Il '68 sarà segnato
dall'eccidio di Avola, l'ultimo di una lunga serie
iniziata già nell'immediato dopoguerra e causata da una gestione dell'ordine pubblico basata sull'uso indiscriminato
delle armi. Furono i primi segnali che, se, come diceva qualcuno, il
'68 era una festa, ora la festa era finita. Poi nel '69, il nuovo eccidio di Battipaglia, la strage di
Piazza Fontana e la morte in questura di Pinelli ci confermarono
che lo Stato aveva dichiarato guerra a chi non accettava più lo
stato di cose esistente. Iniziavano anni difficili.
Fabio Albanese
“Mio padre ammazzato ad Avola nella protesta dei braccianti. Dopo 50 anni nessun colpevole”
Il 2 dicembre del 1968, durante uno sciopero generale a sostegno della vertenza salariale dei braccianti agricoli di Avola, la polizia sparò sui manifestanti: due di loro morirono, altri 48 rimasero feriti, cinque in maniera grave. Per quelli che sono passati alla storia come “i fatti di Avola” non c’è mai stato un processo, non è mai stato individuato un colpevole.
Avola si prepara a commemorare i cinquant’anni da quel drammatico episodio che fece poi da apripista all’approvazione dello Statuto dei lavoratori e alla legge sul disarmo delle forze dell’ordine durante scioperi e manifestazioni. Paola Scibilia, figlia di Giuseppe, una delle due persone rimaste sul terreno quel giorno, invoca giustizia per il padre che, quando morì, aveva 47 anni e tre figli da crescere, e per l’altra persona uccisa, Angelo Sigona, 29 anni: «Non ce l’ho certo con lo Stato - dice la donna, 59 anni - noi abbiamo sempre avuto fiducia nello Stato, mio figlio è un poliziotto, ma vorremmo sapere chi è stato, chi ha ucciso mio padre e perchè».
Quel lunedì 2 dicembre di 50 anni fa Avola si era fermata. Da una decina di giorni i braccianti agricoli della zona sud della provincia di Siracusa, dove si coltivavano e si coltivano mandorle e olive, chiedevano agli agrari di equiparare la loro paga giornaliera di 3110 lire e l’orario di lavoro a quelli dei lavoratori della parte nord del Siracusano, dove si producono agrumi. Inutilmente, nonostante la mediazione della prefettura e nonostante la differenza fosse di 300 lire in più e di mezz’ora di lavoro in meno (da 8 ore a 7 ore e mezza). Un gruppo di manifestanti bloccava il transito sulla statale 115 alla periferia del paese, in contrada Chiusa di Carlo, lì dove ora sorge l’ospedale di Avola e dove un cippo e una lapide ricordano cosa accadde.
C’era l’ordine di
sgomberare e, come scrive lo storico locale Sebastiano Burgaretta che
ai Fatti di Avola ha dedicato un libro e la vita, nonostante il
tentativo di mediazione del sindaco dell’epoca, Giuseppe Denaro,
che fu tra i testimoni, «intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa
dott. Samperisi dà ordine, e il reparto Celere fatto venire da
Catania compie l’opera; dopo venticinque minuti di fuoco restano
sul terreno due morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48
feriti, tra cui i più gravi sono cinque: Salvatore Agostino, detto
Sebastiano, Giuseppe Buscemi, Giorgio Garofalo, Paolo Caldarella,
Antonino Gianò». Sul terreno, disseminato di pietre lanciate dai
manifestanti per difendersi, verranno raccolti oltre due chili di
bossoli.
L’accordo
La procura di Siracusa aprì un’inchiesta, lo stesso fece il ministero dell’Interno che dopo poche ore destituì il questore di Siracusa. Il prefetto convocò subito i sindacati e gli agrari e la notte stessa fu siglato quell’accordo sul salario e l’orario di lavoro che fino a due giorni prima era stato negato. Ma poi non è accaduto più nulla. «Tutto insabbiato - dice Paola Scibilia - e noi non abbiamo mai avuto un sostegno, se si eccettua un piccolo vitalizio che la Regione Siciliana aveva accordato a mia madre, Itria Garfì, morta lo scorso agosto a cent anni sena vedere un po’ di giustizia».
