11 dicembre 2018

NUOVE RIFLESSIONI SULLE LEZIONI AMERICANE DI CALVINO



Calvino e i meme: lo scudo delle Lezioni americane

di Teresa Capello

Quando vengono pubblicati i Six memos for the new millennium ovvero le Lezioni americane, mai pronunciate da Italo Calvino nel 1988, sono “una lettura che per molti ragazzi diventa la strada maestra per farsi lettori, studiosi, scrittori” come ha sottolineato recentemente Matteo Nucci: e proprio per questo motivo, s’aggalla qui un tentativo di darne una lettura relativamente originale, per quanto possibile, se pure legata alla tradizione.
L’indagine sulle strutture narrative caratterizza tutta l’opera dell’Autore. Narratività come costruzione strutturale dei discorsi, e pure della rete dei discorsi, che formano il mondo cui costantemente ci rapportiamo, fino a giungere al nostro individuale, quotidiano, storytelling. Dopo gli sperimentalismi novecenteschi, non avrebbe potuto essere altrimenti poiché la intenzionale mimesi narrativa della realtà, in varie forme, compreso il realismo tout court, stava concretamente lasciando il passo a forme nuove. Con l’invenzione delle macchine quasi pensanti, i computatori elettronici – espressione che piacerebbe al Marcovaldo di Calvino – divenne chiaro, infatti, che il pensiero umano avrebbe potuto o dovuto camminare altre dimensioni. Dimensioni nelle quali l’onirico, concretamente, si mescolasse al razionale, in modo nuovo, con una sfumatura che, osando, si potrebbe definire metafisica: aspetti che mi paiono, anche questi, con il gusto delle simmetrie tipico dell’Autore, geometricamente declinati, in tanti modi, in tutta la sua opera.
A guardar per un momento nella storia del nostro Novecento non solo letterario, forse si può affermare che Calvino presentisse il cambiamento legato al digitale ed al virtuale e la conseguente svolta ermeneutica, così come accade, più frequentemente di quanto si pensi, poiché la letteratura è sensibilissima al minimo mutarsi delle categorie del pensiero umano ed egli non poteva non avere questa intrinseca intuizione.
Dalle indicazioni delle Norton Lectures, potrebbe quindi essere significativo far emergere nodi sostanziosi di connessione con tematiche utili finanche a leggere alcuni aspetti della nostra stessa contemporaneità; proprio ora, almeno, nella fase in cui – nel concreto della percezione di massa – il tema della postverità emerge in tutta la sua urgenza. Tra altre categorie possibili ed oggetto di dibattito critico, vien da pensare anche al cosiddetto transumanesimo, poiché le forme del reale oltrepassano ipotesi – fino ad una labile distanza temporale appena trascorsa – archiviabili come fantascientifiche.
Lo sguardo di Calvino rivela un nitore che si coglie pure limpidamente: i memos sono infatti “i foglietti adesivi raccolti in piccoli blocchi” oppure indicano un “appunto, promemoria” (Mario Barenghi). Con una misurata e cauta distanza, possiamo notare che quest’espressione rimanda al successivo utilizzo della parola “post” ed al format virtuale chiamato “meme”, termine divenuto d’uso comune per indicare un formato espressivo di percezione immediata, e molto diffuso (si rimanda a questo proposito agli studi recenti condotti da Gabriele Marino); ma anche a proposito del successivo uso di “virale” – vi è da esserne certi – all’Autore sarebbe parso opportuno, se lo avesse potuto, aggiungere, nel tempo, altre riflessioni.
Pensando dunque al concreto rischio della “peste del linguaggio” (espressione usata nel saggio “Esattezza”) riprendiamo quindi in questa prospettiva, alcuni aspetti about the first memo, la prima conferenza, Lightness (ricordiamo che le altre sono Quickness, Exactitude, Visibility, Multiplicity, mentre il sesto discorso, Consistency, è noto solo dagli appunti autografi).
Calvino era giunto un momento significativo e culminante, per certi versi, nel proprio personale cammino – le Norton Lectures erano state tenute da T.S. Eliot, Igor Stravinsky, Borges – e questi sei discorsi compendiavano il suo proprio personale percorso espressivo. Scrive: “Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”. Nell’ultima delle conferenze, la chimerica Consistency, che aveva intenzione di terminare dopo aver tenuto le prime lezioni, lo scrittore sarebbe nuovamente ritornato sul tema preannunciato in esordio, ovvero il discorso sul “peso”.
