IL
LINGUAGGIO DI GUTTUSO
Vincenzo Consolo
Ci sono giorni, tremendi giorni d’inquiete primavere, di roventi estati
senza fine, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda
luce, appare d’una evidenza estrema, insopportabile. Un mondo – cieli tersi di
cristallo, acque immote di basalto, terre spoglie di calcare – un mondo
attonito per la tragedia che appena s’è conclusa o sospeso nell’attesa del
disastro. È il mondo, la visione dello Stretto delle Crocifissioni di
Antonello. È l’agonia spasmodica, l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai
pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita,
campeggia la civetta; è il dolore che impietrisce e intenebra la Madre,
smarrisce il Fratello adolescente. Sì, nell’implacabile luce di Palestina,
Grecia o Andalusia, sopra i Golgota di Sicilia si sono alzate da sempre le
croci del martirio e del riscatto; nelle sue Argo, Tebe, Atene o Corinto si
sono consumate le tragedie; nella sua Messina, sopra i tavolati degli Iblei,
per la valle del Belice si sono succeduti i terremoti; per gli immensi fianchi
della sua Etna sono colate le lave d’ogni tempo. Nell’isola di giardini e di
zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e di fiele,
nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e
impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di fuoco, ha avuto il potere di
travolgere, di ridurre alla paura, al sonno, alla follia. O di nutrire
intelligenze, passioni, di fare il dono della comprensione, della capacità e
del bisogno del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto
scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso.
Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Acitrezza e la sua
Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria
– la Bagaria, la bagarria: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha,
dell’esplosione della vitalità, della ribellione -, un paese di polvere e di
sole, di tufo d’oro e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di Mostri e di chiare
geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce
aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro duro e inesorabile, il
gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo ultimo, mortale. La
salvezza era solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo
caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione, di
verità e di poesia. Verga peregrinò e s’attardò in «continente» per metà della
sua vita con la fede in un mondo irreale, di menzogna, parlando un linguaggio
di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della
rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli
cadesse dagli occhi ogni velo di errore, di illusione, perché scoprisse dentro
sé il mondo «solido e intatto» della sua memoria, ch’era stato sempre lì in
agguato, pronto a ghermirlo, a gettarlo giù dal cavallo dell’incoscienza sul
terreno della crisi, a fargli ritrovare il suo linguaggio. E ripartendo dalle
situazioni, dai luoghi estremi, dalle falde dell’Etna, da Tebidi, dalla cava
presso Monserrato, partendo da creature minime, innocenti, da Nedda, Jeli e
Rosso Malpelo, il rischio subito fu quello dell’«innesto» del naturalistico,
del dialettale nel linguaggio appena ritrovato («…quei corsivi che “bucano” la
pagina» dirà un critico). Ma poi, dalla casa del Nespolo, dalla lava
solidificata d’una immemorabile tempesta che sconfina e scioglie nel mare
infido e fatale di Acitrezza, il linguaggio uniformemente «irradiato» di dialettalità,
si fa sicuro canto, melopea, si fa parodo e stasimo della tragedia dei
Malavoglia, della tragedia umana. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla
lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono, o
Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere,
esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del
mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato
impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la
suggestione di un futurista come Pippo Rizzo: forte, all’epoca. ‘intimidazione
del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per
sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava a lui davanti a Bagheria;
destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua apparenza e nella sua
essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del
realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella
«dimora vitale» di Bagheria, si trovò a educarsi, il pittore da giovane, nella
realtà storica della Sicilia tra il Venti e il Trenta, in cui profonda era la
crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il
feudatario, con il suo campiere, e il contadino, decisa la volontà in ciascuno
dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò i morti di
Riesi e di Gela, che fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista
Orcel: colui che, da lì a qualche anno, salito su un aeroplano. avrebbe martirizzato
Guernica l’inerme, Guernica l’innocente: preludio infame di più vasti martini,
d’olocausti. Si stagliarono allora subito le «cose» di Guttuso nello spazio con
una evidenza e una vita straordinarie, parlarono di realtà assoluta e di
verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della
storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e
ombrello sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci
sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che «bucano» la tela, il linguaggio
loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro singolare, inconfondibile.
L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è il suo
Fantasticherie, è il manifesto, la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a
venire. La quale comincia, per questo pittore tragico d’una terra tragica, col
vasto poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della
natura. Della natura distruttiva. ineluttabile al pari di un’avversa deità, di
un «destino», che si presenta con la violenza di un vulcano. La Juga dall’ Eina
è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile
che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare
supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio
meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco –
fuoco grande d’un «utero tonante» – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni
creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno
umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano
verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non
c’è terrore nei bimbi; vengono avanti come valanga ostinata e orgogliosa di
vita, vengono con le loro azzurre falci. coi loro mossi buoi, i bianchi
cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di
Delacroix; vengono tutti, uomini e animali, vibranti di vitalità come le masse
di Gericault. Dall’allesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei
teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno,
sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una
cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi
misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’oflesa investe Favo in ogni
luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Coya, di Gongora, di Unamuno. La
Fucilazione in compagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo di
dolore e raccapriccio, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del
1941 riporta, come Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo
della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie vaganti
all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese
affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte
dell’Ammiraglio, Guttuso inchioda alla loro colpa, con questo scandalo, con
questo manifesto, i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima,
sacrificale, benedivano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui
ciecamente non s’avvidero i farisei di sempre, non era né la nudità delle
Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente
dei colori, lo scandalo era, come nella Flagellazione di Piero, in cui si
relegava in secondo piano il tema sacro e avanzava nel primo una conversazione
filosofica o civile, nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in
primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione,
anche Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. «Questo è
tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio
dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel
senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati […] ma come
simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro
idee…» scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione,
rintoccava come lugubre campana, voce rattenuta di dolore e di furore, la frase
d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Tornava l’eroe alla terra
delle madri, della memoria, per ritrovare senso e ragione nella follia della
storia, trovare nuovo linguaggio, «nuovi doveri». «Io ero quell’inverno in
preda ad astratti furori…» narrava. E sono, negli anni atroci della guerra,
ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a
spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di
attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a
dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti,
l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo
sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di
Bagheria, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme,
c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in
cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale
della zolfara.
In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante,
permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte
senza fine, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella
debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica disumana, dalla perenne paura
del crollo e della fine. Una pagina di tale orrore e di tale pietà solo Verga
l’aveva scritta con Rosso Malpelo (e in contrappunto Pirandello con Ciaula
scopre la luna). E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo
Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla
scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In
tutto poi il peregrinare per il mondo: nell’affrontare temi «urbani», ampiamente
storici, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai
il suo lin-guaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo
della tragedia per una ennesima empietà della natura, il terremoto nella valle
del Belice. E La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera
coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e
muto, come gli antichi cortei funerari, la marcia verso un’acropoli di
distruzione e di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga
dall’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da sicure mani, la lampada raggiante e
allarmante di Guernica, sono le lampade alle finestre nella notte dell’incendio
a Vizzini in apertura del Mastro don Gesualdo, e sono insieme il simbolo della
luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche le
realtà più estreme, più mude, più insopportabili, le realtà di ogni notte di
terremoto o di fascismo. Simbolo di una solare, guttusiana luce che ci aiuta a
risalire il colle anche nella notte del disastro e dell’alienazione, della
perdita del senso della realtà e della verità. Notte nella quale oggi stiamo
vivendo.
VINCENZO CONSOLO Sant’Agata
Militello, 16 agosto 1991
Pubblicato in forma diversa in Art e Dossier n.63 Giunti Editori.
Firenze dicembre 1991
Testo ripreso
dal sito: www.vincenzoconsolo.it
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