Le denunce
Dall’inchiesta, infatti, non è mai scaturito un processo e le carte dell’indagine amministrativa del Viminale non sono mai state rese pubbliche. Piuttosto, vennero denunciati i braccianti che avevano manifestato: «Ci consigliavano di fare una causa - ricorda la signora Paola - mia madre non li ascoltava ma stava male. Noi siamo gente modesta. Temevamo, se le cose fossero andate male, di perdere la casa frutto dei sacrifici di una vita di mio padre e dove mia madre da sola doveva crescere tre figli». «Mio padre non era un rivoluzionario, era un lavoratore e un marito esemplare - racconta, ancora, la figlia di Giuseppe Scibilia - che amava i suoi figli e lavorava sacrificandosi. Lo hanno ammazzato come fosse un delinquente e ancora oggi c’è qualcuno che se lo porta sulla coscienza. Quel giorno io, che avevo 9 anni, lo aspettavo per pranzo sull’uscio della porta; l’ho visto agonizzante alla sera in un letto d’ospedale, con una grossa ferita di pallottola sul fianco destro. Sembrava già un cadavere, se ne andò durante la notte».
Ad Avola - dove nel bel teatro Garibaldi nei giorni scorsi si è tenuto un convegno sulla strage, il contesto in cui avvenne e il clima del ‘68 e nel municipio è in corso una mostra con i giornali dell’epoca - domenica prossima da Roma arriveranno i segretari generali di settore di Cgil, Cisl e Uil e da Palermo il presidente della Regione Nello Musumeci, per ricordare quel giorno terribile e dimenticato, una ferita aperta per gli avolesi, un semplice episodio della storia delle lotte sindacali del Dopoguerra per gli altri.
Verranno portate, come
ogni anno, corone d’alloro in contrada Chiusa di Carlo, poi
verranno premiati i ragazzi delle scuole del paese che hanno
partecipato a un concorso di scritti, disegni, lavori sui «Fatti»,
infine il sindaco Luca Cannata aprirà un convegno-commemorazione,
per ricordare che è passato mezzo secolo da quel giorno senza
giustizia: «Dal sacrificio di mio padre hanno avuto beneficio tutti
i lavoratori italiani grazie allo Statuto dei lavoratori che il
ministro del lavoro Brodolini preparò dopo essersi precipitato ad
Avola - osserva Paola Scibilia, la cui figlia Ivana vorrebbe ora
dedicare ai Fatti di Avola la sua tesi di laurea - solo noi non
abbiamo avuto nulla. Senza l’accertamento dei fatti noi non siamo
riconosciuti come familiari di vittime di una strage. A noi neanche
un risarcimento, un vitalizio o un lavoro è mai arrivato dallo
Stato».
La Stampa – 1 dicembre
2018
*****
Ed ecco l'editoriale che Emanuele Macaluso scrisse, l'indomani dei fatti, su L'UNITA':
LA TRAGEDIA di Avola,
dove ancora una volta si è sparso sangue dei lavoratori, non è solo
un fatto siciliano. Con questo attacco, proditorio e meditato, le
forze reazionarie nazionali hanno voluto montare una grossa
provocazione poliziesca e politica nel tentativo di bloccare il
grande movimento di lavoratori, di studenti, di popolo in corso da
diverse settimane in tutto il Paese. Questo movimento non si fermerà.
Respingerà ogni provocazione e andrà avanti, unitariamente e
combattivamente. È chiaro d'altra parte che lotte come queste per la
loro grande combattività, per la loro forte impronta unitaria, per
la loro estensione, per la qualità delle rivendicazioni che pongono
sul tappeto richiedono anche un profondo mutamento dell'indirizzo
politico del paese.
