A BERLINO TIRA ARIA PESANTE
di Giacomo Croci
A Berlino tira aria pesante. In continuità con gli accampamenti di protesta, organizzati in molte università del mondo per manifestare contro l’eccidio ancora in atto in Medio Oriente, anche nella capitale tedesca hanno luogo iniziative analoghe. Si reclamano la cessazione della complicità con il massacro operato dal governo di estrema destra e dalle forze armate di Israele, della collaborazione con le istituzioni scientifiche israeliane, che sostengono direttamente o indirettamente l’esercito, il cessate il fuoco e il termine del conflitto, così come il riconoscimento, da parte della Germania, del proprio passato coloniale e della propria responsabilità nell’inasprimento della questione palestinese. La politica istituzionale, nel frattempo, si vede confrontata con un incremento preoccupante delle aggressioni a sfondo razzista e antisemita, perpetrate perlopiù da gruppi neonazisti, e teme che la veemente critica alla politica israeliana possa peggiorare ulteriormente la situazione. La risposta alle proteste è immediata, con sgomberi, interventi brutali della polizia. Come è possibile che proteste pacifiche, esplicitamente antirazziste, anticoloniali e in parte organizzate proprio da studenti e studentesse di origine e di religione ebraica, vengano represse con tanta aggressività dalla politica e dall’università tedesche?
Lo stato del dibattito pubblico
Per capire cosa sta accadendo in Germania è essenziale farsi un’idea del dibattito e dello spazio pubblico del paese. Un episodio in particolare ne dà l’immagine esemplare.
Lo scorso febbraio ha luogo il Festival internazionale del cinema di Berlino. Il film No Other Land (2024), premiato come miglior documentario, racconta l’occupazione militare israeliana in una comunità della Cisgiordania. Il palestinese Basel Adra e l’israeliano Yuval Abraham, due delle quattro persone alla regia, partecipano alla cerimonia di premiazione. Nel suo discorso di accettazione del premio, Abraham parla di Israele come stato di apartheid. Claudia Roth, Ministra di Stato per la cultura e i media, è presente alla cerimonia di premiazione. Applaude e viene ripresa durante l’applauso. Le immagini circolano. La stampa e diverse personalità della politica attaccano tanto il conferimento del premio quanto l’applauso: sarebbero espressione di sentimenti antisraeliani e antisemiti.
Quella che potrebbe rimanere una polemica qualsiasi assume immediatamente i toni del grottesco. In seguito alle critiche ricevute, l’account istituzionale dell’ufficio cui fa capo Roth comunica, sulla piattaforma X (ex Twitter), che l’applauso della Ministra era diretto soltanto al regista israeliano e non al collega palestinese. È legittimo chiedersi cosa significa effettivamente la comunicazione. Si sta parlando delle intenzioni dell’applaudente? O forse il ministero di Roth è in possesso di una avanzatissima tecnologia capace di dirigere le onde sonore prodotte dal battito di mani con precisione millimetrica? È curioso che una presa di posizione così stravagante, ai limiti dell’assurdo, sia stata espressa dai canali ufficiali di un’istituzione democratica. Colpisce, insomma, che un’istituzione democratica possa descrivere le proprie azioni tramite una plateale assurdità, e con una chiara discriminazione intenzionale su base nazionale/etnica, senza scatenare, prima che l’indignazione, la perplessità en masse. Articolare una condanna morale o politica della comunicazione della Ministra di Stato è secondario. Più importante è rilevare la smaccata insensatezza delle sue asserzioni, che però, allo stesso tempo, non vengono sancite nello spazio e nel discorso pubblici come insensate.
