Uno stabilimento balneare nella Palermo di 50 anni fa
Gli spaghetti con le vongole da Spanò, a Romagnolo
Simonetta Agnello Hornby
Spanò era famoso per la
pasta con le vongole (piatto di cui ero ghiottissima), ne sentivo
parlare da sempre e non mancavo mai di guardarlo con occhi golosi
quando ci si passava davanti. Costruito su palafitte di legno a
Romagnolo, alle porte di Palermo - in una zona rinomata agli inizi
del secolo per gli stabilimenti balneari e poi, nel dopoguerra, per
la mafia dei mercati generali -, il ristorante aveva mantenuto una
certa dignità, nonostante i numerosi rattoppi in diversi toni di
azzurro, tutti rigorosamente diversi dall’originale, e benché
fosse incastrato tra due stabilimenti frequentati più da gatti
randagi che da bagnanti. Il proprietario aveva abbellito la
passerella con vasi di gerani; a ogni passo le travi scricchiolavano,
ma io, totalmente presa dalla nuova avventura, pensavo solo alla
pasta con le vongole.
Uno zio mi aveva
raccontato dei ristoranti di Roma, la capitale. Erano ottimi,
costosi, e vi si incontravano spesso i deputati - una casta a sé,
poco amata nella mia famiglia. C’erano anche i ristoranti in cui si
cucinavano pietanze di paesi stranieri: ricordo la storia
raccapricciante del ristorante cinese dove si servivano nidi
d’uccello in brodo e uova tenute a marcire per anni sotto terra.
Secondo me, i ristoranti erano posti dove la gente mangiava quando
era lontana da casa per lavoro o per diletto e non poteva andare a
pranzo da parenti o amici. Non dubitavo, come del resto non ne
dubitavano i miei genitori e tutti i nostri parenti, che nelle nostre
case si mangiava meglio che in qualsiasi ristorante di Sicilia. Ma la
pasta con le vongole di Spanò faceva eccezione. Quella era unica, la
migliore. E io stavo andando proprio lì. Da Spanò. Con mio padre.
Cos’altro avrei potuto desiderare?
Ricordo il capannone
pieno di tavoli con la tovaglia candida e i posti conzati — quasi
deserto. Papà mi aveva raccomandato di non chiedere niente, di non
bere l’acqua - era inquinata - e di prendere per frutta soltanto
banane, se ce n’erano, “gli spaghetti alle vongole meritano, il
resto lascia a desiderare”. Aspettavamo di essere serviti; il
capannone intanto si riempiva di gente - gli habitué entravano e
sedevano rumorosamente, conversavano tra loro e con i camerieri che
chiamavano per nome, discutevano della pesca della notte e
sceglievano sapientemente il meglio; al momento di mangiare, silenzio
assoluto fin quando il primo piatto era quasi vuoto e la fame era
stata allontanata. Allora gli avventori si lanciavano con rinnovato
entusiasmo nella conversazione - il piacere vero e proprio -,
mangiando le ultime forchettate, intingendo il pane nel sugo,
succhiando le teste delle triglie fritte, i gusci dei gamberoni e
perfino le lische.
Numerosi i solitari.
Pensai che quelli dovevano essere gli amici di papà, i
rappresentanti di commercio. Erano di casa, da Spanò: sceglievano
rapidamente dal menu che conoscevano a memoria, aspettavano
impazienti, si buttavano sul cibo con voracità; poi anche loro
rallentavano. Ma ecco che era già il momento di pagare, di nuovo in
fretta, e di rimettersi in viaggio. Uno, seduto accanto a noi,
all’apice del piacere, la forchetta ancora in mano con infilzato
l’ultimo boccone di dentice, masticava piano e guardava languido
Monte Pellegrino attraverso le vetrate, in attesa del conto. Arrossì,
quando il cameriere dovette scuoterlo per farsi pagare, e io mi
sentii complice.
Nessuna pietanza è
all’altezza degli spaghetti alle vongole di Spanò, che ho
rivisitato di recente grazie alle meditazioni di Brillat-Savarin. Ho
ricordato l’unica donna che quel giorno sedeva al ristorante, una
giovane con il suo innamorato: pasta con le cozze lui, con le vongole
lei, e si imboccavano a vicenda. La ragazza succhiava il mollusco con
voluttà, gli occhi negli occhi di lui. Noi avevamo finito di
mangiare e papà chiacchierava con il cameriere. In bocca avevo
ancora il gusto delle vongole e sulle dita l'odore di aglio e di olio
– non c'erano lavadita da Spanò. Guardavo la giovane coppia e
sentivo uno strano benessere. Mi ritornò, imperiosa, la fame. Di
vongole e di spaghetti ma anche di altro.
Da Simonetta Agnello
Hornby, Maria Rosario Lazzati, La cucina del buon gusto,
Feltrinelli, 2013
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