È già di per sé definibile straordinaria l’enunciazione della propria poetica condotta con lucidità, con una razionalità cristallina e limpida, tuttavia, pensando ad una comunicazione interpersonale spesso distratta e frettolosa, e rubando le parole al testo stesso, si può affermare “la leggerezza pensosa può fare apparire la frivolezza come pesante e opaca” (p.15).
Veniamo al rapporto fra letteratura e scienza: la tensione tra lightness e consistency, con la quale si apre la trattazione – che crea tra esse incontro dialettico – si scioglie nella parte conclusiva del memo, quando si individuano scrittura letteraria ed indagine scientifica come due modi possibili per indagare il cosmos: “Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta…”.
Marco Belpoliti (in L’occhio di Calvino, 2006) sottolinea che “lo scrittore aveva infatti ben chiara la differenza che corre tra letteratura e saperi scientifici, tra arti visive e saperi sistematici, tra letteratura e forme di vita. Rispondendo a una intervista su scienza e letteratura, in un momento di grande euforia per i progressi scientifici, dichiara: «Il discorso scientifico tende al linguaggio puramente formale, matematico, basato su una logica astratta, indifferente al proprio contenuto. Il discorso letterario tende a costruire un sistema di valori, in cui ogni parola, ogni segno è un valore per il solo fatto di essere stato scelto e fissato sulla pagina. Non ci potrebbe essere nessuna coincidenza tra i due linguaggi, ma ci può essere (proprio per la loro estrema diversità) una sfida, una scommessa tra loro».” Massimo Bucciantini (in Italo Calvino e la scienza, 2007) afferma: “Calvino continua […] a guardare insistentemente alla scienza […] è consapevole di vivere in un universo integrato, di cui l’uomo è parte e in cui la scienza svolge un ruolo determinante”.
A volte però si incontra un peso che può schiacciare, come pietra: “Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore, picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. (…) Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica.”
Questa osservazione, di per sé, è intessuta di una leggerezza che è fatta della stessa meraviglia di quei sogni suscitati dalla Regina Mab, citati più avanti nel testo, ispirata dalla stessa “pensosità” di Mercuzio, come valore pragmaticamente costitutivo dalla leggerezza, che si oppone, coraggiosamente, come “vivacità, mobilità, intelligenza” – ad un peso che non sarà  quello della “consistency”, la coerenza strutturale, ma una “morsa di pietra”. Una zavorra che non permetterebbe, all’intelligenza, di esprimersi ma la attanaglierebbe forse per sempre, così come in parte potrebbe essere pure accaduto, a tratti, nel sentire comune, nella nostra vita. E se, inoltre, pensiamo allo stesso silenzioso velo che calò poi sulle parole di Calvino, parlanti se non per mano degli interpreti, dobbiamo ulteriormente specificare che continuare a leggere, e a dare leggerezza, a queste parole, pare gesto etico indispensabile.
Ancora alcune osservazioni, liminari ma non del tutto. Tutti gli autori che Calvino cita che cosa avranno in comune? In ordine sparso, Ovidio e Lucrezio, Montale e Cavalcanti, Boccaccio e Cervantes, Dante e Paul Valéry, Emily Dickinson e Leopardi, Henry James e Kafka, Shakespeare e Cyrano de Bergerac e tutti questi con Milan Kundera? Possiamo rispondere indirettamente e semplicemente, che erano scrittori che amava. Tuttavia, questo testo, come tutti quelli dell’autore, pare avere come sua connotazione di fondo the lightness inside, data da Calvino stesso, una lightness sua personale. E se – nel presente in rapida mutazione che può disorientare, più che in altri periodi storici – pensiamo, con Northrop Frye, che la letteratura “è la diretta discendente della mitologia”, allora questa importante interpretazione della scrittura – fin de siécle e fine Millennio – possiamo innanzitutto considerarla proprio come un nostro mito.