Allo spaesamento si combinano gravissimi episodi di repressione contro le iniziative e manifestazioni in supporto alla popolazione palestinese. Basti citare il divieto d’ingresso su suolo tedesco (ed europeo), dopo ore di interrogatorio, con conseguente rimpatrio, di Ghassan Abu-Sittah, chirurgo britannico-palestinese, per impedire che raccontasse, a un convegno sulla questione palestinese, della sua esperienza a Gaza (divieto che si è rivelato, poi, illegale ed è stato perciò rimosso). Nella stessa cornice è stato imposto il divieto d’ingresso così come di comunicazioni virtuali a eventi pubblici a Yanis Varoufakis, un ex ministro di uno Stato membro dell’Unione Europea. A questi aneddoti emblematici si aggiungono le numerose violenze della polizia a manifestazioni, proteste e al convegno appena citato. Il clima generale del dibattito e dello spazio pubblico è disorientato, teso, repressivo.
Proteste, polizia e liste di proscrizione
Il sette maggio, alla Freie Universität (FU, “Università Libera”) di Berlino, fra le cinquanta e le cento persone installano un accampamento di protesta, criticando la complicità della Germania con il massacro sommario della popolazione palestinese e richiedendo la cessazione del sostegno alle operazioni belliche israeliane. La protesta è pacifica e ha luogo all’aperto, in un cortile del campus, l’accesso al quale non passa dagli edifici dell’università. Nella ricostruzione degli eventi, le dichiarazioni dell’organizzazione della protesta e della direzione dell’università divergono in un punto essenziale: la seconda accusa la prima di aver rifiutato il dialogo, che smentisce però questa accusa. Resta un punto fermo: la presidenza dell’università reagisce immediatamente chiamando la polizia. In una mail interna all’ateneo, la direzione giustifica questa scelta con due ragioni essenziali: la protesta rifiuta il dialogo e rischia di compromettere la sicurezza sul campus. Nel giro di meno di due ore il rischio smette di essere una possibilità: l’intervento della polizia garantisce la compromissione di sicurezza e incolumità delle persone presenti. Il campus è in lockdown e la connessione a Internet tramite WiFi viene bloccata. Il sedici maggio, il consiglio generale studentesco dell’ateneo (AStA FU) comunica che diverse testimonianze riportano violenze della polizia non soltanto nei confronti della manifestazione, ma anche di individui non immediatamente coinvolti, aggrediti nei corridoi, mentre la protesta avveniva all’esterno.
Al di là della legittimità giuridica della scelta, far intervenire la polizia in un’università al fine di sfollare una protesta pacifica e preservare la sicurezza sul campus ha qualcosa del controsenso, così come addurre, come motivazione di questa scelta, una curiosa resistenza al dialogo. Perciò, a qualche ora di distanza dell’intervento delle forze dell’ordine, un gruppo di docenti degli atenei berlinesi sigla una lettera di protesta contro la scelta della direzione universitaria della FU. La direzione dell’ateneo non sarebbe stata in grado di rispondere alla manifestazione in modo dialogico e privo di violenza, contravvenendo così ai principî del suo mandato, indipendentemente dal contenuto della protesta. Il testo della petizione sottolinea che, indipendentemente dai contenuti di una protesta pacifica, sostenere che la protesta non cerca il dialogo non giustifica la richiesta di un intervento della polizia, prevedibilmente brutale considerato il clima di cui sopra.
Un evento di questo genere è destinato ad avere risonanza mediatica. Per un verso, riguarda uno degli atenei della capitale tedesca, rinomato nel panorama nazionale e internazionale. Per l’altro, tocca proprio l’argomento che da mesi a questa parte scatena il panico di stampa e politica: la critica al governo di estrema destra israeliano. Ma la risposta della stampa supera le aspettative. Il dieci maggio, la Bild-Zeitung – il quotidiano più venduto in Germania, di fatto un tabloid – pubblica in prima pagina un articolo che titola “UniversiTÄTER” (“criminali universitari”). Nell’articolo, che non riporta né considera il testo della petizione, si accusa il personale docente che ha sottoscritto la lettera di critica alla direzione della FU di sostenere l’odio per la popolazione ebraica. Alle parole diffamatorie si accompagnano, in prima pagina, nomi e foto di diverse persone che hanno sottoscritto la petizione. “Mancano solo gli indirizzi,” commenta Michael Wildt, professore di storia da poco in pensione, specializzato nella storia del nazionalsocialismo. È una lista di proscrizione. L’episodio – la macchina del fango a mezzo stampa propagandistica – ricorda una pagina oscura del Sessantotto tedesco. Fu proprio la Bild-Zeitung (e in generale tutto il gruppo editoriale Axel Springer cui la testata afferisce) a montare la campagna d’odio contro Rudi Dutschke, studente, attivista e sociologo marxista, che venne poi aggredito con tre colpi di arma da fuoco – due alla testa, uno alla spalla. Amara coincidenza, Rudi Dutschke era affiliato alla FU di Berlino.
