Il gioco dei bottoni
Salvatore Lo Leggio
A
li pumetta o – in forma contratta - a li pumé erano i giochi in
cui li pumetta (i
bottoni) erano nello stesso tempo strumento del gioco e posta. A
seconda della grandezza i bottoni avevano un valore convenzionale.
L'unità di misura era rappresentata dal caconci
(i bottoncini della patta dei pantaloni, in Sicilia chiamata
granatera); i bottoni
più grandi valevano due, tre, cinque, fino a dieci caconci. Tanto
valeva quello enorme usato in certi cappotti femminili e detto
palanguni. Si giocava
con qualsiasi tipo di bottone, a scelta del giocatore, che optava per
questo o quell'altro sulla base del tipo di gioco, dell'abitudine o
della disponibilità; ma il pagamento avveniva in caconci
e solo quando si perdeva ci si privava dei bottoni più grandi, di
preferenza utilizzati nel gioco.
I
giochi, insieme di abilità e di fortuna, esclusivamente maschili, si
svolgevano nelle strade del paese.
A la chianté (o
a la chianteddha) era
un gioco che aveva bisogno di un muro. Raramente si giocava di
unu, più spesso di
dui o di tri caconci.
I giocatori stabilivano l'ordine con il tuoccu.
una conta che aveva regole da rispettare e richiedeva una vigilanza
occhiuta da parte dei contendenti e degli spettatori. Si roteavano i
pugni chiusi, poi uno dei competitori prima selezionato gridava
“Tuoccu i'”. A
questo punto si dovevano squadernare le mani con le dita aperte che
indicavano il numero, da uno a cinque, ovviamente, che, sommato agli
altri numeri dava la cifra che consentiva la conta, da svolgersi in
senso orario. Poi i giocatori lanciavano a turno un bottone verso il
muro con la parte convessa rivolta verso l'alto. C'erano più turni
di lancio, a seconda della posta in gioco. Vinceva chi riusciva a
fare andare un proprio bottone più vicino al muro, ma si poteva
giocare, come con le bocce, a scombinare la posizione dei bottoni
degli altri (a scunsari).
Se più di un bottone toccava la base del muro i lanciatori erano
considerati pari merito, ma il massimo risultato era quando si
riusciva a farlo poggiare come uno specchio alla parete: in dialetto
dicevamo 'n toletta,
visto che toletta era lo specchio collocato sul lavamano, sul comò o
sulla “pettiniera” per fare appunto la toilette
(anch'essa toletta,
nel nostro siciliano).
Stabilita
una classifica precisa (ricorrendo al tuoccu
nel caso di pari merito), la distribuzione della posta avveniva
facendo a testa e cruna
(il “testa e croce” del continente) come se i bottoni fossero
monete: si considerava testa
il lato convesso e cruna
(corona) l'altro, piano o concavo che fosse. Il primo agitava
(sbattuliava) i
bottoni nel vuoto che si creava tra le mani intrecciate, per poi
lasciarli cadere a terra. Guadagnava tutti quelli in posizione di
testa. Il secondo ripeteva l'operazione con i bottoni rimanenti. E
così avanti fino al loro esaurimento.
Una
variante del gioco, quando non era disponibile un muro, era la
chianté-sima. Si
tracciava sulla via una riga diritta (sima,
appunto, dal greco semainein,
segnalare), col gesso se era bitumata o ammattonata, altrimenti con
un bastoncello o un sasso puntuto. Il bottone lanciato doveva
arrivare il più vicino possibile alla riga, non importa se prima o
dopo di essa. Il risultato migliore possibile era che vi si ponesse a
cavallo: veniva chiamato, appunto, sima
ed era l'equivalente della 'n toletta
della chianté; è
implicito che chi poteva utilizzava bottoni più grandi per coprire
uno spazio maggiore. La distribuzione della posta in palio avveniva a
testa e cruna, con la stessa procedura del gioco da muro.
Assomigliava
alla chianté-sima il
gioco chiamato lu munti.
La variazione riguardava i bottoni che superavano la sima,
o perché lanciati troppo in avanti o perché spinti oltre la riga
dagli avversari: venivano messi fuori gioco, andavano “a monte”,
a lu munti. Immagino
che l'espressione, in Sicilia e in continente, abbia la sua origine
nei “Monti di Pietà”, ove la maggior parte dei pegni lasciati in
garanzia andavano in realtà perduti e venduti all'asta. Il “monte”,
cioè l'insieme dei bottoni messi fuori gioco, veniva attribuito al
giocatore risultato primo. Il testa e cruna
si faceva solo con i bottoni rimasti in gioco.
Attraverso
questi giochi si costruivano collezioni di pumetta
importanti per quantità e qualità. C'erano ragazzini che arrivavano
a possedere mille o duemila caconci, ma era fonte di prestigio
possedere anche bottoni inconsueti, di materiale, forma o colore rari
o strani, fossero o non fossero palanguna.
Quando
arrivarono le prime avvisaglie del miracolo economico, tra il 57 e
59, anziché bottoni si cominciarono a giocare soldini: l'unità di
misura, equivalente del caconci,
erano le cinque lire col pesciolino, ma era permesso utilizzare le
dieci o, quando furono introdotte, le 20. Il gioco preferito era lu
munti, ma si praticava sempre
meno lungo le strade, ove le automobili, le vespe e le lambrette
s'erano fatte più numerose, e sempre più sui sedili di granito
della piazza principale (Piazza XX Settembre) o della piazzetta della
vasca (Piazza Costanzo Ciano). Andavano a monte le monetine che
cadevano giù dal sedile, anche lateralmente. Rigorosamente con le
cinque lire si giocava anche lo spaccamaduni
o spaccamattuni.
Bisognava che le monetine lanciate in alto, ricadendo sulla
pavimentazione, si trovassero il più lontano possibile dalle righe
divisorie, verso il centro dei mattoni di bitume, di formato 10 per
20. Per la misurazione della distanza dal margine nascevano non di
rado contenziosi che richiedevano l'intervento di un arbitro estraneo
al gioco.
Da http://salvatoreloleggio.blogspot.it/
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