub-micenee in cui si parcellizzano le provincie critico-letterarie
nostrane.
In uno dei frutti più vivaci della
poetica di Tricarico, nella raccolta Grand Tour, uscita per i tipi
di Zona, nel 2019, con postfazione di Guido Caserza, l’evoluzione di un poeta
militante che di fatto si configura come un vero e proprio caposcuola, per
l’ambito non solo campano, ha segnato un momento cruciale. A ormai cinque anni
di distanza dalla nascita di questo sorprendente libretto, la cui lettura
abbiamo dovuto metabolizzare nel tempo, l’idea di tappa e di viaggio, con tanto
di esergo necessario tratto dalle calviniane Città invisibili, la cui aura
narrativa si mescola con la tradizione del grand tour italiano di
goethiana e sterniana memoria, assume oggi un sapore ambivalente e straniante,
se consideriamo che è bastato all’epoca forse meno di un anno perché la civiltà
globale dei viaggiatori interconnessi, dell’etica del viandante fraintesa e violata,
dell’informazione e della disinformazione, delle città aperte per alcuni pochi
e per troppi altri chiuse, si trasformasse nel mondo distopico della quarantena
pandemica, fatta di silenzi, di serrate, di serrande, di occhi chiusi sui
centri urbani muti, di occhi aperti su panorami cittadini la cui vita è
divenuta latente, clandestina, sgusciante, contaminata dalla viralità
infestante delle fake news e da
un’infezione virale, big one biologico
annunciato, con cui l’umanità è rientata in un’epoca di riemerse e frustranti
precarietà sanitarie, un triste risveglio a cui è seguito quello ancor più
amaro della Broad War centrata sulla guerra
russo-ucraina, con le sue minacce incombenti di escalation globale.
Anima Grand Tour soprattutto la
contemplazione, sul bordo dell’apocalisse, dello spappolamento dello spazio
politico (nel senso originario di “cittadino”). Le parole dell’esergo
calviniano illuminano la dimensione più intima di questo Einblick,
che inquadra storicamente la realtà urbana come centrale della civiltà (per
ovvia ragione etimologica, ma non solo), ma al tempo stesso la rappresenta, sul
piano della forma poetica come entità discontinua al suo interno e disseminata
nello spazio e nel tempo. Di qui la ripresa della tecnica dell’altergiunzione,
combinata con uno stile cumulativo polimorfo e ircocervico, che ricorda in
parte la forma della Passeggiata del
Palazzeschi in odore di futurismo. Nell’andamento ondulatorio e sussultorio
della descrittione del gran Paese, che viene così dipanandosi, ogni città è
evocata a partire dai nomi della sua periferia in degrado o del suo centro
nevralgico o di entrambi. Ma si tratta di una struttura esteriore, in cui si
viene progressivamente definendo una sorta di mappatura-referto dei frammenti
disseminati di polis che le diverse città italiote
compongono, senza vera e sostanziale unificazione pur nel rispetto della
bio-diversità antropologica e storica. Non è un caso che le diverse lasse
urbane di quello che va considerato a tutti gli effetti un unico poema, siano
spesso incentrate sulla giustapposizione caotica dei non-luoghi (intesi alla
Marc Augé) di cui le città contemporanee sono crivellate, per quanto antica
possa esserne la data di fondazione: non-luoghi, a-topie, in cui si è nei
decenni celebrata e sanrtificata la morte, per non salvifica crocefissione,
delle utopie e delle idee, bandite dal civile divorzio come capri espiatori del
fallimento del concreto.