Il tredici maggio, la direzione dell’ateneo berlinese comunica l’intenzione di procedere per vie legali contro la Bild-Zeitung a difesa del proprio personale, se si rivelasse necessario. Nella stessa comunicazione della FU, che però omette tanto le richieste della protesta quanto le critiche avanzate dalla petizione, vengono addotte ex post ulteriori ragioni alla richiesta dell’intervento della polizia, assenti nella mail originaria: sul luogo della protesta ci sarebbero state manifestazioni di antisemitismo ed episodi di vandalismo. La ricostruzione avanzata dalla direzione è tuttavia torbida. Uno degli episodi di vandalismo cui si fa riferimento è incongruente con lo svolgersi dei fatti. Si accusa la protesta di aver attivato un allarme antincendio, la cui attivazione è stata però effettuata proprio a causa dell’intervento della polizia, per animare il campus e avvisare la manifestazione stessa dell’imminente sgombero, come già ricostruito dal comitato studentesco d’ateneo.
Mente scrivo questo articolo, un’altra manifestazione studentesca ha occupato le aule di un istituto della Humboldt Universität, sempre a Berlino, con richieste simili a quelle dell’accampamento di protesta alla FU. L’intervento della polizia, in data ventitré maggio, è stato ancora più feroce che alla Freie Universität. Le forze dell’ordine hanno aggredito brutalmente l’occupazione e un almeno un giornalista. L’inchiesta per lesioni personali è aperta. La rettrice fa sapere che lo sgombero operato dalla polizia sarebbe stato “ordinato dall’alto,” cioè dal sindaco democristiano Kai Wegner, sostenuto dalla senatrice socialdemocratica Ina Czyborra.
Questi sono i fatti e queste sono le lacune, ancora da chiarire, nella loro ricostruzione.
Il problema dell’identità nazionale
Nessun fatto isolato significa qualcosa. Inanellare i fatti in una sequenza significativa o anche soltanto causale, così come identificarne le lacune, ha ben altri presupposti. Questi presupposti sono i concetti, le parole, i giudizi che adoperiamo inanellando e interpretando i fatti. E in effetti, la questione si gioca tutta proprio nello spazio concettuale, linguistico, giustificativo, in cui e di cui vivono il dibattito e lo spazio pubblico tedesco. Perché una protesta pacifica che critica operazioni belliche e complicità nell’eccidio di una popolazione civile viene repressa così immediatamente e con così tanta brutalità? In virtù di quali presupposti la presidenza della Freie Universität può affermare di voler cercare il dialogo dopo aver invocato l’intervento della polizia? L’unico modo di rispondere a queste domande è fare un passo indietro, fuori dall’università, e considerare di nuovo il panorama tedesco in generale e i concetti che ne dominano e articolano spazio e dibattito.
