Germano Beringheli - La scultura di Arturo
Martini innovatore dall'anima classica
Dovessi definire
sinteticamente la scultura di Arturo Martini (Treviso 1889-Milano
1947) la riassumerei con due aggettivi specifici e accorpati, in uso
quando l'espressione artistica era ancora determinata dalla realtà e
dall'estetica: la direi, infatti e tout court, figurativa e
naturalistica.
Per formazione
dell'artista, anzitutto, da autodidatta ben consapevole della
necessità di imparare il mestiere e informato, anche, dell'incontro
con culture distinte e polivalenti: quella iniziale del pittore
veneziano Gino Rossi (influenzata dalle esperienze dei simbolisti e
dei nabis francesi) e la matura dello scultore tedesco di Monaco
Adolf von Hildebrand sulla sua adesione ai principi della
puro-visibilità.
Aspetti, perciò,
percettivi e razionali in chi aveva esercitato, nella propria città
natale, una prima esperienza d'amore artigianale per la materia e, in
particolare, per la creta. Cognizione ideologica, dunque, e pratica,
apprese in una fabbrica di ceramica e approfondite guardando alcuni
bozzetti del Canova veduti nella vicina Possagno. In seguito Martini
aveva frequentato, per gli insegnamenti fondamentali, gli studi di
Carlini a Treviso e di Nono a Venezia e poi, nell'ottica delle
avanguardie europee, ne aveva sublimato i principi con penetrante
lucidità e stile estremamente incisivo come ne scrisse, nel 1966,
Guido Perocco paragonando la ricerca continua del veneto, esternata
fra realtà e fantasia, con quella pittoresca, di origini etrusche ed
egizie e di dilatazione neoclassica, dell'architetto Giovanni
Battista Piranesi (pur esso, guarda caso, nato in provincia di
Treviso).
Importante per la
riuscita della sua scultura fu, per di più, la coesistenza con i
protagonisti della scena estetica internazionale del tempo, per cui -
mischiando i modi antichi del Laurana e le forme moderne di Brancusi
con gli ordini etruschi e romani - gli furono, certo, di grande aiuto
i viaggi, assieme a Gino Rossi, a Parigi dove, attraverso Modigliani
e Boccioni, seppe dei contributi stilistici di Cézanne, degli
sviluppi delle ricerche dinamiche del Futurismo e di quelle post
cubiste sulla luce.
Se la scultura solenne e
monumentale di Martini, fu tratta dalla fisicità della natura, del
paesaggio e dell'architettura (figure comprese e si pensi,
particolarmente, a Il figliolo prodigo, del 1926, o a L'attesa, del
1930 e alle tante committenze posteriori), vale affermare come e
quanto il contenuto plastico delle sue terrecotte giganti, quali Il
benefattore o delle minori, colorate, abbia la stessa espressività,
plastica e simbolica dovuta alla sintesi metafisica delle forme e al
mito primitivo propugnato da Valori Plastici
Non a caso, infatti,
Arturo Martini - che negli anni '40 era pervenuto alle soglie
dell'astrazione e, conseguentemente, nel 1945, alla pessimistica
consapevolezza dello scritto La scultura lingua morta - visse, per
molti anni, a Vado Ligure, dove si era sposato e aveva comperato una
casa con l'importo di un primo premio a una Biennale di Venezia. Fu
perciò, oltre che il più importante scultore europeo del Novecento,
un grande ceramista e tanti suoi lavori - sculture e terrecotte,
realizzate anche presso le manifatture La fenice di Albissola e Ilca
di Nervi - valorizzano collezioni pubbliche e private. A Savona
l'amicizia di Manlio Trucco e di Giuseppe Mazzotti, assieme alla
stima dei Barile e del genovese Mario Labò, gli consentirono,
infatti, un ulteriore e personale accrescimento per la forma
artistica della terracotta, già coltivata in gioventù.
Il Museo di Vado Ligure,
Savona e la sua Cassa di Risparmio e la città di Acqui Terme
ospitano sue tante e importantissime opere. In realtà, con la
terracotta e la pietra, Martini riportò consapevolmente il
linguaggio plastico alle forme dell'espressione primaria.
(Da: La Repubblica del 15
settembre 2013)
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