A costellare le città invivibili di
Tricarico non sono pertanto solo i non-luoghi architettonicamente e fisicamente
identificabili come tali, ma soprattutto i non-luoghi del linguaggio che si
dissemina nello spazio urbano, sui muri calcinati, in una sorta di inopinato e
volgare erlebte
Rede, o si realizza in una parodia del vivere associato che si
trasforma in gesto di follia stereotipica auto-parodiante. Così per esempio
Napoli, la città d’origine dell’autore, città-universo disgregata che si inizia
con la frattura di un atomo primordiale: “Spaccanapoli”. Segue, come da big
bang di cosmicomica, l’eruzione esistenziale dei Realien malamente
agglomerati dalla caoslandia urbana e sapidamente caratterizzati dalle risorse
inesauste di un plurilinguismo funambolico, in cui si intersecano registro
ordinario, aulico, plebeo, tecnico, dialetto, italiano regionale creolizzato
dal basso, anglismi da scemenzaio tecnologico per selvaggi con al collo le
sveglie non regolate dell’èra della dis-informazione. In mezzo a questo caos
emergono, come pointes di coralità degradata, scritte che si
possono immaginare depositate sui muri (“Genny ti amo”, “Lota!” “Davide vive”)
o su insegne (“pizzeria tal dei tali, unica sede”), citazioni dalla cultura e
dal cinema pop (“Maradona e San Gennaro squagliano il
sangue nelle vene”), o dalla saggistica riecheggiata per assonanza
(“Piedigrotta casatiello e sorca” il cui ipogramma, suggerito per rima e
parisosi, è ovviamente “festa farina e forca”), o dal gergo para-politichese
dell’associazionismo ritualizzato al calor vuoto (“assemblea sulla sanità…
assemblea sull’arte… assemble di assemblee”). Così Roma, l’inesorabile capitale
“scolorita”, si popola di bandiere logorate dall’abuso ideologico, marcisce nel
verminaio di aggregazioni e consorterie di ogni tipo (“Opere congregazioni
ordini deputazioni benemerite istituti case di cura…” “un’associazione
culturale per ogni abitante ignorante”), con i loro fascismi allusi e annidati
ma mai troppo scoperti, benché non meno inesorabili e inevitabili (“la dolce
vita in bianco e nero ha una macchia di pomodoro sul dolcevita nero”), si
voltola in un quotidiano asfittico tormentato da prezzi fuori mercato per beni
di prima necessità che al mercato non dovrebbero consegnarsi (l’acqua: “animali
antropomorfi sputano acqua marmorea, puttini la pisciano santa, fedeli la
intingono sulla fronte calda, chioschi la vendono a prezzi di deserto”), con il
fantasma di Trilussa che affiora a retro del palcoscenico urbano largamente
post-imperiale (“Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri Poeta …”), con i
rigurgiti inconsulti di un nazionalismo spiccio in salsa di nullismo mediatico
(“Liberiamo i nostri marò è il massimo dell’italianità”), strenua inerzia e
incomunicabilità-omertà (il tombale explicit, fra Luciano e Orazio: “tra una
scena e l’altra ci si affanna di lentezza/ nel frastuono del magna magna tutto
il resto è silenzio!). Così la Milano tossica da non bere, e da tenere
rigorosamente lontana dalla portata degli esseri ancora umani, la capitale amorale,
si presenta a sua volta come struttura proliferativa di corruzione ammantata di
iper-normatività, fatta di indicazioni sovrabbondanti, pleonastiche, chiassose,
creatrici di disorientamento, in una cumulazione di cartelli a metà fra le
villule gaddiane e l’antifrasi dei monti “sorgenti dall’acque ed elevati al
cielo” (Frecce freccette semafori strisce cartelli info/ segnali stradali
verticali orizzontali obliqui propinqui lontani/ proni a pecorina carponi/ lei
sopra lui sotto/ spiaccicati al suolo/ e ad un certo punto c’è sempre un point/
la pelle meneghina è un pannello disciplinativo). L’inganno finale del miracolo
new-economico milanese superato da mille catastrofi, fra 2009 e 2024, è
simboleggiato dalla descrizione ilaro-triste (e tristica) del “quartiere rosso
dove non si scopa”; è una città di normative barriere, di cui la cifra
identitaria è l’estraneo (“il milanese milanese è pugliese”): la Milano che ne
emerge è una città che non può fare a meno dell’altro ma ne nega l’esistenza e
i diritti in nome di una presunta precedenza da accordare agli autoctoni
nazionali, in specie di stirpe lombarda (“almeno i taxi regolari sono
bianchi/prima gli itagliani cazzo!”); sullo sfondo un pianeta para-umano di
relazioni posticce, mercato truffato e taroccato, pseudo-sesso da commedia
pecoreccia all’italiana anni ’70-’80, pseudo-cultura degradata a commercio (“la
cultura milanese è una multinazionale travestita da Mecenate”). Così i versi di Palermo evocano
immagini candite in una sorta di lentezza meridiana, in cui le componenti
eterogenee della storia siciliana convivono in modo paradossale (di questa
molteplice stratigrafia è emblema la natura stessa del palermitano palermitano:
“una sbriciolata di stili/ porti e regni sono contro le nazioni e i campanili”)
in una vertigine del sensorio che invade ciascuno dei momenti percettivi
stordendo l’intelletto (“gli occhi naufragano nelle volte celestiali, le
orecchie nella musica sacra la bocca nei paradismi naturali…”).