Non a caso l'eco di
queste lotte era stata avvertita anche nelle assemblee congressuali
socialiste ed era arrivata sinanco nel recente Consiglio nazionale
della Democrazia cristiana. Da più settimane la grande stampa
padronale conduce una campagna contro le rivendicazioni dei
lavoratori, contro la richiesta di un reale ampliamento della vita
democratica nelle fabbriche. nelle campagne, nelle scuole, invita
perentoriamente i dirigenti del centrosinistra a stringere i tempi
della crisi, a «mettere ordine nel paese». E noi sappiamo cos’è
per certe forze l’ordine.
Emanuele Macaluso |
Lo abbiamo visto in altre
occasioni, anche in momenti di crisi politica, nel 1960 per esempio,
e lo vediamo oggi, ad Avola. Non è certo difficile quindi
individuare le forze che hanno spinto e hanno dato gli ordini per
arrivare alla strage, perchè di una vera strage si tratta. Contro
chi si ò sparato? Da sei giorni i braccianti siracusani
unitariamente, con i loro sindacati — CGIL, CISL, UIL -
scioperavano per avere un nuovo contratto di lavoro. Scioperavano e
manifestavano nelle piazze, nelle strade, come la Costituzione
prevede e come è diritto dei lavoratori che hanno solo quest’arma
per far valere le loro legittime rivendicazioni. Gli agrari hanno
rifiutato ogni trattativa e la prefettura di Siracusa è stata con
gli agrari ritenendo esagerata la richiesta di modesti miglioramenti
salariali e normativi.
È bene, ricordare che ci
troviamo in una zona dove sono avvenute ampie trasformazioni agrarie
e colturali pagate tutte dallo stato e dalla regione, pagate dal
lavoro mal retribuito di migliaia di braccianti. Sul lavoro del
bracciante in queste zone pesa e resiste una rendita fondiaria fra le
più alte d'Italia — sei, settecento, ottocentomila lire per ettaro
di rendita fondiaria — sul lavoro di questi braccianti è cresciuto
il profitto capitalistico, la speculazione dei grossi commercianti di
agrumi e di primaticci, il profitto degli industriali che conservano
e trasformano questi prodotti nelle loro fabbriche del Nord.
Ponendo dunque con forza
il problema del salario i braccianti siracusani hanno posto e pongono
il problema della riforma agraria nelle zone trasformate, hanno
chiesto e chiedono la fine delle rendite parassitarle e speculative,
l'uso del danaro dello stato per trasformare e migliorare
l'agricoltura, per sviluppare l’industria di trasformazione nelle
loro stesse zone. È questo, del resto, il solo modo di uscire da una
crisi che ha portato lo scorgo anno a distruggere — per obbedire al
Mercato comune — cinquanta milioni di chili di arance.
Sono questi problemi che
scottano, i problemi che arrivano sul tavolo delle trattative
politiche fra i partiti deh centrosinistra a Roma e che non sfiorano
neppure .1 governanti siciliani impegnati in una disputa vergognosa
di sottogoverno che paralizza la regione. E noi affermiamo che non
saranno certo lo mitraglie o le bombe a fermare la volontà dei forti
braccianti siracusani e di tutti i lavoratori italiani, non saranno
questi metodi a risolvere i gravi problemi sociali che le lotte
propongono. Chiediamo intanto giustizia per i braccianti uccisi o
feriti, per le loro famiglie, per le popolazioni aggredite e colpite,
chiediamo in nome loro la condanna dei responsabili e, sul piano
politico, non aggiustamenti a una vecchia, fallimentare politica che
porta a questi sbocchi ma una nuova politica che affronti alla radice
i problemi della Sicilia, del Mezzogiorno, del Paese.
“l'Unità”, 3
dicembre 1968
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