09 ottobre 2013

LE MASCHERE E I VOLTI DI NICOLA FIGLIA





Pubblico con particolare piacere questa mattina alcune riproduzioni di opere dell’artista di Mezzojuso (PA) Nicola Figlia accompagnate dal sommario profilo critico scritto da un caro amico:


Giuseppe Di Miceli - Mostraci il tuo volto

Nicola Figlia, come artista, nasce grafico. La sua crescita e la sua formazione sono quelle di un grafico. Ambito in cui, tra l’altro, ottiene lusinghieri riconoscimenti anche a livello nazionale. Col tempo, il desiderio di esplorare altre possibilità compositive, cromatiche, tecniche, lo porteranno a dedicarsi in egual modo anche alla pittura.

L’itinerario artistico è presto detto: da un inizio realistico in cui risente della lezione del nostro Guttuso e della grande esperienza espressionista, si orienta, a partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso verso un realismo grottesco per poi, metabolizzando l’arte bizantina e quella popolare siciliana (cartelloni dell’opera dei pupi e dei cantastorie, pittura dei carretti), sfociare in un territorio dichiaratamente metafisico, se non nel segno e nel soggetto, almeno nella metastoria che i suoi soggetti comunicano. A volte sembra che il risultato sposti tutto in ambito naif, ma un occhio scaltrito ne coglie subito le poche analogie e le molte differenze.





 Figlia riesce a far convivere nelle sue opere il racconto di singole o complesse vicende e la stasi, dovuta, questa, ad una intensa ma disincantata riflessione sulla condizione umana. Dove la pietas e l’ironia sembrano dominare.

E così abbiamo racconti in cui il livello compositivo, l’impaginazione, il taglio risultano fortemente personali anche perché Nicola spesso mette in disegno e/o pittura sequenze di storie letterarie, mitologiche, popolari, religiose poco rappresentate accanto a volti, volti, fortissimamente volti.

Il volto gli consente, forse più del racconto, di indagare quanto sopra detto. Culturalmente, alle spalle di questa ricerca sul volto vi è, oltre alle esperienze artistiche che vanno dal Quattrocento di Piero alla lezione picassiana, la sua comunità, il suo paese, Mezzojuso, dove le icone tardo bizantine e il grande Carnevale drammatico espresso nel Mastro di Campo costituiscono per Nicola un vero campo d’indagine.




“Mostraci, Signore, il tuo volto” e/o “mostrami, uomo, il tuo volto”. Un volto a volte ieratico, spesso sformato più che deformato, con grandi labbra, grossi nasi, grandi occhi, quasi protesi, per comunicare meglio. I sensi carnalmente accentuati.

In tutto questo colpiscono alcune costanti, come l’affollamento di volti, che, da un lato ci portano indietro, verso esperienze artistiche risalenti, per esempio, a Duccio e dall’altro a un vero horror vacui di impronta esistenziale, ma direi anche psicologica.


Lo stesso possiamo dire per la tendenza ad una impaginazione simmetrica, a volte maniacale, come ricerca di un ordine, di un centro di gravità rassicurante.

Forse Nicola è là: tra il caos del nostro Carnevale e il cosmos dell’icona bizantina e - perché no? - della classicità greca. La sintesi è un’umanità che la sua sofferenza non la grida più (come gli rimproverava Franco Grasso) ma la rivela nei tratti dei volti: rassegnati di una ironica rassegnazione come condizione umana? Probabilmente.

Dico “probabilmente”, perché noi non possiamo attenderci da un artista ferree e sicure costruzioni logiche senza sbavature. Ricorrendo a Montale, siamo costretti a non poter chiedergli parole, formule, rivelazioni che squadrino da ogni lato l’animo nostro informe, ma solo segni, di-segni che ci trafiggono e ci inchiodano ad una non banale riflessione. E mi sembra abbastanza.



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