07 ottobre 2013

OMAGGIO A MILES DAVIS






Un volume (appena tradotto) restituisce, ad appassionati e non, il ritratto inedito di un grande artista e anche un bel pezzo di storia musicale d'America. Ne riportiamo qualche pagina insieme ad una breve nota di Paolo Fresu.

 


 Miles Davis - Suonala ancora Davis

Vuoi che ti racconti dove sono nato, sempre 'sta vecchia storia? Nella lontana Alton, Illinois. Nel 1926. Ho dovuto chiamare mia madre una settimana prima del mio ultimo compleanno per chiederle quanti anni avrei fatto!

Ho iniziato a suonare la tromba alle elementari. Una volta alla settimana si provava a tenere le note lunghe. Il mercoledì alle due e mezzo. Facevamo a gara a chi suonasse meglio. Per fortuna, ho subito imparato a suonare la scala cromatica. Un amico di mio padre una sera mi portò un libro e mi mostrò come fare, così non avrei dovuto starmene ogni volta lì seduto a tenere la nota più lunga. Mia madre voleva regalarmi un violino per il mio compleanno, ma mio padre invece scelse una tromba; le voleva proprio un bene dell'anima!

C'era un insegnante davvero bravo in città. Si stava facendo mettere a posto i denti da mio padre. È stato lui a convincerlo a regalarmi la tromba. Ci raccontava delle jam session allo Showboat, di trombettisti come Bobby Hackett e Hal Baker. «Suonate senza il vibrato» ci diceva. «Quando sarete vecchi, vi metterete a tremare comunque» diceva. «Niente vibrato!». È così che provavo a suonare. Rapido e leggero: niente vibrato.

A sedici anni ero già in una band (The Blue Devils) a East St. Louis. Sonny Stitt arrivò in paese con il suo gruppo e una sera ci sentì suonare. Mi disse: «Assomigli a un tale che si chiama Charlie Parker e suoni proprio come lui. Sali sul palco con noi».Quelli che stavano con lui avevano i capelli leccati all'indietro, erano vestiti con lo smoking e mi offrivano sessanta bei dollari alla settimana per suonare con loro. Andai a casa e chiesi a mia madre se potevo seguirli. Disse di no, dovevo finire l'ultimo anno delle superiori. Non le rivolsi la parola per due settimane. E non partii nemmeno con la band.

A St. Louis avevo già sentito parlare di Charlie Parker, avevo persino suonato lì con lui, quando ero ancora alle superiori. Al tempo, provavamo sempre a imitare Diz e Charlie Parker. Quando venimmo a sapere che sarebbero arrivati in città, il mio amico e io fummo le prime persone ad arrivare in sala, con la tromba sotto il braccio. Diz mi si avvicinò e disse: «Figliolo, ce l'hai la tessera del sindacato?». «Certo», risposi. Così quella sera presi parte allo spettacolo assieme alla band. Non riuscivo a leggere le note perché non potevo fare a meno di ascoltare Diz e Bird mentre suonavano. Poi il terzo trombettista si ammalò.

Io la partitura la conoscevo perché amavo così tanto quella musica da sapere la terza voce a menadito. Così suonai con il gruppo per un paio di settimane. In quel momento, dovevo assolutamente andare a New York.

Mia madre voleva che andassi alla Fisk University. Iniziai a sfogliare Esquire e le chiesi: «Dove la trovo questa roba?». Poi lo chiesi a mio padre. Disse che non dovevo andare alla Fisk. Che potevo trasferirmi nella grande New York.

Ci arrivai a settembre. Un mio amico frequentava la Juilliard, per cui decisi di andarci anch'io. Passai la prima settimana a New York in cerca di Charlie Parker spendendo il sussidio di un mese. Divisi casa con lui per un anno. Lo seguivo ovunque andasse, lungo la Cinquantaduesima Strada, dove suonava di solito. Poi faceva suonare me. «Non avere paura», mi diceva. «Fatti coraggio e suona». Ogni notte, scrivevo sulle bustine di minerva gli accordi che orecchiavo. Tutti mi davano una mano. Il giorno dopo, invece di andare a lezione, ripetevo quegli stessi accordi tutta la giornata nella sala studio della Juilliard.

Iniziai a scrivere musica solo dopo aver incontrato Gil Evans. Mi disse di scrivergli qualcosa e di mandarglielo. Così feci. Era quello che strimpellavo al piano. Poi scoprii che era meglio fare senza (alla Juilliard avevo preso alcune lezioni di pianoforte, ma non abbastanza.) Se non sai suonarlo sufficientemente bene, ci rimani seduto davanti per ore e ore senza cavarne granché. Se sai ascoltare una nota, la sai anche suonare. Le mie note avevano un suono acuto, erano le uniche che potevo suonare in quel momento, non mi viene in mente nessun'altra nota che fosse meno adatta. Il blues non lo impari. Lo suoni e basta. All'armonia non ci penso neanche. Viene fuori da sola. Impari dove sistemare le note in modo che suonino bene. Solo che non lo fai perché l'accordo è particolare. All'inizio cambiavo le cose perché così mi piaceva sentirle; sostituivo progressioni e cose del genere. Ora i miei gusti sono migliorati.

Se mi piace di più comporre o suonare? Non so risponderti. Quando suoni ci sono certe sensazioni che non ti arrivano quando componi. E poi, quando suoni, è comunque quasi come scrivere una composizione. Butti giù lo schizzo.