Una delle parole chiave che si ripetono costantemente nella stampa e nelle dichiarazioni degli ultimi otto mesi in Germania è “deutsche Staatsräson,” ragion di stato tedesca. L’espressione fu resa famosa da un’affermazione di Angela Merkel del 2008, quando dichiarò che la sicurezza di Israele fa parte della ragion di stato tedesca in virtù della responsabilità storica della Germania nei confronti della popolazione ebraica. Naturalmente il concetto è dibattuto: non si riferisce a una costellazione giuridica, esprime piuttosto un’agenda di politica internazionale. Ma anche nel secondo caso l’espressione rimane ambigua. La sicurezza di Israele si riferisce al sostegno di operazioni belliche offensive? Include l’occupazione illegale di territori? O riguarda forse piuttosto la difesa della popolazione e della società civile israeliana? Ora, caratteristico del dibattito pubblico in Germania, quando viene mobilitato il concetto di “ragion di stato,” non è tanto il riferimento a Israele e a chi vi abita. Il punto centrale sembra essere piuttosto la responsabilità della Germania in riferimento alla responsabilità storica per l’Olocausto. Inoltre, buona parte, se non la maggior parte delle posizioni critiche rispetto alla carneficina ancora portata avanti dall’estrema destra israeliana viene associata immediatamente a moventi antisemiti, che hanno caratterizzato, per molti anni, il sentimento nazionale in Germania, così come in buona parte dei paesi Europei e da ben prima della Seconda guerra mondiale. C’è come un ingorgo associativo nel dibattito pubblico, che assimila le critiche alle operazioni belliche israeliane e al suo governo di estrema destra a posizioni antisemite. Com’è possibile?
Dobbiamo fare ancora una volta un passo indietro e riflettere sulla costruzione dell’identità nazionale in Germania. In un passaggio caustico de L’ideologia tedesca di Karl Marx e Friedrich Engels si legge di “bottegai del pensiero” che, mentre si credono “superiori a tutti i pregiudizi nazionali,” sono in realtà “peggiori dei filistei della birra,” che “non riconoscono le azioni degli altri popoli come storiche,” che vivono “in Germania, al fine della Germania, votati alla Germania” e che “conquistano l’Alsazia e la Lorena saccheggiando la filosofia piuttosto che lo Stato francese, germanizzando non le province ma i pensieri.” Queste frasi, con il loro sarcasmo, sono ancora attualissime, soprattutto se confrontate con i tanti appelli che vengono fatti, ancora oggi, al sostegno indiscriminato delle operazioni belliche israeliane. Il dibattito pubblico e mediatico, così come il linguaggio politico in Germania, da ben prima dello scorso ottobre, quando si occupano degli eventi in Medio Oriente, hanno come punto di riferimento centrale – forse non l’unico, ma quello decisivo – la Germania stessa. Non la popolazione civile israeliana, non la popolazione civile palestinese, ma la responsabilità e la politica tanto estera quanto interna della Germania stessa. L’altra faccia del sostegno a Israele sono, insomma, gli stessi interessi tedeschi, la coesione e unità della Germania come nazione e comunità di valori, concetti, linguaggi.
Ora, che a una nazione interessino il proprio ruolo nel panorama internazionale e i propri interessi non è una cosa che deve dare scandalo. Curioso però – e spesso controproducente nel lungo termine – è quando una nazione assume il proprio ruolo e i propri interessi come unità di misura generale. Certamente non si tratta di minimizzare le responsabilità della classe dirigente tedesca, che con l’Olocausto ha interpretato, in un’iperbole tecnologica e mortifera, l’antisemitismo e l’antigiudaismo già presenti, da tempo e trasversalmente, nella classe dirigente europea. Classe dirigente tedesca che, nelle parole de I cani del Sinai di Franco Fortini, ha “riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento.” Si tratta piuttosto di chiedersi: a cosa ammonta una cultura della memoria, una cultura del culto pubblico, quando l’unica lezione che sa trarre dal Novecento europeo è: l’identità nazionale tedesca va costruita sulla colpa dell’Olocausto? La coincidenza di identificazione e contemporaneamente di rifiuto diventa particolarmente visibile quando è proprio la stessa stampa nazionale, carica di razzismo, a parlare di antisemitismo importato dai “bruti arabi”.