Appare evidente, da questi pochi
esempi tratti dalle prime lasse dell’opera, fino a che segno questa poesia si
faccia portavoce della condition postmoderne intesa iuxta
propria principia, vale a dire secondo i principi di denuncia del
degrado che erano propri dell’ottica, tutta marxiana, del suo primo indagatore,
Lyotard. Questo connotato è a nostro avviso il primum movens di una
poetica “forte” (nel senso filosofico del termine), che si distingue in modo
peculiare nel panorama delle poetiche “liquide”, in cui il processo dissipativo
e disgregativo del tardo-moderno, visto come radice storica di pensiero (e
poetare) “debole”, che si presumerebbe liberatorio, è invece a vario titolo, in
modo più o meno consapevole, benedetto. Ed è questa in definitiva la linea di
demarcazione fra il nucleo della poetica di Tricarico e una vasta area delle
linee di tendenza attuali che con la condizione postmoderna (come che la si
intenda) convivono, ma senza davvero comprenderla.
Dei troppi germi di crisi sotterranea,
che il nuovo scenario pandemico e pre-bellico ha esacerbato, trasformandoli
talvolta in pantomima, talvolta in dramma, talvolta in piccola epopea
quotidiana di eroismi stereotipi rivitalizzati, il libro di Tricarico
costituisce, sin dal primo momento del suo nascere, una scanzonata e corrosiva
diagnosi. Strumento di tale diagnosi è anzitutto il linguaggio ironizzante a
cui il poeta ha da lunga stagione resi avvezzi i suoi ascoltatori; tale
articolata persona loquens ha senz’altro dietro di sé
una tradizione composita, radicata nel Novecento profondo, dalla passeggiata
palazzeschiana di cui si è già detto, alle neoavanguardie, e in particolare a
un Balestrini, alle poetiche del non-sense, alle invenzioni
ircocerviche di un Villa, al gruppo ’93. La trama di tali referenti, e del fil
rouge che li connette, è di assoluta trasparenza, né mette
conto di farne menzione se non per atto dovuto di completezza informativa.
Dietro questo linguaggio della performance estrema, in
tempo di contenzioso ozioso e para-logico fra momenti installativi e
performativi dell’ars verbalis, Tricarico ripropone con virulenza al
suo interlocutore un’antropologia estrema della dimensione poetica come
strategia di espressione-ascolto: il lettore-ascoltatore-spettatore della performance non
può essere freddo recettore di messaggi, ma è chiamato a essere co-autore
dell’opera, mimo compartecipe di ogni tic esistenziale che l’inventio perlocutoria
(e persecutoria) di Ferdinando Tricarico evoca, in base a un’onnipervasiva magheía e
goezia dei fantasmi quotidiani. Così le definizioni identitarie, che abbiamo in
precedenza richiamate, si trasformano in apodissi frammentarie del paradosso
geografico o sociale; il Volkgeist si degrada a
espressione emotiva murale da maceria del post-cataclisma anticipato (per
quanto ovviamente il poeta non ne divini l’occasione storica evenemenziale, ma
solo il processo latente); l’intero tessuto urbano si trasforma in idolum
theatri del modo di produzione, come percezione esoetnica ed
endoetnica; il naufragio dell’ente locale si manifesta in gliommeri neo-gaddiani
di slogan, insegne, descrizioni e discorsi rivissuti, foreste di simboli delle
città mercato, visibilità dell’indifferente differenza.