Cosa mi piace suonare? Mi piace 'Round About Midnight. A dire il vero, mi piacciono quasi tutte le ballad. Se mi va di suonarle. Che cosa penso del mio modo di suonare? Non ho nessuno dei miei dischi. Non sopporto di ascoltarli dopo averli registrati. Gli unici che mi piacciono davvero sono quelli che ho appena fatto con Gil Evans (Miles Ahead), la registrazione della data con J. J. (Johnson) per la Blue Note circa quattro anni fa e un'altra che ho fatto con Charlie Parker.

I giornalisti dicono che sono maleducato, che volto le spalle al pubblico e che non mi piacciono i bianchi. E nemmeno il mio pubblico. Ma il fatto è che non penso mai al pubblico. Penso solo alla band. E se la band è a posto so che anche il pubblico è soddisfatto. Non devo tenerlo per mano. Credo che il pubblico sia più avanti di quanto credono i musicisti. Vedi, non sarebbero lì se non gli andasse di ascoltarti, per cui non devi fregarli facendo credere loro che quella che fai è grande musica. Mi sa che sanno giudicarlo da soli. Se non ti piace non devi fartela piacere, se ti piace passerai una bella serata. Se vado a un concerto, la prendo così.

E poi la gente ormai dovrebbe saperlo, che non sto lì a sorridere o a fare lo Zio Tom. Sono lì per dare il meglio di me stesso. Ho un labbro spaccato e suono lo stesso. Non cerco di fare il figo. So che aspetto ho. Non faccio il coglione con la moglie di nessuno. Se voglio una donna vado e me la prendo: capisci quello che intendo dire? Per questo, me ne sto lì solo a suonare. Sono uno normale. In realtà un po' all'antica. Sono un tipo a posto.

Con questo non voglio dire che non mi importa niente del pubblico. Non mi andrebbe a genio di starmene lì seduto a suonare senza che piaccia a nessuno. Se è un pubblico numeroso, mi fa piacere perché rimangono lì in ogni caso. Se c'è poca gente, a volte non importa. Mi diverto ad ascoltare e suonare con la mia sezione ritmica. Sto sempre studiando e sperimentando.

So che tutti hanno un qualche senso del ritmo e che sentono quando la roba è buona. Bisogna essere invalidi per non darlo a vedere, anche solo tamburellando con le dita. Non c'è bisogno di applaudire. Non cerco mai gli applausi.

In Europa, ogni cosa che fai piace a tutti; le stecche e tutto il resto. È un po' troppo. Se suoni bene per otto battute è sufficiente. In fondo se suono lo faccio per me stesso. Non vado in giro a raccontarlo.

Paolo Fresu - Intelligente, sarcastico, divertente un trombettista (nero) a bordo piscina

È incredibile — e lo dico da grande appassionato di Miles e da trombettista che gli deve molto — quanto la scoperta di un altro Davis ancora più intelligente, sarcastico e perfino divertente lo ponga sempre più nell'Olimpo dei grandi. Attraverso le interviste a Miles si coglie totalmente la pregnanza della sua musica attraverso il racconto della sua vita che, come per Chet Baker e per molti altri in quegli anni, non trascorse di certo tra casa e chiesa.

Davis, come tutti, era principalmente un uomo dotato di grande perspicacia e di doti musicali straordinarie, ma anche consapevole dei suoi difetti che, in alcuni casi, diventavano il grimaldello per aprire le porte chiuse e la chiave del suo successo.

Affiora così il suo rispetto per gli uomini schietti, l'amore per i neri e l'odio per i bianchi (non tutti) prevedibili, incongruenti e senza un ampio catalogo di espressioni facciali. Un'idiosincrasia per i giornalisti stupidi e scontati, oltre che una passione per il buon gusto: quello delle Ferrari, delle case e dell'abbigliamento. Ma questo lo sapevamo già. Miles dipinge il mondo attraverso la sua visione accurata e sottile, quasi fosse la sua musica in perenne movimento. Mai ferma in uno stile e sempre pronta a indagare nel nuovo non ancora definito e dai traguardi lontani.

E se il suo stile era imprendibile e non fotografabile, i suoi punti di vista sui colleghi (interessanti quelli su Chet Baker, Dizzy Gillespie, John Coltrane, Gil Evans, Clark Terry...) sono netti e senza fronzoli come quelli sul mercato discografico, sul suo entourage o sugli Stati Uniti dell'epoca postbellica e sull'Europa. Un'intervista pubblicata su Cavalier si conclude in modo esilarante. Racconta il giornalista, Lionel Olay: «Dopo avere intervistato Miles al bordo della piscina, i pochi bagnanti se ne stavano in costume solo per prendere il sole. Pertanto, Miles aveva la piscina tutta per sé. Affiorando in superficie per prendere un po' d'aria, passò accanto a me, si appoggiò al bordo con uno sguardo d'intesa e sussurrò: "Ora capisci cosa significa essere un nero. Nessuno vuole fare il bagno con te". E per la prima volta infranse la sua freddezza e mi fece l'occhiolino».

Beh, mentre leggevo, da solo nella sala di una nave che solcava il Tirreno, ridevo come un matto. Chissà cosa avrà pensato chi in quel momento mi stava osservando. E non so perché, ma anche ascoltando la stupenda e crepuscolare Round About Midnight del 1956 si ha l'impressione di una solarità che è scura quanto la sua pelle ma, allo stesso tempo, luminosa come il sole. Il Prince of Darkness ancora una volta ci ha preso in giro.


(Da: La Repubblica del 22 Settembre 2013)










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