Calvino ci dà il suo scudo ed il suo filo di Arianna, come leggiamo: “…ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori”, i miti vanno dunque meditati nella lettura, senza aggiungervi aspetti della nostra soggettività e queste Lezioni americane sono state – e sono – un mito fondativo della letteratura del Nuovo Millennio, sulle cui spalle stare a guardare l’orizzonte nuovo, “Senza sperare di trovarvi nulla più di quello che saremo capaci di portarvi”, così come si concluse questa prima Norton lecture, aprendo la strada alle altre cinque.
E questa “leggerezza”, proprio come “l’immagine riflessa sullo scudo di bronzo” di Perseo, è forse data, in senso ampio, dal linguaggio stesso: è il linguaggio stesso a permettere all’uomo di non restare annichilito di fronte alla Medusa che egli osserva, ovvero lo scudo ed il filo consegnati all’umanità, di fronte ad una realtà sempre più complessa e pervasiva che può tendere persino a distruggere la sua capacità di orientarsi, e neppure in senso metaforico.
Analizzando la figura della “pietra”, che l’Autore  sceglie per rappresentare l’inconoscibilità del Reale, si possono poi formulare alcune ipotesi di lettura; la pietra rappresenta, infatti, il primo materiale che le mani dell’homo hanno manipolato, prima, e levigato, poi, e ben si accosta – nella similitudine – alla stessa parola, che nasce prima come verso gutturale e poi, gradualmente, si articola in un sistema comunicativo complesso e combinatorio, fino a permettere di esprimere l’inverosimile, quello che in esordio Calvino definisce nel suo insieme, e per quanto lo riguardi, “fiction”.
Possiamo pensare, assai verosimilmente, che la stessa Medusa del reale, la quale in mutazione babelica continua può annichilire, fosse stata messa al centro del discorso poetico ed anche enfatizzata dagli autori di letteratura definita poi postmoderna, ed in particolare da Borges, e poi da Eco, autori che si possono pensare in tensione strutturale a Calvino – che scriveva queste letture pochi anni dopo la pubblicazione del best seller dove imperversava il meduseo e temibile Jorge da Burgos – per fare emergere, tuttavia, la direzione cristallina delle “ragioni della leggerezza” la quale, non in virtù di una natura retorica, ma con l’astrazione della filosofia, riesce a dare definizioni compiute e piene del reale stesso, svuotando la pesantezza del proprio peso.
Solamente tentando di definire il peso per mezzo della parola, come tenta Calvino in tutto il suo percorso di scrittore, si può giungere infine a definirlo, anche nella sua inconoscibilità: perché la parola stessa si fa tramite del messaggio e diviene comunque strumento di conoscenza, mediata tra autore e lettore. “Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio”.
La scrittura letteraria, nell’auto-definizione che emerge, è dunque, compiutamente, il tentativo intenzionale di sfuggire a quella Medusa senza negarla, ma anzi posandone il capo mozzato – come fa Perseo secondo Ovidio, come riporta Calvino – su delicati fuscelli che si mutino in coralli. L’Autore dà indicazioni su come intenda il nucleo gnoseologico, e pure eziologico, della scrittura stessa. Uno spiraglio di lightness, nel tormento, lo conduce, cavalcantianamente, alla scrittura, che giunge dal desiderio e l’aspirazione di leggere, sul proprio scudo, da offrire poi a chi leggesse, l’immagine della scrittura stessa, vergata con leggerezza come possibilità di sconfiggere, uno tra i tanti, la Medusa che può pietrificare, l’inconoscibilità del reale, ma anche la condizione di noi stessi schiacciati da forze che, a volte, possono costringerci in involucri, cristallizzati e silenziosi.
Il lettore può leggere una sua personale via di uscita, pur senza pensare di dare una lettura univoca, facendo anzi della possibilità di più rispecchiamenti – infiniti, in fieri – l’essenza stessa della narrazione e più in generale della creazione poetica come baluardo umano alla fine di un mondo o alla fine dei mondi, eternamente.
La lettura di un testo letterario, quindi, è condotta seguendo l’infinita possibilità di continua ed infinita rilettura del cosmos, senza temere di maneggiarne tranquillamente la pietra – perché è lo scrittore ad averla levigata e plasmata prima di noi – noi unicamente guidati dal suo e dal nostro sguardo sullo scudo, arma di difesa forgiata dalla comunità, miti e fiabe o dall’autore stesso.