Se si dovesse scrivere una Ideologia tedesca degli anni seguenti alla caduta del muro di Berlino, questa dovrebbe partire da un’osservazione che fa Sigmund Freud nelle sue Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte. Egli afferma che ciò che intende come “inconscio,” cioè gli “strati più profondi della nostra psiche, fatti di moti pulsionali, non conosce alcunché di negativo, nessuna negazione.” Banalizzando, si potrebbe ragionare che voler rinnegare qualcosa a tutti i costi, così come voler esaltare qualcosa a tutti i costi, tradisce soltanto proprio la fissazione per ciò che si vuole negare, rinnegare o affermare. Questo è, purtroppo, quello che sta accadendo allo spazio e al dibatto pubblici tedeschi. Discorso politico e mediatico sono sclerotizzati sull’identità tedesca, mortificata ed esaltata: esaltata proprio nella mortificazione della colpa, e mortificata proprio nell’esaltazione della sua eccezionale responsabilità.
Tutto questo gioco di fissazioni, come quasi ogni gioco di fissazioni, è ovviamente un tappabuchi. E il buco che deve tappare non consiste tanto nei procedimenti della Corte internazionale di giustizia o della Corte penale internazionale, nelle accuse di genocidio o nelle relazioni diplomatiche con l’estrema destra israeliana né, in fin dei conti, nell’antisemitismo e nel razzismo ancora diffusi nella società tedesca. Esso riguarda piuttosto la crescente insignificanza della Germania: un dibattito pubblico provinciale, un’economia che si strozza, una politica estera ancillare, un ruolo chiave in Europa che si è tradotto in una promozione miope (e fatale) della politica dell’austerità e una direzione della Commissione Europea fatta di strafalcioni, incompetenza e scelleratezze diplomatiche, all’interno e all’esterno del continente. Nel frattempo, le estreme destre del paese vanno al galoppo, mentre le vecchie guardie socialdemocratiche e democristiane non sanno decidersi se il drenaggio dei voti viene combattuto più efficacemente rincorrendo la xenofobia nazionalista o l’ultraliberismo.
Non ci può stupire, a questo punto, la sclerotizzazione dei dibattiti su una griglia concettuale che è, nel migliore dei casi, l’assembramento imparaticcio di un’armata Brancaleone: che assimila le critiche alla guerra e allo sterminio di una popolazione civile all’antisemitismo che fu, per molto tempo, distintivo della classe dirigente e intellettuale europea. La lotta all’antisemitismo – fondamentale e necessaria – viene così surrettiziamente strumentalizzata al rafforzamento dell’identità e della politica nazionali.
L’università come istituzione democratica
Torniamo al maggio e all’ateneo berlinesi. In un contesto caratterizzato dalla polarizzazione e dal panico, come si profila il ruolo di un’università pubblica, cioè dell’istituzione che è supposta produrre e trasmettere sapere e che è preposta a farlo in e da una società che si definisce democratica? A quali norme e a quali compiti, in questo panorama, deve rispondere l’istituzione accademica, quali norme e quali compiti la giustificano e le danno senso?
Queste domande riguardano immediatamente la questione che avevo aperto sopra, riguardano cioè i concetti, i linguaggi, gli argomenti, i saperi che una comunità umana adotta che adopera. Se c’è un luogo sociale e istituzionale dove i concetti vanno passati al setaccio, questa è l’università, che deve perciò aver ben presente il dibattito politico, mediatico e pubblico, ma non adattarvisi. Se è possibile uno spazio in cui il conflitto di argomenti, concetti e linguaggi può essere attivamente e criticamente intrattenuto e coltivato senza fissarsi su identità o polarizzazioni, l’università ha il compito di assicurare quello spazio. Al contrario, se l’istituzione universitaria non si dimostra in grado di adempiere a questo compito, la sua giustificazione, la sua ragion d’essere vacilla. Quando il discorso pubblico e i suoi concetti si decompongono, fino a puzzare di acqua ferma e a cedere all’autoritarismo e alla repressione, uno dei compiti essenziali dell’università è evitare che questo accada, è aprire e mantenere uno spazio dove questo non accade.