In questo work in regress del reale,
dove a regredire è non il work inteso come operare
poetico in quanto tale, quanto piuttosto il reale stesso, in senso di
slittamento di prospettive come in senso storico-sociale, la trama ontologica
dilaccata ed esplosa si ricondensa in catene cumulative abnormi e grumose. La
cumulazione si squaderna in Tricarico senza latenti gerarchie fra gli enti
intramondani che si presentano alla passionale neutralità di visione della voce
poetante, tesa fra la liturgia della parola laica e la poesia catalogica
arcaica. Ogni singolo oggetto depositato dalla fluviale deriva delle cose porta
con sé un’infrastoria debordante, atteggiata secondo due tipici snodi
stilistici: anzitutto la gemmazione lessicale di paronomasie, assonanze,
allitterazioni, rime, paretimologie, figurae etymologicae, (“saponi
e saponari”, in Napoli; “Cicche salsicce e grattachecche” in Roma;
“guglie e capitelli/capezzoli e cappelle” in Milano –con gioco sotteso di
allusione fra capitello e capezzolo, espressione di un sostrato dialettale
partenopeo fuori sede); in secondo luogo l’antitesi, l’ossimoro, la strutturale contradictio
in adiecto, per cui ogni frantume di realtà catalogato e
archiviato, tolto e conservato, diventa modus tollens di sé stesso
nel momento in cui se ne afferma la presenza (ancora in Milano:
“Si va piano di fretta/ tutto fila tutto fibra/ … semafori volubili/ automobili
implacabili/ pedoni centometristi o inabili”). Dietro l’esplosione verbale
palese dei giochi linguistici e degli idioms destrutturati si
cela il tesoro aberrante dei sovrasensi, delle connotazioni, delle accezioni,
in un rimpallo di richiami fra il gingle pubblicitario
d’antan e gli usi straordinari del linguaggio ordinario (et vice versa): così in Milano
“fila e fibra” evoca il “tutto fila liscio” e il “filano e fondono” del
discorso di consumo dei consumi alimentari e comunicativi; in Palermo l’intreccio
di sublime e degrado, piano regolatore e sregolatezza, si traduce in una
contorsione evocativa viaria, sociale e monumentale (“l’isola pedonale è il
check point/ per l’ascensore sociale che al Monte Pellegrino sale/ tra
palazzine liberty perinde ac cadaver”). La trama dell’alter-giunzione travolge
cose persone memorie scrittori glorie cittadine dimensione culturale incultura
insegne scritte di tifosi rutti eruzioni vulcaniche e cutanee e rumori di tubi
di scarico in un gorgo di crescendo e minuendo, climax e anticlimax in
cui progressivamente la voce dell’autore si materializza nella sostanza grafica
delle parole, fra gli spazi bianchi, e fora il silenzio assordante della
corolla di tenebre in cui ora la mediocrazia dilagante, ora la pandemia
dilagata, ora il frastuono della grancassa militare, ora le incerte linee di
confinamento e controllo, hanno ormai gettato l’uomo non immune del gregge
postmoderno senza comunità.
Nella liquida fuga dei tempi di
dizione, nell’arte della fuga delle cumulazioni, le cose parlate e le parole
cose (le scritte le insegne le pubblicità i destini manifesti le derive
destinali le manifestazioni dell’essere alla deriva i tic verbali gli
stereotipi motorii immobilizzati nello snapshot) sfuggono e afferrano
istanti di attenzione catturati per un attimo e l’attimo dopo perduti. In tale
processo affabulativo, la poesia militante di Ferdinando Tricarico restituisce
la presenza-assenza, lutto rielaborato, delle cose e delle persone svanenti,
agli abitatori forzati della distanza in cui ci siamo da tempo trasformati,
anche se a metterci davanti alla rivelazione-apokálypsis di questo
stato di perdita permanente è dovuto intervenire, a suo tempo, uno stato di
eccezione di natura biologica, minaccia esistenziale diretta a cui solo la fuga
immobile delle quarantene ci ha per alcun tempo sottratti, prima che fossimo
consegnati all’impossibilità di fuggire dalla dimensione totalizzante di un
conflitto definitivo che può ormai scatenarsi dovunque, in qualunque momento.
Viene così a verificarsi nell’opera un
ulteriore effetto paradosso: l’ironizzazione, il comico e l’umorismo, il teatro
dell’assurdo delle cose rappresentate e dei luoghi deformi evocati guarisce, in
questo tempo, tramite una buona vecchia immedesimazione empatica da
sciamanesimo ritrovato, l’isolamento cieco e idiota in cui l’età della
disattenzione e della disinformazione ci ha depositati, giunti al capolinea
della storia: ed è forse questo il senso più profondo, terapeutico non per
l’autore, che da questa somministrazione di cura d’urto esce generosamente
stremato (come sa e constata chi ha avuto modo di assistere in diretta
all’esecuzione verbo-motoria dei testi da parte del poeta), quanto per
l’ascoltatore, che da quel capolinea storico riparte, rigenerato, pronto, se ha
ascoltato davvero, a riappropriarsi di un’esistenza autentica e di una storia
che per inerzia e vizio di mercimonio gli si è fatta aliena. Anche perché in
questa rappresentazione genuina della condizione postmoderna come degrado sociale,
le diverse città e i loro non-luoghi finiscono poco a poco per delinearsi come
tappe costitutive di una fenomenologia impropria del soggetto strorico, e del
suo spirito assente da ricostruire, tessera dopo tessera, frantume per
frantume: una delle vie più originali, e a nostro giudizio più feconde,
dell’abbandono o del depotenziamento dell’egoitas lirica
tradizionale. Una cura dell’uomo è il fine e il punto d’arrivo più essenziale e
compiuto del Grand tour militante di Ferdinando Tricarico.
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/