Filosoficamente, è da intendersi quindi la letteratura come una possibilità di essere “leggerissimi”, aggettivo di Boccaccio, ripreso da Calvino, per delineare, in un rapido tratto, Guido Cavalcanti che sale sopra le arche tra le sepolture e senza interrompere, neppure per un momento, la sua pensosità leggera, restando totalmente fuori, con la ragione, da qualsiasi rischio di involuzione  e di rifrazione in un labirinto, rappresentando invece la possibilità di uscire a rivedere un flusso di significanza, molto al di là dell’inconsistenza di giochi, a volte inutili, di specchi. “Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi del nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza”.
Oltre il cimitero d’automobili arrugginite, ma anche di ferraglia di computer, c’è questa possibilità, tracciata da Italo Calvino con abile leggerezza che non annulla per nessun motivo la complessità della questione, ma la pone con chiarezza davanti al lettore, che potrà farsene scudo anche nell’epoca della percezione virtuale e della finzione iperreale ed ologrammatica in tre dimensioni, o altre leggerissime cose pensanti. “Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro… Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta…” e si dissolve così una dicotomia antica, nell’orizzonte letterario, i cui numi tutelari, per Calvino, sono Lucrezio e Galileo. Ma contemporaneamente, come si era detto all’inizio, si può pensare anche al nostro presente, quando riconosciamo nella superficialità quella leggerezza che, ad un certo punto, Calvino classifica come “frivolezza pesante e opaca”, poiché “…nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna…”.
La frivolezza leggera e vacua, per vie di familiarità diretta, rientra nell’area semantica della pietra, ma potremmo anche dire la pietra perigliosa del punto troppo fermo, della mancanza di dialettica, che conduce all’impossibilità, aprioristica, purtroppo, in tal caso, di accedere alla leggerezza pensante. Anche un meme, se non si è consapevoli della sua funzione e struttura, velocemente consumabile, può rivelarsi non solo frivolo ed inutile, ma forse anche addirittura dannoso, quando veicola, velatamente o meno, un’idea non del tutto accettabile, sotto vari aspetti, come spesso si nota, a riguardo di intolleranze crescenti ed esplicite negazioni di valori.
Potremo essere catturati da Medusa, magari senza poter vedere i suoi occhi che, invece, vedono noi? Calvino era speranzoso, a questo proposito: “Poi, l’informatica. È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complesse. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre ma obbediscono ai bits senza peso”.
Se tutto accelererà, nella rete, con velocità sempre crescente, se il software si autogenererà, ed allora leggerezza e pesantezza delle ragnatele di bits potranno schiacciare sotto una “morsa di pietra” il libero pensiero o il libro-pensiero? Non è possibile dare una univoca risposta, né tanto meno in questo mio commento – poiché esula dalle mie intenzioni iniziali e dalle mie capacità, ma l’intuizione di Calvino, nella scelta dei termini, resta comunque potente: queste conferenze dovevano essere annotazioni, proposte, idee, che rimanessero, come promemoria e soprattutto pro memoriă.
Concludiamo con una considerazione di Mario Lavagetto (in Dovuto a Calvino, 2001) ed una frase di Calvino: “…il segreto (e il dono e la fortuna e la meravigliosa capacità) di Calvino fu di arrivare puntuale e di rappresentare sempre, in ogni circostanza, non un padre, né un fratello maggiore, non una guida e ancora meno un maestro, ma una possibilità di scelta. La sua fu una posizione discreta e defilata, molto ferma. Per chi si occupava di letteratura in quegli anni il suo lavoro costituì la dimostrazione che, al di là o al di fuori dell’avanguardia, ma senza rimozioni o cedimenti, senza rimpianti, senza impossibili tentativi di azzerare il tempo e le grandi lacerazioni del Novecento, esisteva ancora uno spazio praticabile. Si poteva seguire quella strada o rifiutarla, ma esisteva, e non poteva essere dimenticata o rimossa”.
“È difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non facendone l’oggetto irraggiungibile di una quête senza fine”.

Testo ripreso da 
http://www.minimaetmoralia.it/

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