Data questa premessa, troviamo allora tre ordini di problemi all’invocazione dell’intervento della polizia il sette maggio. Il primo è di natura giuridica. In una conferenza stampa, Clemens Arzt, professore di diritto costituzionale e amministrativo alla Hochschule für Wirtschaft und Recht Berlin (Berlin School of Economics and Law), specializzato nel diritto d’assemblea e nell’ordinamento sulle leggi di polizia, rileva che la decisione della direzione della Freie Universität contravverrebbe al diritto d’assemblea così come alla costituzione. Il secondo ordine di problemi riguarda la politica istituzionale. Indipendentemente dalla legittimità giuridica, è lecito chiedersi se la direzione di uno degli atenei più rinomati nella nazione, che si trova nella sua capitale, può ignorare la componente politica di reprimere in modo autoritario e violento una protesta studentesca. Che volontà si esprime in questa decisione, per quanto riguarda il modo in cui viene organizzata e governata un’istituzione pubblica? Il terzo ordine di problemi riguarda invece la pratica, la professione e il mandato della ricerca universitaria in una società democratica e si compone di due questioni. La prima: è possibile che da maggio a ottobre la direzione di uno degli atenei trainanti del paese non abbia sviluppato un piano operativo migliore, davanti alla possibilità di una protesta studentesca pacifica, dell’intervento della polizia? La seconda: quando la direzione d’ateneo imputa alla protesta, cito testualmente, “antisemitismo espresso implicitamente ed esplicitamente,” senza fornire maggiori dettagli, qualsiasi cosa poi la nozione di “espressione implicita” possa significare, non sta forse facendo dello psittacismo alla confusione concettuale generale e all’equiparazione della critica al governo di estrema destra israeliano con l’antisemitismo, promossa e diffusa a mezzo stampa? In questo caso, sta agendo conformemente o meno alle norme che giustificano l’istituzione universitaria in una comunità democratica?
Quando i concetti che usiamo per comprenderci e giustificarci, per organizzare il modo in cui parliamo, ragioniamo e agiamo, smettono di sostenere il confronto produttivo, creativo, la ricerca di soluzioni nuove a nuovi problemi, ma si pietrificano in assunti di principio, condanne forfettarie, violenza poliziesca, liste di proscrizione e autoritarismo, il compito dell’università è agire contro questa tendenza. Le pratiche concettuali, linguistiche e dialogiche non sono l’unica, ma sicuramente una delle tecnologie fondamentali che le comunità di animali umani mettono in opera coordinandosi e interagendo, fra sé e con il mondo che le circonda. La produzione e trasmissione di sapere riguardano, fra le altre cose, proprio la salvaguardia di questa tecnologia e il tenerla ben oliata. Quando l’istituzione che una comunità di animali umani ha inventato per far fronte a questo compito non adempie a esso, c’è un grosso problema.
Ora, questo problema non riguarda solo l’istituzione accademica, ma la società civile tutta. E la riguarda non tanto per il principio – che trovo un po’ astratto – della libertà d’opinione, del free speech, del discorso libero. Il discorso libero non è libero perché è arbitrario, ma è libero perché è giustificato, perché porta delle ragioni, cioè perché opera secondo delle norme giustificative cui gli individui che partecipano al discorso si obbligano contribuendo a esse, criticandole e riflettendole. Un’università che non sa riflettere, criticare, costruire spazi per riflettere e criticare, ma decide di sottomettersi alla violenza, di farsi ancella della repressione e dell’autoritarismo, non è un’università libera e non è un’università giustificata. Diventa l’organo di uno dei partiti più antichi della storia europea, quello della sopraffazione, l’avversario per eccellenza e per definizione di ogni società democratica.
