RIFORMA ILLEGITTIMA DI UN PARLAMENTO ILLEGITTIMO
Alessandro Pace
La ragione che già di per sé sola dovrebbe indurre gli elettori a votare No nel prossimo referendum costituzionale, è che il Parlamento eletto per la XVII legislatura è stato dichiarato radicalmente illegittimo dalla Consulta,
avendo l’abnorme premio di maggioranza previsto dal Porcellum
determinato un’«eccessiva sovra- rappresentazione della lista di
maggioranza relativa», in violazione della rappresentanza elettorale,
della parità del voto dei cittadini e della stessa sovranità popolare
(così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014).
Infatti,
per limitarci agli esempi più rilevanti, grazie al Porcellum, il Pd
anziché 165 seggi ottenne 292 seggi, mentre il PdL anziché 148 seggi ne
ottenne 97, la lista Monti anziché 57 ne ottenne 37 e il M5S anziché 166
ne ottenne 108. In forza degli ovvii fondamentali principi delle
democrazie parlamentari, avrebbe quindi dovuto disporsi l’immediato scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica e la convocazione dei comizi elettorali per un nuovo Parlamento.
Tuttavia
la Corte costituzionale — alla luce dell’altrettanto ovvio principio
secondo il quale le leggi elettorali sono «”costituzionalmente
necessarie”, in quanto “indispensabili” per assicurare il funzionamento e
la continuità degli organi costituzionali» — opportunamente avvertì che
lo scioglimento delle Camere non avrebbe potuto avvenire se non dopo l’approvazione di nuove leggi elettorali, rispettose della rappresentanza elettorale e della parità del voto.
Pertanto,
le leggi che fossero state successivamente approvate nella XVII
legislatura — ancorché viziata — , avrebbero dovuto essere considerate
legittime grazie al «principio fondamentale della continuità dello
Stato» e dei suoi organi costituzionali (così, ancora, la Corte): un
principio che però — si badi bene — non si pone, né si può porre, come
“alternativo” al principio democratico: irrispettoso del voto popolare
come fonte di legittimazione dell’operato delle Camere. Il che è tanto
vero che nelle ultimissime battute della sentenza n. 1 del 2014, la
Corte, nel richiamare gli articoli 61 e 77 della Costituzione, fa
chiaramente comprendere che il principio della continuità avrebbe potuto valere tutt’al più per pochi mesi.
Ciò
nondimeno, appena quattro mesi dopo la pubblicazione della sentenza
della Consulta e due mesi dopo la costituzione del suo governo, il
premier Renzi dava irresponsabilmente inizio ad un percorso di riforma
costituzionale, che le opposizioni immediatamente e ripetutamente
criticarono, in via preliminare, sia al Senato (e poi anche alla
Camera), perché il disegno di legge Boschi si poneva in plateale contrasto con la sentenza della Corte costituzionale.
Notevole e assai importante, in tal senso, è il documento contenente la
questione pregiudiziale posta dai senatori Crimi, Endrizzi, Magili,
Morra e altri (M5S), presentato il 4 luglio 2014, ovviamente respinto
dalla maggioranza.
È bensì
vero che, in quei primi mesi del 2014, lo scioglimento anticipato delle
Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund
tedesco e quindi in quel momento era sconsigliabile. Tuttavia altro
è continuare, nell’ordinaria funzione legislativa e di controllo, con
un Parlamento delegittimato, ma per un periodo limitato del tempo, altro
è l’azzardo istituzionale di dare inizio ad una mega riforma
costituzionale con un Parlamento viziato dall’«eccessiva
sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa», con
parlamentari “nominati” insicuri di essere rieletti e perciò esposti
alla mercé del migliore offerente (le migrazioni da un gruppo all’altro sono state ben oltre 300!).
Non sto
qui a ricordare le palesi violazioni procedurali che hanno costellato
il procedimento di riforma costituzionale (irrituali sostituzioni di
componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato,
privazione delle opposizione del diritto di avere un relatore di
minoranza, applicazione del metodo del “super canguro” per porre fuori
gioco gli emendamenti delle opposizioni, e così via) che hanno abbassato
il disegno di legge Boschi a livello di una qualsiasi legge ordinaria,
né sto a lamentare ancora una volta le plateali violazioni
costituzionali poste in essere dalla riforma Boschi da me ripetutamente
evidenziate in questo giornale.
È infatti sufficiente ricordare che questa riforma
— pasticciata e incostituzionale perché viola l’elettività diretta del
Senato, il principio di eguaglianza e di razionalità nella composizione
del Senato, la rilevanza costituzionale delle autonomie regionali e così
via — è stata criticata da ben dieci ex presidenti della Corte costituzionale. Il che non era mai accaduto finora.
Piuttosto è doveroso sottolineare che, nonostante la sua gravità, la
violazione della sentenza della Corte e l’illegittimità della XVII
legislatura sembrano esser state “rimosse” dalla memoria dei sostenitori
del Sì (penso all’intervista di Giorgio Napolitano del 10 settembre su questo giornale) o, quanto meno, “dimenticate” dai sostenitori del No (alludo a Massimo D’Alema, che ritiene che la XVII legislatura andrebbe sciolta alla sua scadenza del 2018!).
La gravità dell’accaduto è invece tale da configurare — qualora l’esito del referendum fosse positivo — un “fatto eversivo” della vigente Costituzione,
che pertanto inciderebbe, con la forza del “potere costituente”, sui
rapporti Stato-Regioni (e quindi sulla forma di Stato), sulla forma di
governo nonché sulla stessa Parte prima della nostra Costituzione.
Cioè
sulle forme di esercizio della sovranità popolare, sul principio di
eguaglianza, sulla libertà di voto e sugli stessi diritti sociali. Il
che avverrebbe grazie ad un Parlamento privo di contro-poteri, con un
Senato ridotto ai minimi termini e incapace di funzionare e con i
diritti delle opposizioni rimesse ai regolamenti parlamentari alla mercé
della maggioranza.
Alessandro Pace, costituzionalista, Presidente del Comitato del NO.
Alessandro Pace, costituzionalista, Presidente del Comitato del NO.
Testo ripreso da La Repubblica, 3 novembre 2016
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