Per concludere: il dibatto e lo spazio pubblici tedeschi si trovano in acque torbide. Alcuni atenei, non solo la Freie Universität, vi si sono bagnati. Sarebbe sbagliato, però, concludere sommariamente che tutta l’università tedesca, ma anche tutta la Freie Universität, così come tutta la direzione dell’ateneo, siano completamente impaludate in queste acque nere: se non ne fossi convinto, dovrei almeno sperarlo. Come scrive Ernst Bloch, certo non in riferimento all’università, ma alla fiducia nel progresso storico nonostante la sopraffazione capitalista:
“Dove gli snob parteciparono da traditori alla rivoluzione finché non fu scoppiata, rimane soltanto da pregare: dacci oggi la nostra illusione quotidiana. Dove il conto capitalista non torna più, il bancarottiere può spingersi effettivamente a rovesciare e spargere inchiostro sul libro dell’intera esistenza, così che tutto il mondo appaia nero come il carbone e nessun revisore chieda più ragione a questo creatore di tenebre. Tutto ciò è un inganno ben peggiore delle facciate scintillanti, che nessuno sopporta più. Il lavoro contro questo inganno, lavoro con cui la storia va avanti, con cui è andata avanti da tantissimo tempo, conduce alla cosa che può essere buona, non un abisso ma una montagna nel futuro. Gli esseri umani così come il mondo portano abbastanza futuro buono in sé; nessun progetto è buono senza questa fondamentale fiducia.”
Con questo voglio suggerire che è forte la tentazione di interpretare gli eventi di questo maggio berlinese ed europeo nei termini del pessimismo, o anche dell’ascrizione di colpe e di responsabilità. Forse ci sarà il tempo per questa ascrizione, forse non ci sarà. Questo è secondario. Le colpe e le responsabilità sono per i confessionali e per i tribunali. Ma la politica democratica – cioè, diciamo al minimo, l’organizzazione e riorganizzazione della società civile operata dalla società civile stessa – esige ben altro di solo colpe e responsabilità. Esige che una comunità umana – non solo coloro che lavorano alla produzione e alla trasmissione di sapere – si chieda: secondo quali principî e in quali modi si riarticola lo spazio pubblico? Quali regole e quali pratiche intendiamo darci, non solo ma anche per quanto riguarda la produzione e trasmissione di sapere e conoscenza? Come facciamo operare, come teniamo oliati i nostri concetti, i nostri argomenti, i nostri linguaggi, le nostre pratiche giustificative? E in questo rispetto almeno una cosa è certa: la violenza poliziesca e la sua invocazione non producono né trasmettono sapere o conoscenza, ma forza bruta e prigioni. Le anime non si cercano a forza di botte.
È da questa prospettiva e con questo interesse che vorrei leggere gli eventi di questa primavera tedesca. Se c’è qualcosa da imparare, non è che la stampa è corrotta, i governi complici, l’università addomesticata, il nazionalismo rampante, l’eccidio apparentemente inarrestabile. Piuttosto, è fondamentale che spazio e dibattito pubblici, in Germania e in Europa, abbandonino le acque nerissime della repressione e della violenza. Ed è essenziale che le università istituiscano spazi e discorsi per affrontare collettivamente – non autoritariamente – questo momento cupo della storia, almeno europea, e abiurino i manganelli.
Arrivato a questo punto, chiudo con alcune parole di un libro che ho già citato sopra, I cani del Sinai di Franco Fortini, che con meno enfasi ma, come Bloch, senza permettere alla disillusione di erodere il filo della politica, scrive:
“Due estremità mi sono certe: l’avvenire del mondo umano, almeno dalla mia a qualche altra generazione; e la mia sorte individuale. Questa è una fine qualsiasi di una biografia che non aspetta da se stessa, come ha fatto finora, se non verità indirette; quello è il conflitto tutto spiegato e lungo, non davvero finale ma conclusivo di un’era, per il comunismo mondiale. E in quello – che per varietà e violenza eversiva avrà bisogno di tutte le forze che dal passato muovono verso quel fine – troverà luogo anche il minimo segno tracciato da coloro che in questa estate europea senza speranza né onore usano, gravati da un incerto fastidio o da una rabbia inutile, dell’intelligenza e dalla passione residue e ripetono le due o tre verità senza fine che si sono illuminate per essi nel momento più alto o più basso della loro esistenza.”
Pezzo ripreso da: https://www.leparoleelecose.it/?p=49447
[Immagine: Polizia di Berlino, Bicicletta con cartella di Rudi Dutschke sul luogo dell’attentato, 1968]
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